Rivoluzione e Costituzione USA, il “we” marchio di confine, paradossi e geremiadi (2^ ed ultima parte)

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di Angelo Ruggeri

DALLA DICHIARAZIONE DI INDIPENDENZA ALLA COSTITUZIONE

IL PARADOSSO AMERICANO CHE SI IDENTIFICA COL NUOVO, IL MODERNO E IL FUTURO CHE VANTA L’ANTICHITA’ E L’IMMUTABILITA’ DELLA SUA COSTITUZIONE

 

Per chi non sa che “FEDERALISMO” SIGNIFICA DIPENDENZA CENTRALISTA DAL GOVERNO E DALLO STATO FEDERALE CENTRALE E DAI VERTICI CENTRALISTI DELLE REGIONI (O STATI).

Non per caso si chiama “Stato federale” centrale.

Come nacque la Costituzione degli Stati Uniti (accolta come “gran buona notizia” da tutti i possidenti). I 55 della Convenzione di Filadelfia, erano tutti mercanti, speculatori, banchieri che prestavano ad interesse, detentori di obbligazioni, proprietari di schiavi. Spaventati dalle rivolte dei territori e specialmente dei contadini del Massachusetts, a porte chiuse e in gran segreto, tradendo la Dichiarazione di Indipendenza e il mandato ricevuto dalle assemblee degli stati, scelsero empiricamente il “federalismo” per sancire l’esistenza di un forte governo centrale, dotato di esercito, marina, tribunale, corte costituzionale e Congresso dello “Stato federale” centrale per bloccare e reprimere (come è avvenuto) le ribellioni (specialmente dei seguaci di Shays) e le rivendicazioni autonome in corso nei territori, imporre tasse sui commerci esteri e stipulare trattati commerciali con paesi stranieri (gran buona notizia per i fabbricanti e i mercanti perché gli operai europei lavoravano per paghe più basse e le merci europee erano meno care per cui il pubblico acquistava queste più a buon mercato).

 

“Alle radici della democrazia occidentale borghese-liberale c’è la rivoluzione americana”scrisse una volta La Repubblica (A. Cavallari, 11-12-87). “Ma mentre quella bolscevica è sempre presente nel nostro immaginario e di quella francese si celebrerà il bicentenario, la rivoluzione americana (che pure fece da scandalo e da guida all’Europa della Restaurazione) resta la più dimenticata”. Il “gallo” Della Loggia invece aveva detto che il vantaggio dell’America su di noi europei consiste nel fatto che non capiamo che fu fatta con il “consenso generale”. E perciò la rivoluzione americana fu smessa dall’ordine del giorno nel momento stesso in cui fu fatta, per farla subito dimenticare.

 

D’altronde la Rivoluzione del 1776 fu soprattutto una operazione di ingegneria costituzionale, una limitazione del potere statuale, e non la proclamazione di un potere popolare e di diritti universali(come scriveva D. J. Boorstin, grande storico conservatore) e fu subito cassata con un’altra operazione di ingegneria costituzionale da chi scrisse la Costituzione degli Stati Uniti.

Non per caso le classi dirigenti statunitensi tesero a considerarono “antica” la loro Costituzione già 4 anni dopo l’entrata in vigore.

Fu “sacralizzata per necessità ideologica, per avere già da allora un archetipo valido per l’intero mondo. Per far dimenticare, appunto, che non proclama un potere popolare, ne nasce da una Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo, ma da “una delle poche ribellioni coloniali conservatrici” (D. J. Boorstin).

Significativa in proposito era anche la posizione di Jefferson, considerato lo statista allora più “europeo” e per così dire “progressista”, pur essendo di spiccato razzismo, proprietario di schiavi e favorevole all’assimilazione forzata degli indiani e all’espulsione degli Afro-americani. Jefferson sottolinea la differenza tra il suo paese e il vecchio continente, ponendo anzitutto il diritto statunitense all’espansione come “esempio” per il mondo in generale e soprattutto per il resto del continente americano, come documentato da Malcom Sylvers nel suo “Il pensiero politico e sociale di T. Jefferson”, Lacaiti Editore: libro di cui mi ha fatto dono per significare, con specifica dedica, la convergenza con l’analisi e il giudizio dato sul federalismo nel mio “Leghe e leghismo…e l’antitesi federalista al potere dal “basso” (Quaderno 2 del Centro Il Lavoratore) e che Sylvers, da storico e cittadino americano, ha voluto testimoniare con l’intervento che fece durante nella conferenza di presentazione di tale Quaderno, presso la Casa della Cultura di Milano.                                                                                             Eppure, scriveva Cavallari, nella Virginia del 1776 “è già stata innalzata la bandiera dei diritti di uguaglianza e della libertà” .Queste versioni della nascita degli Stati Uniti, messe insieme ci dicono dunque che la rivoluzione americana è “dimenticata”, perché a seppellirne senso e memoria hanno contribuito proprio gli storici ufficiali e gli apologeti del sistema americano.

 

E’ noto che gli statunitensi considerarono “eccessi” quelli della Rivoluzione francese, ma nemmeno la rivoluzione americana fu un pranzo di gala. La sua guerriglia “borghese” costò sangue, impiccagioni, profughi, impeciati, incatramati, ecc.; ma “inglesi” si consideravano gli insorti medesimi fino alla vigilia della rottura, e quindi sparavano anche contro una parte di sé; e “inglesi” erano anche quei Tories, americani da generazioni, che non erano d’accordo con la ribellione e si schieravano con le truppe di Sua Maestà. Gli americani avrebbero una prospettiva diversa delle rivoluzioni moderne, se si ricordassero qualche volta della loro. Se ricordassero qualche volta che anche la loro generò, inevitabilmente, molte migliaia di profughi politici, boat people espropriati e scappati in Inghilterra. E che anziché col “consenso generale”, gli americani la fecero anche contro una parte di sé, come società e come individui. Basta pensare a Rip Van Winkle, il personaggio di Washington Irving che chiude gli occhi prima della rivoluzione e si risveglia a cose fatte, come a dire “non voglio ricordarla”

Taluni possono forse vedere una qualche continuità storica fra rivoluzione americana e quella francese, ma certo non tutti gli americani di allora erano d’accordo. Nel prendere le distanze dalla Rivoluzione francese e dal giacobinismo (e nel far passare le leggi contro “gli alieni e i sediziosi”, destinate a prevenirlo e reprimerlo), non reagivano solo al “Terrore” rivoluzionario, ma anche all’idea delle possibili conseguenze di quello che avevano fatto loro.                                                                                                                                                                         E miravano a neutralizzare ad es. quei seguaci di Daniel Shays che volevano trasferire dalla carta alla realtà i principi della Dichiarazione d’Indipendenza secondo cui “tutti gli uomini sono creati uguali” – e che per questo volevano che i beni degli Stati Uniti che contro la Gran Bretagna erano stati protetti da tutti, fossero comune proprietà di tutti.

Non a caso, come non solo per provocare lo dice Gore Vidal ma anche storici conservatori come Samuel Morison la spinta a redigere la Costituzione degli Stati Uniti venne dallo spavento provocato dalla rivolta dei contadini del Massachusetts che rifacendosi al dettato della Dichiarazione di Indipendenza, credevano di poter estendere alla limitazione della proprietà la loro “ricerca della felicità”.

Sacralizzare la Costituzione americana era una necessità ideologica. Per far dimenticare la Rivoluzione, la Dichiarazione di indipendenza e gli Articoli di Confederazione e per salvaguardarla dall’usura del tempo restando sempre uguale e con la sua stessa ambiguità, salvo alcuni emendamenti che non l’hanno ne negata ne cambiata: tanto che si dice “vecchia” (sic) la nostra Costituzione del 1948, nel mentre stesso non solo non lo si dice della vetero-settecentesca costituzione americana del 1787, ma ad essa si guarda e ci si ispira, anzi, per le c.d. “riforme istituzionali” e per contro-riformare la democrazia e la Costituzione italiana del 1948. Il sigillo dell’ideologia nel senso marxiano – e non come è purtroppo usuale tra i nostri amici che stanno con Marx senza Marx cioè senza usarlo politicamente – di confusa sovrastruttura che maschera la realtà – è quanto e più che mai evidente nel caso della Costituzione USA. E sta a sottolineare l’incapacità sia di coglierla che di smascherarla anche da parte di chi ancora di recente, con paginone a pagamento sul Manifesto, senza specificare il ruolo dalla teoria, prepara specchietti per le allodole, “etichette” politiciste di “comunisti” con Marx e contro Marx. Che non specificano ne sottolineano il ruolo della teoria dalla cui mancanza origina la “caduta” e la decapitazione teorica, prima ancora che elettorale, politica e sociale, di ogni tipo di “sinistra” post-anti-PCI: etichette di chi non sa che oggi occorre dirsi ed essere e fare i marxisti nella prassi politica (non esiste marxismo senza politica) molto più che etichettarsi come “comunisti” che oggi vuole dire poco o niente, proprio a causa del tatticismo senza principi e la degenerazione carrieristica ed elettoralistica di chi si dice tale (ad es. esponenti come della borghesia sarda e massonica, come Di Liberto)

 

Dalla sacralizzazione ideologica della Costituzione USA, il paradosso che si origina e resta,

è quello che l’America, così identificata col nuovo, con il moderno e il futuro, di una sola cosa vanta l’antichità e immutabilità: la sua Costituzione. Ma nell’essere la più “vetero” del mondo, indica che non è stata segnata ne ha recepito gli sviluppi della storia e del pensiero moderno degli ultimi 300 anni. Diversamente dal costituzionalismo europeo continentale, pur contaminato dal presidenzialismo Usa: in Germania (cancellierato); in Francia (gollismo); e in Italia dove il Parlamento è stato aggirato dall’interventismo pro-maggioritario di Ciampi e dalla decisione presa da governo Prodi, non in Parlamento ma in tipografia, di stampare il nome del candidato premier sulle schede elettorali.

L’ideologia

– sovrastruttura che maschera la realtà – dell’immutabilità costituzionale tende a far dimenticare che la Costituzione Usa non è “democratica” ma “liberale”. A fronte della quale si finge indifferenza storica tra stato liberale e stato democratico (proprio come tanti della pseudo sinistra di origine borghese ed extra-antiparlamentare.

Il fatto è – e ce l’hanno mostrato Vietnam, Watergate, Irangate, New Deal – che la forbice tra la costituzione formale e la costituzione reale del Paese, violando persino la democrazia formale (l’unica “democrazia”, residuale e non sostanziale, prevista formalmente dalle Costituzioni liberali) è andata progressivamente allargandosi, coi processi di c.d. modernizzazione, fino a diventare praticamente incolmabile con l’allontanamento persino dalle votazioni di oltre il 50% dei cittadini. Allontanandoli dalla politica in generale ed in particolare ed immanioera inimmaginabile allontanandoli dalla politica estera per l’isolazionismo dei padri fondatori.

Per esempio: la Costituzione sancisce l’unione volontaria di tredici stati sovrani e il diritto di separarsi in qualunque momento fu affermato non solo da un teorico sudista come Calhoun ma dallo stesso Thomas Jefferson, schiavista ma padre fondatore, e a provare a metterlo in pratica, prima del Sud schiavista, fu il New England mercantile nel 1814. Però non c’erano e non ci sono nella Costituzione strumenti per risolvere la controversia, a testimonianza dell’empirismo praticone dei 55 ricchi possidenti che la scrissero in gran segreto nonostante avessero solo il mandato per sottoporre a revisione alcuni Articoli di confederazione. Ci vollero, quindi, infine e per ciò mezzi extra costituzionali, e cioè una guerra civile che sanciva le premesse per la crescita del potere del governo centrale: non ci sarebbe stato il New Deal senza la guerra civile e un potere di vertice e centralista del governo dello “Stato federale” (di cui i federalisti nostrani tendono a dimenticare che lo “Stato federale” resta ed è sempre uno “Stato”).

A sancire il centralismo del verticismo di potere del federalismo troviamo il rovesciamento dell’originaria idea costituzionale, con l’entrata di nuovi stati che traevano la propria legittimazione dal governo federale (anziché l’inverso come per i primi tredici); l’allargamento imprevisto del suffragio a ceti non identificabili con aree e località territoriali specifiche; l’acquisto dei territori della Louisiana, l’allargamento del mercato nazionale, etc.; che ha progressivamente e sempre più reso irriconoscibili gli Stati Uniti rispetto a quelli del 1786.

 

Continuità e immutabilità della Carta costituzionale servono, allora, soprattutto a funzioni ideologiche e di propaganda

(fingendo una indifferenza storica tra “stato liberale” e “stato democratico): verso il mondo esterno, come dimostra il fatto che essa è diventata un riferimento per l’Europa e che il governo presidenziale dello stato federale repubblicano Usa – bollato da Tocqueville come tirannia della maggioranza; e che ha sostituito l’equivalente governo del primo ministro inglese nel rappresentare simbolicamente nel mondo il c.d. “stato di diritto”; e verso l’”interno”.

Già Michael Kamen

, anche lui storico tutt’altro che sovversivo, ha mostrato come, proprio a partire dalla metà dell’800, la Costituzione servisse a sostituire e andasse gradualmente sostituendosi alla Dichiarazione di Indipendenza come documento fondante e legittimante del paese: sacralizzandola, la pars costruens, l’istituzione di una nuova autorità, prendeva il posto della pars destruens della Rivoluzione che abbatteva l’autorità e che preoccupava per il ruolo problematico, di turbativa che aveva nell’immaginario politico nazionale.

In un vecchio libro, di Marcus Cunliffe, si trovano citazioni di pubblicisti e uomini politici che, attorno al 1790, definivano già “venerabile” la Costituzione varata 4 anni prima. Insomma, prima ancora di diventare un fatto anagrafico, l’antichità della Costituzione USA era già una necessità ideologica. Servia, appunto, per far dimenticarwe la Rivoluzione da cui era nata. Solo che, sacralizzandosi, oltre che far dimenticare la Rivoluzione, la Costituzione USA ha fatto dimenticare anche se stessa; durante la guerra del Vietnam la gente veniva arrestata per aver distribuito ai militari il Testo dei primi 10 amendamenti, quelli della Carta dei diritti. E l’America era in guerra contro un Paese, il Vietnam, che, nella sua Costituzione, aveva inserito di peso il preambolo della Dichiarazione d’Indipendenza degli Stati Uniti d’America.

Per gli amerikanos

di turno anche oggi, però, nonostante che lo sterminio degli indiani e l’essere diventati una potenza precisamente imperialista o imprecisamente detta imperiale, per non dire della varie Guantanamo sparse per il mondo di oggi, eccetera, il Mondo, secondo gli amerikanos, ha trovato in quella Costituzione una specie di ancora di salvezza per opporsi alle camere a gas (dimenticando l’intreccio e il sostegno delle corporation e dei Ford alla nascita e ascesa del nazismo), per opporsi al comunismo e alle riserve degli indiani (di cui la Costituzione non ha impedito, anzi legittimato il genocidio, vedremo più avanti).

In realtà questo ragionamento serve a

disinnescare ideologicamente la critica e il dissenso, trasformandoli in una forma di consenso più alto, la cui forma volgare é: “se protestate è perché la libertà americana vi permette di farlo; perciò perché protestate?”.

Insomma, un procedimento retorico di cui si può rintracciarne le origini, in quella forma di predicazione che fu battezzata, appunto, “jeremiade“. Con cui la seconda generazione puritana di fine ‘600, criticando la forma che aveva preso la loro società, indicava come rimedio a tutti i mali il ritorno alle pratiche e ai principi originari dei fondatori; davanti ad ogni crisi, non di innovare si tratta, ma di restaurare; la critica all’America è legittima solo in nome dell’America.

La vetta della “geremiade americana” è Walt Whitman; ma c’è in Dos Passos (restituitemi “la democrazia dei miei libri di scuola”), e in R. Ellison (“riaffermare i principi su cui il paese fu costruito”), nelle celebrazioni radicali del “controbicentenario” dell’indipendenza del 1976

Nessuno che negli Usa si chieda se, per caso, tra belle cose, proprio la Costituzione americana stessa non contenga le matrici degli errori,

di quei crimini, di quelle crisi, che lamentano e che fanno oggi additare gli Usa come “fuorilegge” internazionale, come il Paese più brutale della storia e che ci si è presentato col federalismo.

 

Il rimedio della cultura americana è sempre la restaurazione, nel tornare indietro

, non nell’andare avanti: come tornare indietro più che andare avanti è quello che in Europa propongono banchieri e intellettuali, giuristi, giornalisti e politici “federalisti”.

E non si nomini lo schiavismo

, che la Costituzione USA sanciva, senza osare nemmeno nominarlo, ma dando una rappresentanza politica privilegiata agli schiavisti (tormentati come Jefferson, imperterriti come Washington), e che fu abolita per vie extra costituzionali, come un proclama presidenziale e una guerra civile.

E gli Indiani?

La Dichiarazione d’Indipendenza non portava la firme di pellirossa, che infatti a nessuno saltò nemmeno in mente di consultare.

La Dichiarazione d’indipendenza li nomina in tre parole: “merciless Indian Savage“, spietati selvaggi indiani, aizzati dagli inglesi. E la Costituzione Americana che istituiva una nuova realtà statuale sul loro continente e “lo stato di diritto”, non li nomina nemmeno. Una eliminazione politico costituzionale degli indiani, che fu la premessa per la loro eliminazione fisica e dallo spazio referenziale. Così che un secolo dopo F. Jackson Turner, ignorando il genocidio, potrà dire che la democrazia americana si fonda sulla disponibilità di “vaste estensioni di terre libere”: gli indiani non c’erano mai stati, e non c’erano più.

 

Il “we”, noi, che presuppone sempre “altri” a cui non si applica la democrazia

Il preambolo della Costituzione si apre con la fatidica formula “noi ‘people’ degli stati Uniti”. Ma come già detto non c’è nessuna proclamazione di “sovranità del popolo” ne tanto meno di un “potere popolare”. Così che quel termine “people” è reso e diventa un termine estremamente elastico, da poter essere riferito a “abitanti”, ma anche semplicemente a “gente”, mentre esseri umani, quali gli indiani nemmeno sono stati considerati.

Si spiegano anche molte cose di oggi, dei comportamenti antiumani, delle interferenze e dell’interventismo militare e di guerra, mascherata come “umanitaria”, degli Stati Uniti, il loro messianesimo nel mondo “globale”, se riflettiamo su quel “we”, noi, che significa: siamo “noi”, dice la formula, siamo la gente e il popolo degli Stati Uniti quelli che decidono rispetto agli “altri”. Noi e non gli indiani che non sono nemmeno nominati. Noi e – per proprietà transitiva – nemmeno gli “altri”, sia “interni”, come i non proprietari, i neri, le donne e gli immigrati specialmente oggi in regime di NAFTA (l’accordo, USA-Canada-Messico, di libero scambio e di libero sfruttamento e circolazione della mano d’opera). Noi e nemmeno gli “altri” che stanno nel nostro “cortile di case” del Centro e del Sud America. E oggi per estensione, nemmeno gli “altri” del Mondo: che possono solo scegliere se essere “altri” ma alleati e inclusi da “noi” che siamo il Bene; oppure essere “altri” dichiarati come nemici e come il Male, sempre da “noi” gente e popolo degli USA, ma per il tramite delle sue istituzioni separate dalla società e dal popolo stesso.

 

Col tempo e con lotte quasi sempre extra-istituzionali, sono stati aperti alcuni varchi riluttanti e limitati, nei confini di quel “noi” (a favore di donne, neri, e teoricamente persino degli indiani sopravvissuti, che vivono ma soprattutto muoiono per l’indigenza, nelle riserve in continuano ad essere confinati economicamente e politicamente.

Ma il marchio originario di quel confine resta e vive con la vigente e immutabile Costituzione americana.

In cui resta il “we” che presuppone sempre degli “altri” a cui la democrazia non si applica nemmeno negli “United States”. Cosa che spiega bene, appunto, le guerre “umanitarie”, gli interventi militari e in armi, palesi ed occulti (citandone alcuni al volo: Panama, Grenada, Santo Domingo, Haiti, Nicaragua, Somalia, Libano, Sudan, Corea, Vietnam, Cambogia, Somalia, Golfo 1, Balcani , Afganistan, Golfo 2, Libia , Guatemala, San Salvadore, ecc.). E le violenze; gli assassini di ostili leader di altri Paesi; il golpismo; la violazione dei confini di vari “altri” Paesi e del diritto internazionale; la base di Guantanamo che è la punta emergente di un sistema illegale mondiale, di rapimenti, tortura, ecc. che coinvolgono innocenti, senza diritto a processi né a diritti processuali o di altro tipo (“non-uomini” a tutti gli effetti), e che tre giorni fa – 17 maggio 011 – la Commissione del Congresso USA a confermato e ribadito, approvando la linea di “eterna guerra” umanitaria e al terrorismo. Linea della Guatanamo che l’attore hollywodiano che attualmente siede nella Bianca Casa non ha affatto chiuso, nonostante le promesse, anche perché quel “we” resta immarcescibile.

La democrazia americana, dunque, nasce, e resta come “bene” limitato ed esclusivo. E loro, “il popolo degli Stati Uniti” del preambolo, tramite i suoi “comandanti in capo” – appropriato termine militare con cui si definiscono i politici a capo dei vertici e del verticismo istituzionale democrazia americano -, si arrogano ancora il diritto di definire ideologicamente la democrazia e di concederla, imporla e sottrarla anche militarmente a tutti gli altri. 

Rivoluzione e Costituzione USA, il “we” marchio di confine, paradossi e geremiadi (2^ ed ultima parte)ultima modifica: 2011-05-28T00:05:00+02:00da iskra2010
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