Con Marx e senza Marx – Dal conflitto di classe al “mercato politico” (terza parte)

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di Salvatore d’Albergo
 

Vengono così al pettine i nodi della ricostruzione che occorre effettuare per ricomporre nel suo svolgersi – all’interno, appunto, del cinquantennio – della complessa trama di una pubblicazione che chiama in causa non tanto le peculiarità di una Rivista giuridica di tipo nuovo quanto un percorso politico-culturale che non può scindersi  dalle caratteristiche della storia italiana analizzata dall’angolo visuale del ruolo della Costituzione repubblicana, democratico sociale e antifascista: laddove cioè occorre spiegare  perché si è costretti  a riprendere in mano la concezione marxiana dei rapporti tra società e istituzioni (sempre tenendo presente le vicende della “statualità”), e ad ammettere – dopo un ventennio di disorientamento dovuto ad una cupidigia iconoclasta voluta dalla cultura (prima e più che dalle burocrazie politiche) sulla scia della “crisi del 1989 che socialismo e comunismo sono parole “probabilmente destinate a tornare” perché “le rappresenteranno le condizioni reali, le contraddizioni materiali del modo di vivere capitalistico, una volta raggiunti per estensione i confini del mondo”(6).

   Fuori dal descrittivismo acritico sulla frammentazione del lavoro e sulla delocalizzazione dell’impresa, si può fare autocritica almeno sul passaggio alla enfatica esaltazione dei “diritti individuali” e delle “libertà fondamentali” che attraversa ora la cultura giuridica, dimentica del fatto che i diritti poggiano (per non essere “cartacei”) sulla conquista di un “diritto” che valga a consolidare  un “potere sociale” antagonistico, attraverso lotte che sono anzitutto culturali, e che per tale tipo di obiettivo hanno non “ancora”, ma “sempre più” bisogno di un intellettuale collettivo che esprima egemonia: secondo quella concezione gramsciana che non basta rievocare filologicamente nelle ricerche diffuse ormai in tutto il mondo, poiché sulla base di essa urge il rilancio di una “prassi” che contrasti nuovamente le prospettive della conservazione, senza più assumere “il punto di vista dominante” sulla “stabilità” del sistema globale ma perseguendo con più meditata lena l’obiettivo di “trasformare” il mondo, cioè i rapporti di “potere” che la c.d. “globalizzazione” mira a dislocare in termini socialmente “regressivi”, usando sempre più le istituzioni internazionali come strumento di garanzia del dilagare della c.d. “lex mercatoria”, affatto “autonoma”.

   Recependo allora le ispirazioni che vengono dal “CRS” rinnovato, “DeD” che ne continua la lunga tradizione elaborativa sarebbe in grado di far tesoro della rilettura di una documentazione che i passaggi di fase vissuti offrono,  per verificare quali contenuti di fondo abbiano segnato una esperienza che è stata avviata su premesse – di natura sia ideologiche, che organizzative – tali da qualificare il ruolo sempre più decisivo acquisito anche dagli operatori del diritto (docenti, magistrati e avvocati), nel coinvolgimento di ogni cultura all’impegno di misurarsi con la novità profonda da cui il sistema socio-politico-istituzionale veniva coinvolto a causa dell’entrata in vigore della nuova Costituzione.

   Dal confronto tra l’odierno approccio con i connotati delle “serie” che si sono susseguite dal 1960 – anno della sua fondazione – una prima notazione si impone, nel senso che i caratteri dell’attuale fase di “garantismo” dei diritti volta a preservare le libertà messe in stato di fibrillazione dalle tendenze accentuatamente “autoritarie” intrinseche al “bipolarismo maggioritario” come tale non intercettabile dall’opposizione (peraltro vindice di un ruolo solo propagandisticamente dissimile), sono già inconfondibili con quelli della fase in cui “DeD” nasceva. Come si legge nella presentazione di allora – “DeD” entrava in campo affinché “la democrazia entrasse a far parte dei principi generali dell’ordinamento giuridico dello Stato”, ponendosi programmaticamente contro “le molte tenaci resistenze, più o meno consapevoli e più o meno inerti, che si ritrovano diffuse specialmente dentro e tutt’intorno alle strutture dell’apparato statale e dell’Amministrazione pubblica e in particolar modo nei loro gangli maggiori”.

   Si usciva infatti dalla fase di più strenua difesa dei tentativi dei partiti “centristi” di alterare incostituzionalmente il sistema di governo pluripartitico fondato sulla “proporzionale” pressoché “pura”, mentre oggi al massimo si punta ad imitare il modello c.d. “tedesco” di Bonn, parlando mistificatoriamente di un metodo “in senso” (!?) proporzionale, per nascondere le manipolazioni in senso “bipolare” e “maggioritario” che in Germania si sono consolidate in senso anticomunista ieri ed oggi.

   A tal fine, ricorrendo a forme anche repressive delle  libertà politiche, si era tentato di impedire la piena legittimità del concorso attivo  dei comunisti non tanto a qualificare con la propria presenza la “forma di governo” aperta a tutte le forze  che avevano deliberato la nuova Costituzione, quanto piuttosto alla creazione delle premesse istituzionali necessarie per l’attuazione dei principi della “forma di stato” di democrazia sociale: attraverso cioè un tipo di legislazione volta a incidere sui rapporti sociali in senso diametralmente contrario agli istituti inscritti nel codice civile del  1942 dal regime fascista a tutela della proprietà e soprattutto dell’impresa, avendo quest’ultimo intitolato al “lavoro” la qualificazione del potere di dominio organizzato nella società per azioni in virtù dei rapporti di “gerarchia” nei confronti dei lavoratori.

   L’Associazione dei giuristi democratici – come tale includente esponenti di una sinistra culturale articolata, anche sulla scia delle convergenze che si erano misurate sul campo contro l’emanazione della legge elettorale (chiamata “truffa”, perché maggioritaria a differenza di quanto avvenuto per le leggi elettorali emanate negli anni ’90) – ha in tal modo patrocinato una novità destinata via via a segnare di sé la dialettica delle idee in materia di diritto, sottolineandosi allora che il diritto va inteso come “una funzione variabile in confronto alla realtà sociale” per ancorarlo “di epoca in epoca” alla realtà sociale che lo genera e che ne è ordinata.

   E’ evidente l’incomparabilità di tale tipo di approccio con quello dell’attuale fase di arroccamento  sulla difesa della connessione tra i principi “supremi” dell’ordinamento e il solo elenco dei diritti di libertà, con esclusione dei principi che qualificano la Costituzione del 1948 al fine del superamento dei limiti della loro eguaglianza solo “formale” in nome delle esigenze di emancipazione che, tanto più nella globalizzazione anche in vista del riconoscimento dei c.d. diritti di “nuova generazione”, rappresenta la base di riferimento per una modifica degli attuali contenuti di classe dello status di cittadino e di lavoratore. Procedendosi in senso opposto cioè rispetto alla fase in cui le lotte  sociali e politiche puntavano a dilatare – riqualificandoli – i diritti, nello scontro con i rapporti di “potere” che erano stati recepiti, nella forma dei regimi liberale e fascista, all’ombra di una concezione di “stato di diritto” che continua a sintetizzare  – persino nel preambolo dei Trattati europei, che già dal 1957 puntavano a proclamare il primato del “mercato” indipendentemente dalla natura delle costituzioni dei singoli stati – il nucleo dei valori recepiti da una tradizione che la svolta degli anni della Resistenza, almeno in Italia, mirava a superare con la “costituzione-programma” (o indirizzo).

   Si era infatti percepita la necessità di aggiornare l’uso di tale enfatica formula, perché la si potesse ( e la si possa ) adeguare senza infingimenti alla natura dei processi di socializzazione che la democrazia liberale ostruisce ancora nelle forme rinverdite del neo-liberismo internazionale, attraverso quel passaggio dominante in ogni segmento “nazionale” della rete “transnazionale” del capitale finanziario e industriale, che fa del sistema di accumulazione della ricchezza il crocevia di ogni tipo di qualificazione della vita sociale, e quindi dei diritti che ne possono conseguire se il “diritto” punta (e riesce) “a introdurre vincoli ai poteri”, definiti “forti” per immunizzarli dal controllo sociale e politico, controllo come progettato nel modello costituzionale italiano.

   La novità di “DeD” – di cui i promotori dissero che poteva “destare sorpresa”, per il fatto stesso dell’accostamento della “democrazia” al “diritto”, contro l’agnosticismo eretto tradizionalmente avverso il mutevole corso della storia – comportava la lotta culturale per una nuova “legalità”, per un “diritto democratico”, nella consapevolezza di quanto impegnativo fosse il cammino da percorrere perché tutte le branche in cui si suddivide il sistema istituzionale/normativo fossero investite operativamente dai principi innovatori in senso democratico di ogni ambito della organizzazione sociale e della vita collettiva e personale: della persona “sociale”, ben oltre l’individualismo, riproposto oggi con diversa enfasi ma con pari motivazione ideologica dei partiti del bipolarismo allineato a tutela del mercato.

   Era ancora l’inizio, frenato  all’ombra del bipolarismo internazionale “est-ovest”, dovendosi tra pregiudizi e difficoltà reali mai del tutto superate distinguere tra il ruolo dei comunisti  come portatori dell’ideologia antifascista della trasformazione dei rapporti sociali e partire dai rapporti di produzione, e quello di un partito cui si addebitavano soprattutto le responsabilità storico-politiche degli obiettivi posti e imposti  dal partito-stato-guida, benché le esperienze del c.d. “socialismo reale” non fossero in alcun modo l’ascendente teorico-pratico dell’iniziativa di lotta per l’attuazione della democrazia sociale in una visione di “via nazionale al socialismo”. Era il momento cioè in cui le posizioni culturali ispirantisi al marxismo trovavano espressione politica attiva soprattutto in sede filosofica, e necessitavano perciò di investire i problemi teorici concernenti i rapporti tra diritto e stato implicati dal peso delle questioni concrete interne alla crisi di attuazione della costituzione,  bloccata sia per l’incompletezza nella creazione dei nuovi istituti organizzativi, sia per lo studiato rinvio delle riforme necessarie a cancellare le normative del regime precedente.

   Perciò i contributi più significativi erano già stati forniti dalle elaborazioni di Umberto Cerroni, con una copiosa indagine sui rapporti di Marx col diritto moderno, risultando un retroterra destinato a pesare in una fase successiva nel campo specifico degli studiosi e operatori del vasto campo del diritto positivo, nel quadro dei rapporti tra “jus conditum” e “jus condendum”, come per tradizione si usava distinguere, ma in questo caso con la pretesa di svalorizzare le norme della Costituzione-programma, come se fossero prive di “precettività”.

(segue)

 

NOTE

(6) Tronti, in Non si può accettare, 2009, pagg. 185-186

Con Marx e senza Marx – Dal conflitto di classe al “mercato politico” (terza parte)ultima modifica: 2010-12-30T01:18:00+01:00da iskra2010
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