Con Marx e senza Marx Dal conflitto di classe al “mercato politico” (undicesima ed ultima parte)

 

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di Salvatore d’Albergo

Si rischia di perdersi così nei rivoli della casistica dei referendum proposti sin qui in Italia, per l’impossibilità di una valutazione univoca della funzione assolta dalla chiamata del “popolo” alle varie scelte “secche” tra sì e no; e soprattutto stando ai due casi che sono stati evocati per corroborare la fecondità del nesso dell’istituto referendario con i “processi costituenti”, non si può non riconoscere quanto peso sull’eliminazione del metodo proporzionale nelle elezioni parlamentari sia dovuto alla capacità di direzione – in opposto al ruolo dei partiti contrari al maggioritario, come sperimentato nell’applicazione del 1953 della (perciò disapplicata) “legge truffa” di allora – espressa dalle forze “borghesi” e dai “capo corrente” insediatesi negli appositi “comitati promotori”, la cui egemonia socio-politica si è espressa provocando un voto che è così stato assunto – senza però avvertirne il “popolo” – a base di quel mutamento di tipo “bipolare” nei rapporti tra i partiti degli anni 1993-94, rivelatosi come precondizione di rilancio della strategia delle riforme istituzionali trascinantesi da oltre un decennio.

Così proprio come esito del referendum l’iniziativa tornava nelle mani dei partiti “leggeri” che pur nella fragilità ( e proprio a causa di essa) rispetto alla fase 1948-1992, hanno poi assunto ancora una volta – la terza – l’iniziativa per la “bicamerale D’Alema”, e al di là delle buone intenzioni della cultura referendarista si è pensato da parte dei partiti medesimi di circuire l’opinione pubblica – già frastornata dalle iperbole referendarie, in quanto “manipolative” di “segmenti” di leggi elettorali vigenti per rendere automaticamente “innovativo” uno strumento formalmente “abrogativo”: con operazioni tipicamente “di palazzo”, come la previsione nella legge costituzionale del 1997 dell’indizione di un referendum “in deroga” implicita all’art. 138 C. (nel quale il referendum è solo “eventuale”), trascinando quindi ad un atteggiamento consolatorio le culture movimentistico-referendarie, indotte ormai a ritenere che gli “spiragli” aperti ad una democrazia diretta più o meno spuria dovessero essere bene accolti come lo furono le “audizioni” del più vario associazionismo: tra cui una particolare enfasi è stata data al c.d. “terzo settore”, menzionandone le potenzialità dell’esordio (40).

Come si deve riconoscere che l’istituto del referendum ha palesato sempre più la crescente poliedricità delle sue manifestazioni ed effetti, poiché le alternative tra una sorta di “iperdemocraticità” del sistema o la sua deviazione “populistica” con la chiamata del popolo al voto referendario, sono legate alla valutazione d’insieme del sistema politico, tramite il nesso metodo elettorale-forma di governo: ciò di cui ci si è resi conto tardivamente scoprendosi dopo l’uso del metodo maggioritario, è che da esso consegue anche – e pericolosamente – la possibilità che una maggioranza “governativa” determini in esclusiva il contenuto delle leggi di revisione costituzionale: esclusiva, che è stata fatta valere addirittura dal centrosinistra prima ancora che dal centrodestra.

Gli è che tutto il quadro dei ragionamenti che si erano fatti prima del 1993 a proposito dei caratteri del sistema democratico è stato capovolto, e che vi è vana ostinazione nel non ammettere che ciò sia dipeso dallo snaturamento dei caratteri della lotta sociale e politica, che ha così fatto ingigantire una destra che per oltre un quarantennio era stata isolata ed ininfluente parlamentarmente (salvo casi eclatanti come il “caso Tambroni”, e le sporadiche incursioni nell’attività legislativa). E che essa ha potuto insediarsi nel potere – con tutte le ben note implicazioni sul “berlusconismo” e le destre (di cui anche “DeD” ha formulato le sue analisi critiche nel 2003, segnata anche per gli ulteriori impulsi della nuova direzione di Umberto Allegretti) – a causa della deriva dovuta alla svolta ideologica degli “ex comunisti”, quando cioè dal conflitto di classe si è passati alla concezione della politica come arena del c.d. “mercato politico”.

Se ne deve concludere che i saggi che vanno dal 1999-2000 a seguire hanno arricchito la Rivista sui temi a vario titolo rilevanti del federalismo, dell’europeismo, della globalizzazione, del lavoro, e che nella loro pregevolezza hanno rivestito un ruolo di contorno rispetto alla tematica via via meno centrale del nesso tra “rappresentatività” e “governabilità” che frattanto vedeva devastare la situazione istituzionale nel suo complesso, essendosi da sinistra dato ulteriore contributo negativo al profilarsi dell’autoritarismo progettuale e reale del centrodestra, con quel “presidenzialismo” strisciante che è stato imposto con l’elezione diretta dei “capi” delle sedi regionali e locali dell’organizzazione istituzionale, facendola persino seguire da leggi elettorali che hanno prefigurato il tanto deprecato metodo “porcellum” poi adottato dal centrodestra per alterare la forma di governo.

Vero è così che il dipanarsi della storia politica e della vicenda di “DeD”, sono ricostruibili attraverso la verifica di quanto sia debordante per la cultura giuridica la sottovalutazione, o addirittura la ripulsa, dell’attenzione al nucleo principale delle questioni che concernono il nesso forma di stato/forma di governo, e che concerne la natura del “potere”, cui il “diritto” si incarica di dare le “forme” che discendono dalla qualità delle contraddizioni in campo ieri e oggi nella società e nello stato.

Ciò viene occultato dal privilegiare nella questione della democrazia il criterio “liberaldemocratico” enfatizzato di recente anche da Bobbio come mera questione di “metodo” e di “regole”, inviluppata nelle minutaglie tecnicistiche dei cultori delle leggi elettorali e relative “alchimie” (prevalentemente matematico-statistiche): appunto per eludere la centralità della qualità del potere e quindi del ruolo dei soggetti sociali e dei rispettivi rappresentanti politici, centralità che è accentuata e non diminuita dai caratteri della c.d. “globalizzazione”, che comporta una stretta connessione tra i problemi dello stato, non già una loro caduta di peso.

Sicché si deve dare in particolare risalto all’apertura che “DeD” ha da ultimo dato al tema della “democrazia partecipativa”, sia per le specifiche argomentazioni addotte da Cotturri e da Allegretti che vi si sono dedicati, sia perché a loro modo con il loro intervento si sono accostati al problema del “potere”, su cui le maggiori nebulose derivano dalla separazione della “teoria generale della politica” dalla “teoria generale del diritto”: a sua volta strumento di elusione della qualità reale delle intersecantisi questioni che in nome del “diritto positivo” sono distribuite in forma di studiata “separatezza” , nella preoccupazione ideologica di sostenere che il diritto è (l’indefinito) scenario in cui si regolano le “garanzie dei diritti” (oggi solo rafforzate dalle Corti Costituzionali) e simili, anche a livello internazionale).

E infatti Cotturri – che già aveva anticipato l’esigenza di superare quello che non ha esitato a definire “disorientamento” della cultura giuridica progressiva – ha rilanciato la problematica della “autonomia politica della società civile” e quindi della partecipazione, per sfociare via via verso la verifica dei problemi concernenti “un nuovo equilibrio mondiale policentrico” (41).

Ora a parte l’insistenza con cui tale richiamo è stato applicato ancora all’uso abnorme del referendum nella “revisione-riforma” della costituzione (sulla scia del “vulnus” aperto a proposito dei compiti dell’infausta commissione bicamerale D’Alema), quel che merita sottolineatura è l’intento di Cotturri di partire dal “movimento dei movimenti new global” con riferimento a Port Alegre del 1989, per chiarire come sul piano teorico la democrazia partecipativa si ponga come parte di una “tripla combinazione di poteri delegati, poteri diretti referendari e partecipazione”: criticando visioni (come quella di Dahl sui limiti del ruolo assunto dal c.d. “minipopulus”, per andare oltre a un approccio limitativo, cioè verso “l’autogoverno sociale” in una prospettiva di “amministrazione condivisa”, affinché si possa investire “perfino un nodo ‘duro’ ” come la politica di equità fiscale (42).

Quella che si configura, quindi, come indicazione di una linea per la “riduzione dei poteri delegati”, per fare incamminare “il decisore pubblico” verso strade inesplorate, appare fondata su una premessa – inevitabilmente non solo “politologica”, ma anche “giuridica” – di una rinverdita teoria del “potere” e del suo uso, sì che non si dovrebbe fare della questione che va sotto il nome di “bilancio partecipativo”la semplice legittimazione di interventi di nicchia come luogo della sola dialettica “locale”, su contenuti relativi alla sola spesa pubblica: mantenendo così estranei alla partecipazione i problemi sociali più complessivi che hanno come epicentro la produzione di “beni” prima che dei “servizi” e il ruolo del capitale industriale – finanziario.

In tale riduzione si incorre infatti se si fanno i richiami all’art. 118 n.4 C. (modificato dal centrosinistra con la legge costituzionale del 2001), per coinvolgere nell’esercizio di attività di “interesse generale” di competenza di “tutti” i livelli di potere pubblico i cittadini “singoli e associati”, tralasciando contestualmente di coinvolgere gli stessi soggetti della partecipazione alla lotta contro le “controriforme istituzionali” che in sede decentrata hanno introdotto poteri accentratori e ispirati a principi come tali delegittimanti la incisività dei “bilanci partecipativi”.

L’intervento successivo di Allegretti pur partendo da presupposti simili a proposito delle esperienze di democrazia partecipativa si impegna di più ad avvicinarsi a quelle che sono riassumibili come questioni del “potere”, in quanto benché radichi il nuovo fenomeno in ambiti “territoriali” e “tematici” che sono lontani dal potere centrale, palesa la percezione delle ragioni che inducono a chiamare comunque in causa lo stato oltre che il potere locale/decentrato, perché coglie gli aspetti di “tappa” e di “durata” delle funzioni di decisione pubblica su cui innestare i processi partecipativi, additando nell’art.3 secondo comma – che rimane la chiave di volta delle lotte per la trasformazione della società e dello stato, nella permanente prospettiva dell’attuazione della Costituzione – il riferimento centrale e indefettibile di tale problematica; riferimento che da un lato consente di non operare la svalutazione dei precedenti degli anni ’70 in tema di “partecipazione”, e dall’altro lato di attingere alla questione di fondo dei rapporti tra capitale e stato, che la democrazia partecipativa rischia di eludere quando pone l’accento solo sulla natura dei soggetti interessati come “i senza diritto”, come gli strati della popolazione “più debole”, compresi i “marginali”, a fronte dei soggetti in grado di accampare diritti protetti “su base proprietaria” (43) : cioè solo sfiorando la non più menzionata questione dei rapporti di classe, che cela la collocazione reale dei “diritti”, specie come diritti “individuali”, che la dottrina giuridica più recente tende ad esaltare genericamente in termini di “libertà fondamentali”.

Ciò è conferma, quindi della necessità di riproporre la questione sociale come fondamento della questione istituzionale, di cui la “partecipazione” è nuova applicazione, appunto in virtù del nesso tra art. 3 e Parte Seconda della Costituzione, nel testo ancora non revisionato grazie al voto referendario di cui non si è voluto nemmeno parlare proprio dagli antesignani della essenzialità di tale istituto nel caso del suo più emblematico significato di garanzia: sicché non appare persuasivo il richiamo all’art.47 dei trattati Europei che relega i movimenti in un ruolo che, proprio a causa della “cupola” pluriverticistica dell’Ue, rende effimera la menzione formale della democrazia partecipativa.

Se si vuole, pertanto, riaprire una prospettiva che faccia tuttora della Rivista lo strumento peculiare di una concezione critica del diritto alla luce delle esigenze di democratizzazione che sono assunte nella originale “testata”, si deve convenire che la tematica della “partecipazione” conferma la necessità di riaprire e sviluppare i termini di una continuità di approccio, che si riallacci alla contrapposizione ideologica tra materialismo storico e idealismo, affinché su tale premessa si colga nella “autonomia sociale” l’angolazione idonea a rilanciare l’iniziativa di lotta delle forze sociali che siano consapevoli della necessità di conquistare “potere” diffuso, tramite una politica “istituzionale” senza della quale si manterrebbe illusorietà alla idea astratta di rapporti indolori tra società e organizzazione politico-amministrativa.

L’autonomia sociale va cioè intesa come fondamento di un intervento contrastante il dominio dall’alto, che non può essere posto in gioco solo con la pressione di una domanda sociale qualificata dal “contenuto”, ma debole perché sguarnita di una proposta di trasformazione degli assetti di potere pubblici e privati che storicamente escludono non solo i “marginali” e singoli “individui”, ma interi gruppi sociali che vanno riattrezzati anzitutto ideologicamente nella capacità di incidere nei nuovi termini del conflitto di classe dilagante nel mondo: riconoscendo che i processi di transizione che accompagnano la dialettica sociale sono suscettibili di coinvolgere anche “riforme costituzionali”: ma solo al culmine di una coerente lotta per l’attuazione di una costituzione originale e avanzata come quella che – perciò – reclama non la mera “difesa”, passiva, ma il quotidiano impegno attivo per la legittimazione socio-politico-istituzionale del modello di democrazia sociale visto nella sua inscindibilità.

I contorsionismi politici cui stiamo assistendo dopo una progressiva deriva ventennale danno ragione a chi – quando nell’articolazione degli interessi del capitalismo privato stava per prendere corpo il blocco sociale buttatosi nella breccia del “berlusconismo” – aveva tempestivamente avvertito che gli avversari dell’autonomia sociale puntano allo “stato forte”, accampando esigenze di efficienza condivise dai riformisti, a tal fine mascherando l’intento di preservare l’autoregolazione produttiva del sistema sociale dietro lo schermo rivelatosi accattivante del “governo debole” (44).

Ne viene la sollecitazione ad aggiustare il tiro in una prospettiva di “internazionalismo sociale e politico”, capace di coinvolgere la “rete della democrazia” a partire dagli stati, per far valere la partecipazione come sistema di attacco “generalizzato” a tutti i rapporti – politici, economici e sociali – con strumenti istituzionali che nella seconda Parte della Costituzione italiana trovano nuclei forti da rilanciare in stretta connessione con i Principi Fondamentali intesi non riduttivamente come soli simboli dei “diritti” individuali, ma come architrave di una prospettiva emancipatoria dei “rapporti” sociali, di cui è parola nella Prima Parte della Costituzione stessa, che punta a garantire la “dignità sociale” (e non solo “personale”) dei lavoratori, nel quadro di una politica democratica di controllo del sistema delle imprese, investendone la articolazione sul nesso mercato nazionale – mercato- internazionale.

Per riprendere il cammino ormai sempre più necessario e incombente occorre però – nell’immediato – circoscrivere e respingere le posizioni di chi – come emerso in occasione del “no” al referendum confermativo della revisione costituzionale di Berlusconi e Bossi – ha fatto un “appello” ambiguo “per una riforma migliore”, nel timore che la ripulsa del voto popolare “archiviasse” il “riformismo”, contrario al c.d. “conservatorismo” dei difensori della Costituzione: “riformisti” che perseverano nel loro non meno pericoloso (45) attacco alla forma di governo, tramite il lavorio che prosegue con la c.d. “bozza Violante” usando l’esca della modifica della legge elettorale “manipolativa” del metodo proporzionale.

Mentre sul terreno delle valutazioni più generali del percorso da indicare a medio e lungo termine, occorre tener presente la necessità di muovere criticamente sulle direzioni concentriche rappresentate dalle recenti posizioni culturali: l’una sull’esaltazione della c.d. “fine delle ideologie” e dell’affermazione dei “nuovi soggetti economici” (46) ; e l’altra, sul lento recupero di una lettura della fase costituente (1945-1948) volta a riqualificare sinanche il ruolo dei costituenti “che si opposero alla Costituzione repubblicana”, pur di svalutare l’intesa tra i partiti di massa che elaborarono una “cultura politica” risultata indenne dal “tecnicismo della cultura giuridica”, benché tra i costituenti vi fossero suoi “eminenti rappresentanti” distribuiti peraltro tra i partiti stessi (47).

 

Così come è opportuno fare i conti con una vasta storiografia degli anni ’90 che, dietro alla ricca suddistinzione dei criteri ricostruttivi della storia sociale, politica e istituzionale postbellica (48), ha poi affidato alla sola competenza acuta ed autorevole di un cultore del diritto commerciale (49) la valutazione delle questioni che richiedono ovviamente anche quel tipo di illustrazione ma che per la loro qualità concernente i rapporti tra “grande impresa, potere e società” avrebbero dovuto fornire i dati “analitici”: necessari a riapprofondire la teoria “generale” dei rapporti tra economia, diritto e stato, come appunto è nella vocazione del marxismo critico dell’economismo nonché dell’ideologia “giuridica” borghese.

 

 

(39) si vedano “DeD”, 4-94/1-95 e 3-4/97.

(40) Cotturri, in “DeD” n. 3-4 1997

(41) Cotturri, in “DeD” n.1 del 2001

(42) Cotturri, in “DeD” n. 1 del 2005

(43) Allegretti, in “DeD” n. 3 del 2006

(44) Prospero, in Nostalgia della grande politica, 1991

(45) Barbera e altri, in un ”no” per le riforme, 2006

(46 Gervasoni, Storia d’Italia degli anni ottanta, 2010

(47) a cura di Buratti/Fioravanti, “Costituenti ombra”, 2010

(48) Storia dell’Italia Repubblicana, vol. 2** e 3**, 1995, 1997

(49) Cottino, in Storia d’Italia Annali n. 14, 1998

 

Con Marx e senza Marx Dal conflitto di classe al “mercato politico” (undicesima ed ultima parte)ultima modifica: 2012-03-20T08:20:00+01:00da iskra2010
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