Con Marx e senza Marx Dal conflitto di classe al “mercato politico” (decima parte)

 

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di Salvatore d’Albergo

Sicché appare necessario dare avvio ad una critica costruttiva della fase aperta dalla tanto decantata “bozza Violante”, invitando ad una riconsiderazione dell’asse teorico che comunque consenta di non confondere la Rivista con il lavorio delle 14 Fondazioni che si sono recentemente collegate per riproporre modelli “revisionistici” sulla scia di quanto sin qui si è affermato con la allusiva ma non sufficiente contestazione del “premierato assoluto” (così definito da Elia): come se non si dovesse piuttosto esecrare nel “berlusconismo” il pericolo che per la democrazia viene dalla qualità del “blocco sociale” di cui il centrodestra si è potuto fare interprete per un quindicennio, grazie alla porta spalancatagli dalla sostituzione del metodo elettorale “proporzionale” per una forma di governo verticistica basata sulle manipolazioni successive, ripetendo farisaicamente i criteri “truffa” denunciati solo quando l’asse della impostazione istituzionale del Pci aveva le basi teoriche opposte a quelle dell’attuale sinistra “neo-parlamentarista” (dopo quella della sinistra storica ottocentesca).

Non solo, infatti, si è lasciata solo sullo sfondo la contraddizione capitale-lavoro divenuta sempre più pervasiva anche se meno compatta “nazionalmente”, ma suggestionati da chi ha parlato (oltre che di “fine della storia”) di “fine dello stato” (e sinanco di “fine del lavoro”), ci si è lasciati coinvolgere dal condizionamento dell’ideologia giuridica della c.d. “razionalizzazione” del potere, in base alla quale i costituzionalisti (sempre più condizionati dalla politologia e sociologia di ascendenza statunitense) hanno accreditato il metodo della c.d. “ingegneria istituzionale”, del tutto indifferente al fatto che i modelli di forma di governo (e relative leggi elettorali) degli stati/nazione dell’Europa “continentale” presentano variabili diverse da quelle degli Usa e della Gran Bretagna (e classificate come “democrazie classiche”). E infatti solo i sistemi “sociali” dei due prototipi di democrazia liberale (cioè “autoritaria”, appunto perché distinta dai sistemi politico-istituzionali “totalitari”, fascisti e nazisti, a loro volta incomparabili con lo statalismo sovietico) presentano i caratteri di omogeneità” da cui dipende la “governabilità” delle rispettive società; mentre nei principali ordinamenti sociali “continentali”, per cause socialmente rilevanti in cui sempre e in misura diversa gioco un ruolo la natura “di classe” dei rapporti politici, si distinguono le molteplici ricadute istituzionali rese necessarie – nella loro prevalente disfunzionalità – dalla “eterogeneità” dei sistemi sociali stessi.

E’ da tali premesse che discendono le malferme discussioni su “bipartitismo” e “bipolarismo”, e che con quest’ultimo si tenta invano di comprimere il pluralismo sociale nelle gabbie tecnocratiche inventate per la Germania di Bonn, e per altri ordinamenti più o meno coerentemente e stabilmente “socialdemocratici”: con la conseguenza – tra l’altro – di agitare suggestioni “europeistiche” che celano l’omogeneità tendenziale della costruzione della “cupola” istituzionale dell’attuale UE, rispetto al verticismo istituzionale costruito in Germania, Francia, Spagna, Portogallo, Grecia (pur senza andare a più sofisticati confronti con altri paesi del medesimo “continente”).

Lasciando oltretutto in disparte, per il caso “tedesco”, che la “Legge Fondamentale” è stata elaborata sotto i condizionamenti dell’occupazione militare dei paesi vincitori i cui “tecnici” hanno anche suggerito freni alla dialettica politica come quello tanto enfatizzato della “sfiducia costruttiva”; e per il caso francese, che il tipo di “presidenzialismo” escogitato dal “gollismo” (e opportunisticamente impersonato poi dal “mitterandismo” socialista, con la passività della cultura istituzionale dello stesso PCF), risulta il frutto di una crisi sistemica palesata dopo solo otto anni dall’entrata in vigore in Francia di una costituzione che sostituiva (a colpi di referendum segnati da un forte astensionismo, per le ambiguità dei partiti moderati) un testo per alcuni tratti simili a quelli della forma di stato di democrazia sociale, che solo in Italia ha potuto prendere consistenza modellistica, con tutto quel che ne è seguito sino ad oggi nei due paesi con la presenza dei più forti partiti comunisti.

Di tale situazione storicamente provata, “DeD” ha fornito più o meno compiute “descrizioni”, essendosi poco per volta privata degli ascendenti teorici di una visione conseguentemente “critica”, e pur non arrivando a invischiarsi nell’opera di fervida collaborazione delle sedi accademiche (in cui si sono profusi “seminari” coinvolgenti gli studenti, più sul “revisionismo” in cantiere, che sulla illustrazione del modello costituzionale del 1948), ha finito per trovarsi in una posizione di “collateralismo”: per un difetto di cautela usata nel valutare i risvolti “politico-istituzionali” di una autonomia sociale ormai residuale, e comunque da non deludere stante la necessità di tener conto (almeno come “rimedio”) dell’istituto referendario, ovviamente di tipo “abrogativo”. Ma si è incorsi così in una sorta di trascinamento, date le circostanze rivelatosi incontrollabile, verso referendum di altra natura, tra i quali quello c.d. “confermativo” in applicazione eventuale dell’art.138 C. che, in base alla procedura di emanazione delle leggi di revisione costituzionale, ha potuto indurre a ritenere che fosse utilmente inquadrabile in una conseguente visione di “transizione costituzionale”. (37)

Ha così preso insediamento incontenibile la problematica “revisionista” sollevata da forze conservatrici degli assetti “sociali”, le une di destra in quanto riuscite ad uscire dalla precedente estrema minorità “ufficiale” (salvo le pressioni dei “poteri occulti” in senso eversivo a partire dal 1964); e le altre di sinistra, in quanto con il pretesto di “non modificare” la Prima Parte della Costituzione l’avevano messa però in sordina, rinunciando all’ombra del “deus ex machina” della “globalizzazione” alla rivendicazione dell’uso dei poteri di controllo sociale e politico del mercato, oltretutto additando come “nuova costituzione economica” il quadro dei vari Trattati europei sempre ratificati (donde le discussioni odierne sulla limitata portata dell’art. 41 C.).

L’impasse diveniva stringente, e rendeva problematico il mantenimento di una reale autonomia di ricerca sul presupposto ormai consolidatosi delle revisioni perseguite dal centro-destra nella pretesa di formalizzare il dominio ideologico conseguito dopo l’abbandono del metodo proporzionale, unico garante del pluralismo sociale, profittando della insistita strategia del centrosinistra nella proposta di una revisione “organica” della costituzione, per sua natura accomunante gli obiettivi dei due “poli” che – proprio perciò – non potevano non avere punti ideologici simili: dato che altro è la polarizzazione comunismo-fascismo e comunismo-anticomunismo, altro una polarizzazione imperniata sulla c.d. “normalizzazione” di un antagonismo sul “mercato politico” per la conquista del “governo” (la c.d. “stanza dei bottoni”), come ci si apprestava disordinatamente a fare, con una acrimonia ben più faziosa di quella precedente, quando il Pci era partito non “di sistema”, ma “antisistema”.

Perciò, come ampiamente e puntigliosamente rammentato da Cotturri, “DeD” nella ricerca di mantenere una autonomia fattasi più ristretta e stentata, non è riuscita a sfuggire ad aspetti di quelle gravi contraddizioni da cui erano segnati gli sforzi dei giuristi attivamente impegnati sulla traiettoria delle proposte del centrosinistra: che nel passaggio dalla commissione de Mita/Jotti a quella D’Alema, sono rimaste impigliate in una affannosa ricerca di criteri differenziali rispetto al modello predisposto dal centrodestra, orientato oltretutto a far valere a sua volta l’onnipotenza del “principio maggioritario” anche in sede di revisione costituzionale: ciò che mena scandalo, mettendo la sordina al precedente dei partiti del centrosinistra che hanno imposto con soli 4 voti di maggioranza l’avvio di un claudicante federalismo, nella falsa illusione di cavalcare un federalismo di cui i protagonisti reali si annidano in una “Lega-nord”” che ha così potuto ulteriormente radicalizzare la sua pretesa di sviluppare sino in fondo la revisione datata 2001.

In tale contesto, lo sforzo in sé meritorio volto ad esaltare l’esigenza di favorire il perpetuarsi di quel movimentismo sociale che con il referendum abrogativo era riuscito negli anni ’80 a porre qualche rimedio ai limiti divenuti insopportabili delle politiche legislative del centrismo e del centro-sinistra, si è scontrato con la sottovalutazione dei diversi piani e forme con cui il potere diretto referendario può obiettivamente esplicarsi: perché altro è intervenire con i referendum abrogativi per “bloccare” indirizzi legislativi in vista di (peraltro “eventuali”) nuovi interventi del sistema dei partiti; altro è ipotizzare la fecondità del referendum (a seconda dei punti di vista “oppositivo” o “confermativo”) previsto come elemento integrativo di una procedura di revisione costituzionale che va giudicata per i suoi “contenuti” in questo caso regressivi per la democrazia. Sì che la tesi della “processualità” dei percorsi costitutivi finisce per sbiadirsi come è avvenuto col referendum confermativo della revisione del 2001, connotato da una scarsa partecipazione popolare al voto, nonché – ma ancor peggio – quando ci si è guardati ottusamente dal rilevare come il progetto di revisione del 2005 recante il modello di forma di governo voluto da Berlusconi sia stato “cassato” dal voto contrario di un referendum caduto in un “silenzio assordante”, perché il centrosinistra (e particolarmente alcuni suoi mentori) avevano già preventivamente additato il pericolo, per il rilancio del revisionismo di centrosinistra, insito nell’atteggiamento di quei voti referendari che contro ogni tatticismo hanno utilmente – perché integralmente – bloccato un “processo costituente” come tale utile come “astrazione” concettuale, ma contradditorio se posto in senso “contrario” alla Costituzione, anziché a “integrarla” a favore di soggetti sociali fiduciosi nel referendum per consolidare istituti di più avanzata democrazia sociale e politica.

Con una esplicitazione che era mancata persino nei primi anni della rivendicazione dell’uso del marxismo, si è così documentato nella nuova serie “diretta” da Cotturri il convivere nel “CRS”, già prima che nella Rivista, del contrasto tra “pensiero critico” (o “radicalismo”) e “riformismo” che emblematicamente riflettono a livello teorico i caratteri distintivi propri delle sinistre protagoniste dell’esperienza della democrazia sociale, peraltro presentata prosaicamente come contrasto tra una linea “pessimista e difensivista”, contro l’altra “ottimista e innovativa”.

Ma per quanto meritoria potesse (38) apparire l’insistenza sulla contrapposizione di una cultura socio-politica sensibile al ruolo dell’autonomia sociale, a fronte delle ristrettezze asfittiche addebitate ai partiti (ma sottovalutando la “diversità” dei comunisti), nel momento in cui si denunciavano le caratteristiche della cultura giuridica rinchiusa nell’uso formalistico delle categorie di “potere costituente” e di “potere costituito” – demonizzando l’immobilismo dei “difensori” della Costituzione – si mostrava però un’inclinazione acritica nei confronti della c.d. “innovazione”, termine suscettibile di opposte interpretazioni sul terreno culturale prima che politico, se è vero che il “cambiamento” non solo non è neppure “riformismo” se può condurre al “populismo”, ma è l’opposto categoriale della “rivoluzione sociale” mediante trasformazione politico-istituzionale verso la socializzazione del potere.

La denuncia di immobilismo a carico dei protagonisti della mera “difesa” della Costituzione avrebbe avuto miglior accoglienza se, oltre alla precisazione che “difesa” doveva (per non essere “passiva”) al tempo stesso “rilancio” dei valori realmente complessivi della Costituzione, ci si fosse premurati di indicare i contenuti “univocamente” innovatori dei principi medesimi se posti nella prospettiva di una “dilatazione” della democrazia di massa già iscritta nel modello del 1948, per affrontare le nuove sfide del capitalismo internazionale-nazionale con la proiezione più avanzata di alcuni degli istituti nati negli anni 60-70 nel segno della “partecipazione”: cioè con l’obiettivo di ricomporre ad unità organica le manifestazioni di una vita collettiva – nella fabbrica e nella società e nello stato – a causa della disgregazione indotta dalla ricollocazione strategica dei poteri transnazionali dell’impresa, in una mai sopita tentazione di rovesciare il nesso tra “socialità” ed “economicità” istituito nella Costituzione italiana.

L’esigenza in sé pregevole di non stare fermi in un apparente conservatorismo istituzionale – che come tale comunque era un terreno irrinunciabile di tenuta contro la barbarie incombente sempre più, come oggi siamo costretti a registrare – si è però spuntata, di fronte ai due decisivi passaggio in cui l’istituto referendario ha giocato un ruolo a vario titolo rapportabile al discorso sul “processo costituente” (38) .

 

Il referendum non è solo un “sì” o un “no” ad uno o più quesiti, ed è una forma specifica di affrontare in modo “atomistico” (diversamente cioè dal “voto elettorale”) problemi di una dialettica sociale incanalata da vertici (i “comitati promotori”) dalla cui composizione sociale risulta la qualità della “domanda” e dell’”obiettivo” cui muove: e fatto tale pregiudiziale richiamo occorre meglio valutare il significato dei referendum elettorali come quello “pro” maggioritario del 1993 ponendolo in rapporto con l’obiettivo della presenza del referendum nel procedimento di una revisione costituzionale della forma di governo, limitatrice anch’essa come il “maggioritario” degli spazi sociali prima che politici.

(segue)

 

(37) Su cui una compiuta sintesi di Cotturri in La transizione lunga, 1997, che rimanda anche ad altri elaborati

Risalenti già al 1987

(38) in “DeD” 1997 n. 3-4

 

Con Marx e senza Marx Dal conflitto di classe al “mercato politico” (decima parte)ultima modifica: 2012-03-18T08:18:00+01:00da iskra2010
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