Con Marx e senza Marx – Dal conflitto di classe al “mercato politico” (ottava parte)

 

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di Salvatore d’Albergo

Si era nella fase più avanzata del contributo politico-culturale del Presidente del “CRS” – di cui, dal 1973, “DeD” era espressione – il quale (a differenza da Amendola) aveva sinanco affermato che la prima riforma dello stato è la riforma dell’economia (23) si da prospettare obiettivi ben più incisivi di quelli (peraltro da riqualificare) del c.d. “stato sociale”, per coinvolgere nella visione della socializzazione del potere prima e più che la “distribuzione, la “produzione” della ricchezza: problematica che l’attuale fase di c.d. “globalizzazione” non fa che ripresentare nelle forme dilatate di una medesima questione sociale nel rapporto – drammaticamente accentuatosi – tra produttori e sfruttati nella fabbrica “deterritorializzata”, e nella società.

Nel groviglio della situazione maturata negli anni 1975-1978, “DeD” non usciva tuttavia del tutto immune dal logorio per il progressivo precipitare del complesso di eventi che proprio dal 1978 hanno impresso avvio a una deriva – oggi rivelatasi non solo logorante, ma anche traumatica – riguardante tutti i fronti del terreno sempre più esteso su cui i comunisti avevano coinvolto avversari ed alleati per dare attuazione alla Costituzione: cercando al tempo stesso di fissare i punti di non ritorno del superamento della “liberaldemocrazia” – oggi a malapena velata da chi ha lanciato la formula piuttosto anodina di “democrazia costituzionale” – e di aprire varchi qualificanti verso una democratizzazione che incidesse sul sistema di potere del capitalismo, nelle varie direzioni in cui l’organizzazione della società e quella dello stato reclamavano profonde trasformazioni nella prospettiva “emancipatoria” che segna originalmente la Costituzione italiana.

Hanno concorso infatti a tale logorante abbrivo, una serie di novità politiche “interne” ed “esterne” come: l’elezione a capo dello stato del Presidente Pertini (socialista); la c.d. “strategia dell’Eur” della Cgil; l’emanazione della c.d. “legge finanziaria” in antitesi con l’imminente riforma sanitaria, come tasselli di un quadro politico-istituzionale segnato dall’assassinio di Moro, dall’elezione di Papa Woytila e dalla creazione dello “SME”, seguito di lì a poco dalla prima elezione di quello che si chiama ancora “parlamento europeo” benché sia l’ibrida sommatoria di rappresentanze “nazionali” in un vertice “sovranazionale”.

Da ognuno di tali eventi sono emersi aspetti di una articolata strategia di contenimento ideologico e politico di una situazione sociale e culturale che era stata scossa da processi liberatori, potenzialmente pervasivi proprio nella situazione italiana (non a caso additata universalmente come “anomala” perché di avanzata democrazia), con gli effetti di “controtendenza” rispetto al nesso autonomia sociale/democrazia di massa che miravano a determinare una sorta di cortocircuito: l’anticomunismo strisciante del messaggio papale; la pseudo legittimazione democratica delle istituzioni “europee” imperniate sul primato del mercato finanziario; la resipiscenza del sindacato “di classe” sulla natura organicamente “autonoma” del lavoro rispetto al potere dell’impresa sino alla c.d. “autoregolamentazione” dello sciopero (senza porsi il dubbio se con ciò si ledesse già la “dignità sociale” dei lavoratori, oggi addirittura ridotta a semplice dignità “individuale”); la scelta di sostituire l’abbandonata politica di programmazione dello sviluppo economico con la programmazione “finanziaria” di uno stato avviato a ridurre nei confini della c.d. “azienda-Italia” la latitudine e l’efficacia di una “socialità” subalterna alle prospettive di equilibrio dei bilanci pubblici, facendo del “risanamento” il pretesto del “rovesciamento” di linea insita nelle rivendicazioni delle riforme sociali e amministrative risalenti addirittura alla fase “costituente”, oltre che alla normativa costituzionale sui “diritti sociali”.

Ed è nel dipanarsi del passaggio dagli anni ’70 agli anni ’80, e vieppiù nel corso degli anni ’80 – al cui inizio il “CRS” muta statuto e diventa a sua volta “Associazione” per il confronto con studiosi operatori ed anche istituzioni di ricerca “di diversi orientamenti ideali, politici e culturali”, con la convergenza di ben 80 promotori – che la Rivista diviene luogo di incrocio con le vicende della politica che si riverberano sulla sua produzione scientifica, misurandosi con i contenuti di linee capaci di appannare l’identità rivendicata nell’impostare le serie del 1973, con la conseguenza che quel dualismo già serpeggiante nei termini contrapposti di “politica” e “tecnica”, si è poco per volta tradotto in un uso “tecnicamente” conseguente di politiche istituzionali (contornate da diagnosi socio-politiche in esse confluenti o da esse influenzate), come tali destinate ad ammortizzare quasi interamente le posizioni culturali dei comunisti, e la funzione del marxismo.

Si avvia così l’interferenza in sede culturale di indirizzi politici volta a dare nuova versione – con la pregiudiziale del c.d. “CAF”, motore del “pentapartito” – all’anticomunismo, in una fase però che andava segnandosi con la crisi non solo del sistema di relazione tra i partiti, ma dello stesso sistema democratico, a causa dello snaturamento in corso nei partiti di governo: sicché lungi dall’affrontare la “questione morale” nei termini proposti da Enrico Berlinguer (via via isolato anche in seno al gruppo dirigente del Pci), si rovesciavano i termini del rapporto tra “efficacia” sociale del potere democratico ed “efficienza” tecnica degli apparati politici e amministrativi, introducendo implicitamente analisi basate sulla scomposizione dei rapporti tra direzione politica e gestione burocratica, la cui organicità i comunisti sino a quel momento avevano rivendicato proprio come conseguenza della teoria marxista del diritto e dello stato, attaccata in radice da Bobbio con il preciso obiettivo di dequalificare la cultura istituzionale del Pci, con gli effetti – poi denunciati tardivamente dallo stesso Bobbio – che sono riscontrabili nell’incidenza della strategia istituzionale del Psi “craxiano” sulla c.d. “governabilità”, categoria concettuale che si disputano con i loro “revisionismi”, centrodestra e centrosinistra.

Basta rileggere le domande che Antonio Baldassarre (di recente confluito in “Forza Italia”) ha rivolto a quello che si considerò “ministro-ombra” del Pci nella fase della “solidarietà nazionale” (24), per comprendere quale tipo di itinerario si andava aprendo soprattutto nella veste o di “interviste” o dei ripetuti “editoriali”, come tali sovrapposti “politicamente” al lavoro “scientifico” contenuto nelle varie annate di “DeD”, specie degli anni 80-90, e quindi per cogliere il serpeggiare della formazione di linee di elaborazione preordinate (o trascinate) verso sbocchi allora imprevisti (benché prevedibili, proprio a causa delle loro basi culturali e storiche) di quello che si è configurato come un lento smottamento: sino al rovesciamento dei principi costituzionali in materia di “forma di governo”, come esito della rinuncia a perseguire gli obiettivi della “forma di stato” di democrazia sociale sotto i pretesti, prima dell’informatizzazione e poi della globalizzazione, di cui si è proclamato con particolare enfasi a sinistra essere l’incontrollabile antidoto della democrazia di massa.

Ora, i quesiti a supporto dell’intervista di Baldassarre convergevano verso l’idea che al Pci sfuggisse l’esigenza di badare più che alla centralità del parlamento, a ciò che in misura “incomparabilmente maggiore” concerne il “nocciolo duro” dell’organizzazione pubblica del potere, in tal modo ripetendo quel che in proposito si è sostenuto nel senso che “non si possono lasciare intatte le norme costituzionali” nelle quali “pochi e non estremamente innovativi sono i principi sulla pubblica amministrazione”, al contrario di quanto avvenuto per parlamento, capo dello stato e governo: ma dimenticando (ciò che per un esperto è grave) che l’art. 97 C. è la “seconda sezione” del Titolo concernente unitariamente il “Governo”, a partire cioè dalla “prima sezione” sul Consiglio dei Ministri, il che smentisce il pregiudizio infondato della critica (25).

Ne è derivato che – sia pure senza adottare immediatamente la linea che porterà poi a condividere la proposta di separare la direzione politica e la gestione degli apparati amministrativi, secondo una logica di “aziendalizzazione” che era nel contempo alla base della politica di “privatizzazione” delle partecipazioni statali gradita anche dalla destra comunista (sempre più influente nelle proposte “specifiche”, all’ombra di formulazioni più o meno unitarie di carattere “generale”) – frattanto ci si è orientati a condividere soluzioni e orientamento verso il potenziamento del ruolo del Presidente del Consiglio, in una logica enfatizzata dallo stesso Ingrao sulla piena congruità di un eufonico “governo forte” con un “parlamento forte”, sottovalutandosi il fatto che il primo di tali simbolici enunciati è esaltato da chi è contrario pervicacemente al secondo, come dimostra il fatto che i vari modelli di “riforma istituzionale” partono dalle riforme elettorali per fondare il primato dell’esecutivo – il “governo forte” – contro il c.d. “assemblearismo” parlamentare.

Si sono manifestati così i primi segnali di uno slittamento che assumerà più nette proporzioni, pur nella generica denuncia dello snaturamento in atto nei rapporti governo-parlamento a favore del primo tramite la progressione nel ricorso abnorme alla decretazione d’urgenza, come via “politica” verso una deriva di metodo dovuta all’incalzare della pressione per le “riforme istituzionali”: ciò che la creazione della prima “commissione bicamerale” (Bozzi del 1983-85) testimonia, in concomitanza con la prima forma di adesione del Pci all’idea che la Costituzione potesse non considerarsi più (come si diceva) “un tabù”, togliendo il veto che sino a quel momento era stato posto a discutere ufficialmente di un tal tipo di tematica “a tutto campo”.

E in proposito molto significativo rimane il fatto che, nell’area degli studiosi gravitanti nel “CRS” e nella stessa “DeD”, sia stata elaborata una proposta (firmatari deputati della “sinistra indipendente”) volta alla riforma “unicamerale” del parlamento, con motivazioni però diverse da quella avanzata alla Costituente in nome della necessità in una forma di stato di democrazia sociale di non differenziare in alcun modo la derivazione della sovranità popolare, come nella tradizione classista del bicameralismo liberaldemocratico: recependo viceversa sia la spinta di esigenze di tipo “efficientistico” miranti alla riduzione del numero dei rappresentanti popolari, sia la denuncia della ripetitività defatigante della procedura di elaborazione delle leggi (26).

Questione quella del numero dei membri della Camera, ancora ripreso in proposte ora “in itinere” per la revisione della forma di governo di iniziativa del centrosinistra, e quindi palesemente iscritte in disegni che risentono del clima instauratosi per la deriva imposta dalla svolta antiproporzionalistica del 1993, donde la nascita e poi il consolidamento del “berlusconismo”.

Erano i primi sintomi, scarsamente avvertibili dal corpo sociale e politico dei “militanti” prima, e ancora più delle masse, di incertezze intorno al nesso Costituzione-riforme istituzionali, che derivavano da una più generale inquietudine (foriera anche di perplessità) circa i mutamenti di fondo registrabili sia negli interventi di Ingrao sulle risposte da dare al fatto che “i poteri si rifondano” (27); sia nell’editoriale con cui (succedendo alla breve “nuova serie” diretta da Brutti nel 1984, dopo la direzione di L. Berlinguer, entrambi poi confluiti nel PDS) Pietro Barcellona inaugurava la sua prolungata direzione, preoccupato di rilanciare e “ripensare qualche volta in modo radicale la cultura della sinistra”, per indirizzarla a “una nuova fase di riforme”, pensando al “riconoscimento dei caratteri statalistici” assunti dallo stato sociale (terzo settore e volontariato), nonché di affrontare il nesso potenzialmente contraddittorio tra l’obiettivo di valorizzare i “nuovi beni” legati alla pace e all’ecologia, e l’incidenza della sovranazionalità europea in nome della quale l’indicazione era rivolta a innovare le “tradizionali identità culturali della sinistra europea, accentuando il collegamento con la sinistra europeo-occidentale” (28).

Non era forse ben avvertita nel crogiolo di quel passaggio di fase, la incombente divaricazione tra le spinte dei movimenti eredi della contestazione degli anni ’60 sfocianti in iniziative di tipo “referendario” (ma rischianti così di “pietrificare” la democrazia diretta propria della democrazia di massa); e l’enfasi progressivamente accentuatisi sul ruolo del “livello europeo” di un’organizzazione del potere sempre più verticistica, incontrollabile e luogo – oltretutto – di alimento del contrasto tra le normative sovranazionali e quelle statali, le prime essendo elaborate da esponenti c.d. “indipendenti” degli stati medesimi, con il rischio di delegittimare persino le Costituzioni nazionali, nel segno del primato del mercato sulla democrazia sociale, specialmente italiana.

Le marcate suggestioni di un europeismo sempre più acritico – nella deviante contrapposizione tra “euroscettici” ed “eurottimisti” degli anni successivi che hanno visto accompagnare sino a Maastricht (ed oltre) la creazione della simbiosi tra potere monetario “istituzionalizzato” e cupola di una iperbolica “governance” di vertici di stato strategicamente dislocati a carico di popoli estraniati – hanno così compresso il lavoro politico-scientifico concernente la forma di governo in Italia. A misura del rimarco – anticipatore (anche nelle specifiche formulazioni dei fasti o nefasti della incombente “globalizzazione”) – dello sviluppo e delle dimensioni assunte dalle forme di internazionalizzazione della produzione e quindi del ruolo crescente delle grandi imprese multinazionali e delle relazioni monetarie, oltre all’affermarsi della società dell’informazione: tutto ciò mentre l’attacco “craxiano” alla scala mobile e la replica referendaria del Pci (su cui si sono avanzate riserve anche a sinistra, imperniate su una, peraltro inesistente, “riserva sindacale” in materia salariale) dimostravano che lo scontro di classe rimane pur sempre attestato in ogni segmento “nazionale” in cui l’impresa transazionale incontra i suoi molteplici interlocutori delle opposte classi.

Sembrava che stesse sfuggendo il terreno sotto i piedi non solo al Pci post-berlingueriano – dato che solo Berlinguer tra i dirigenti politici non ha esitato a denunciare l’antiscientificità della concezione della “costituzione materiale” a cui si abbeveravano viceversa giuristi, accecati dal pseudo materialismo giuridico – ma anche a quel fronte culturale che, pur senza le abiure dei liquidatori del partito, ha cercato di non svendere il patrimonio che era stato alla base di creazione e rilancio di “DeD”, attestandosi su una posizione di “osservatori critici” delle modellistiche che la cultura borghese, come resuscitando dal lungo sonno degli anni precedenti veniva riproponendo, riaprendo l’armamentario che aveva languito durante il trentennio 1948-78 sia in materia di leggi elettorali, sia in materia forma di governo. Preferendosi piuttosto disquisire di “tematiche” implicanti più il richiamo ai “diritti” di nuove generazioni e alla filosofia politica (29) che alle questioni istituzionali ormai proiettate su un terreno separato, ma destinato a rimanere coltivato nel lavoro della Commissione De Mita/Jotti e poi di quella D’Alema, sino al processo revisionistico attivato nel 2001 e nel 2005, da centrosinistra e centrodestra (fino all’attuale “bozza Violante”). E rispetto a cui la Rivista dopo il 1997 ha preso più le distanze che una prosecuzione di serrata denuncia, mentre d’altra parte i giuristi antiberlusconiani hanno ritenuto appagante il loro differenziarsi dagli “eccessi” del modello proposto dal centrodestra, alimentando peraltro il preteso fondamento di una linea a metà strada tra la revisione “totale” necessitante addirittura di una apposita assemblea costituente (da taluni invocata), e una revisione “organica” che contrasta anch’essa con la politica degli “emendamenti” adottata altrove da chi ritiene indispensabile assicurare continuità alla costituzione da “ammodernare” sinceramente.

(segue)

 

(23) Ingrao, in Masse e potere, 1978

(24) con l’omonimo libro, del 1979, di Ferdinando Di Giulio, citato, in “DeD” 1981 n. 5

(25) in “DeD” 1981 n. 5

(26) vedasi “Parlamento tra crisi e riforma”, 1985, con relatori Barbera e Ferrara, che sul tema si erano impegnati su

“DeD”,il primo nel n.3 del 1981, il secondo con accenni in occasione della critica delle risultanze della Commis-

sione Bozzi, nel n.2 del 1985

(27) Ingrao, in “DeD” n. 1 del 1986

(28) Barcellona in “DeD” n. 6 del 1986

(29) tra cui campeggiano gli importanti contributi di Pasquale Serra su Bobbio ed Europa America, oltre che di

Finelli e Liguori sul marxismo e su Gramsci

 

Con Marx e senza Marx – Dal conflitto di classe al “mercato politico” (ottava parte)ultima modifica: 2012-03-14T08:25:00+01:00da iskra2010
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