Il suono di Platone

Analisi della riforma poetico-musicale affrontata dal filosofo greco.

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Vaso raffigurante l’impersonificazione della Musica

di Marco Montella

INDICE

 

  1. Introduzione 

  2. La notazione 

  3. Le testimonianze 

  4. Il concetto di musica per gli antichi 

    1. Nei poemi omerici 

  5. Pitagora 

  6. Platone 

    1. Vita 

    2. La Repubblica 

    3. L’arte educativa 

    4. La riforma poetica 

    5. La riforma musicale 

      1. Le melodie riformate 

      2. I ritmi riformati 

      3. Gli strumenti concessi 

      4. Le teorie platoniche riguardo l’onda sonora e la sua influenza sull’animo 

    6. L’educazione controllata dallo Stato 

    7. Così lo voglio ricordare 

7. Bibliografia 


INTRODUZIONE

Possiamo dire che la storia della musica occidentale ebbe inizio proprio nella Grecia antica. Prima dei Greci infatti la musica era sì diffusa in numerosi popoli ma non assunse mai l’importanza etico sociale che invece acquistò ampiamente tra il popolo ellenico, in quanto non venne considerata solo un accompagnamento alle attività della vita quotidiana o solo associata al culto divino ma fu anche un efficace strumento per veicolare sentimenti, valori civili e morali. Le testimonianze di brani musicali che ci sono pervenute sono prevalentemente di natura archeologica (sculture, vasi) e sono piuttosto ben conservate. Purtroppo quelle teorico-musicali, cioè riguardo l’interpretazione dei reperti, sono assai scarse e imprecise. Nei secoli, a causa di errori nella trascrizione o perdite di testi, è andato perduto il metodo con cui decifrare la notazione musicale. Tuttavia sono state fatte ricostruzioni (seppur spesso contrastanti tra loro) su come fosse suonata e cantata la musica in Grecia.

LA NOTAZIONE

La notazione musicale greca non si serviva del pentagramma ma di simboli alfabetici: per gli strumenti erano usati quelli fenici mentre per la voce quelli greci. Va tenuto presente però che per i Greci il concetto di altezza assoluta (1) dei suoni era sconosciuto: la notazione alfabetica serviva solo a indicare l’intervallo che si trovava tra due suoni (per la voce) o una sorta di intavolatura ( 2 ) (per gli strumenti). Per indicare la durata delle note invece, erano usati dei simboli affini a quelli metrici. L’elemento costitutivo per la composizione di brani era il tetracordo (dorico, frigio o lidio) e l’unione di due di essi formava un “modo” (simile al concetto moderno di scala). I modi attestati sono 7: misolidio, lidio, frigio, dorico, ipolidio, ipofrigio e ipodorico. Questi presentavano caratteri melodici e timbri caratteristici tali da renderli facilmente identificabili anche da un non professionista e da esercitare su quest’ultimo un peculiare ascendente morale. Per analogia possiamo ricondurci alle melodie indiane (ragas), arabe (maqam) tutt’ora esistenti.

TESTIMONIANZE

L’epitaffio di Sicilo (II-I sec a.C.) è una delle poche testimonianze musicali scritte a noi giunte quasi integre. Alcune delle parole sulla stele sono accompagnate dalla notazione musicale dando così la possibilità a colui che legge di cantare contemporaneamente.


Colonna epitaffio.jpgΕΙΚΩΝ Η ΛΙΘΟΣ

ΕΙΜΙ · ΤΙ ΘΗΣΙ ΜΕ ΣΕΙΚΙΛΟΣ ΕΝΘΑ ΜΝΗΜΗΣ ΑΘΑΝΑΤΟΥ

ΣΗΜΑ ΠΟΛΥΧΡΟΝΙΟΝ

Ὅσον ζῇς φαίνοὺ·

μηδὲν ὅλως σὺ λυποὺ· πρὸς ὀλίγον ἐστὶ τὸ ζῆν.

τὸ τέλος ὁ χρόνος ἀπαιτεῖ.

Io sono una pietra, un’immagine

Sicilo mi ha posto qui

segno longevo di un ricordo immortale

Per quanto vivi, risplendi: 

non addolorarti per nulla affatto.

Per poco è il vivere:

il tempo esige il tributo.

 

IL CONCETTO DI MUSICA PER GLI ANTICHI

Per comprendere appieno cosa fosse la musica in Grecia è importante specificare che il termine Μουσική riguardava tutte quelle attività connesse con le Muse. Esse infatti garantivano al musico l’ispirazione grazie alla quale egli poteva comporre. Tant’è che Platone nel secondo libro della Repubblica afferma che «quando il poeta viene innalzato sul tripode delle Muse non è più padrone del proprio spirito, ma lascia scorrere liberamente, come se si tramutasse in una fonte». Lo spettatore di conseguenza era portato a subire questo flusso di energia, derivante direttamente dalle divinità, e ne era come inebriato. «La Musa rende alcuni uomini degli ispirati e poi, per loro tramite, anche altri uomini hanno modo di provare il medesimo ἐνθυσιασμός […]. Infatti tutti i poeti epici, i poeti di valore, non è assolutamente per effetto della loro arte, ma perché sono ispirati e posseduti da un dio che essi danno vita a tutti i loro bei poemi. Lo stesso vale per i bravi poeti lirici […] non sono in possesso della loro ragione quando compongono dei bei versi. Nel momento in cui si lasciano prendere dall’armonia e dal ritmo, essi vengono come rapiti. […] Il poeta non è in grado di creare se non viene prima ispirato da un dio. […] Non è infatti in virtù di un’arte che i poeti si esprimono in tal modo, ma per un privilegio divino.» (3) Di conseguenza colui che possiede una certa attitudine allo studio e all’esecuzione musicale non potrà mai eccellervi se non grazie alla divinità. Anzi costui diverrebbe come insensibile alla bellezza e a tutto ciò che è divino in quanto a poco a poco la sua sensibilità non sarebbe più affinata. Per capire meglio questo concetto è qui riportato un passo in cui Socrate espone a Glaucone questo problema: «Ma che avverrà se si limita a ciò e non cerca alcun contatto con la Musa? Posto pure che ci fosse nella sua anima un barlume d’amore per lo studio […] diverrebbe, per mancanza di sollecitazioni e di nutrimento, fiacco, cieco e sordo ad ogni ragione e nemico delle Muse, e non farebbe più ricorso alla parola per persuadere, ma passerebbe alla violenza e all’aggressività, […] proprio come una bestia; si ridurrebbe a vivere nella più assoluta ignoranza […] al pari di essere incivile e sgraziato.» (4)

NEI POEMI OMERICI

Le prime forme attestate di musica furono quelle legate alla tradizione epica. I poemi omerici infatti erano sempre accompagnati dal suono di una lira o di una cetra. Il rapsodo e l’aedo instauravano un intenso rapporto col pubblico che li stava ascoltando, reso sicuramente più suggestivo dall’accostamento di melodie alla declamazione dei versi. Queste quindi dovevano variare a seconda della scena che il poeta voleva rappresentare. La musica, durante la recitazione del testo, era prevalentemente improvvisata e dettata dall’ἐνθυσιασμός divino ma seguiva delle formule melodiche tipiche e tradizionali chiamate νόμοι.

Nei poemi stessi inoltre possiamo trovare numerosi riferimenti all’importanza della musica, associata soprattutto al suo potere di commuovere, dilettare e placare l’animo degli uomini.

Nell’Odissea, ad esempio, Omero riporta che Ulisse si commosse durante il banchetto offerto da Alcinoo, sentendo il canto dell’aedo Demodoco

ταῦτ’ ἄρ’ ἀοιδὸς ἄειδε περικλυτός· αὐτὰρ Ὀδυσσεὺς
τήκετο, δάκρυ δ’ ἔδευεν ὑπὸ βλεφάροισι παρειάς.

(Od. VIII 696-695)

Così Ulisse di sotto alle palpebre
Consumatrici lagrime piovea.
(trad Pindemonte)

PITAGORA

Uno dei primi studiosi e teorici greci fu Pitagora di Samo (570 a.C. – 495 a.C.). Egli improntò la sua dottrina sullo studio del numero come principio del cosmo, sostanza delle cose. La musica era da lui considerata come uno specchio dell’armonia dell’universo e doveva necessariamente essere ricondotta a precise leggi numeriche e a rapporti matematici. Stabilì la progressione armonica delle note attraverso la constatazione che gli intervalli musicali e l’altezza delle note corrispondono alla lunghezza relativa delle corde messe in vibrazione. Con l’ausilio di uno strumento costituito da una sola corda, il monocordo (da lui stesso inventato), scoprì che per ottenere un suono consonante di un’ottava superiore bisognava far vibrare la metà della corda stessa (espresso col rapporto 2:1), per ottenere un suono di una quinta superiore bisognava utilizzare i due terzi (2:3), e così via. In questo modo i pitagorici ottennero gli intervalli della scala e gran parte delle leggi che, tuttora, governano l’acustica occidentale.

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Ad avvalorare l’affermazione che la musica è regolata da principi matematici Jean-Philippe Rameau, noto compositore e trattatista musicale francese del XVII secolo, scrisse nel “Trattato dell’armonia ridotto ai suoi principi fondamentali (1722)” «[…] la musica è una scienza che deve avere regole certe: queste devono essere estratte da un principio evidente, che non può essere conosciuto senza l’aiuto della matematica. Devo ammettere che, nonostante tutta l’esperienza che ho potuto acquisire con una lunga pratica musicale, è solo con l’aiuto della matematica che le mie idee si sono sistemate, e che la luce ne ha dissipato le oscurità». La grande importanza delle scoperte di Pitagora consiste nell’aver ricondotto la natura all’ordine misurabile e avendo riportato la musica ad un’entità misurabile, anch’essa per la prima volta era stata connessa a leggi matematiche. I significati metafisici attribuiti dai pitagorici ai numeri (per cui, ad esempio, il pari era considerato il principio del male, dell’imperfezione e il dispari del bene e della perfezione) si estendevano quindi anche agli intervalli e all’armonia musicale. Di conseguenza si poteva capire con quali rapporti matematici la musica avrebbe generato degli effetti positivi o negativi, capaci di influire sull’animo umano. La musica per i pitagorici non poteva esser usata per divertirsi o per svagarsi ma bisognava avere piena coscienza delle conseguenze metafisiche dovute all’esecuzione di un brano piuttosto che ad un altro. I pitagorici inoltre imputavano alla musica l’uso principale di tramite col divino atto a ristabilire l’ordine e l’equilibrio in un’anima turbata. È inoltre importante ricordare che la scuola pitagorica fu la prima a collocare l’insegnamento musicale al centro fra gli interessi del filosofo. L’educazione si configurava però più come un’iniziazione, cioè una trasmissione (simile ad un rito) dei segreti della scuola. Il fine di questo percorso educativo consisteva nel dare le possibilità agli adepti di contemplare l’armonia cosmica. Sulla base di questi fatti emerge un’impronta delle teorie Orfiche, basate anch’esse su riti magici, che facevano della musica un vero e proprio culto segreto e settario.

PLATONE

VITA

Platone nacque il 428/427 a.C. ad Atene da Aristone e Perittone. Le sue origini si perdono nella leggenda e c’è addirittura chi lo fa discendere dal dio Poseidone. Sappiamo che nacque da una famiglia benestante e altolocata, suo zio infatti era Crizia uno dei Trenta. La leggenda vuole che sia stato messo alla luce durante il settimo giorno del mese di Targelione (maggio-giugno) nell’anno della LXXXVIII Olimpiade, giorno in cui i Delii dicono fosse nato Apollo. Il suo nome era Aristocle, ma le sue grosse spalle e la sua corporatura imponente gli fecero guadagnare l’appellativo Platone (nome che deriva dall’aggettivo πλατύς che significa esteso, vistoso). Morì nella stessa città in cui era nato all’età di ottantuno anni.

Le sue origini gli garantirono un’ottima istruzione e alcune fonti dicono che divenne anche un ottimo poeta tanto che il suo repertorio si estendeva dai ditirambi alle tragedie. A circa vent’anni conobbe Socrate, che divenne subito suo maestro. Ne rimase folgorato al punto che lo inserì come personaggio principale in gran parte dei suoi dialoghi. Quando s’instaurò la tirannide dei Trenta, suo zio Crizia gli propose di partecipare al governo ma egli vedendo le ingiustizie del nuovo regime ateniese non accettò la proposta. Una volta restaurata la Democrazia anch’essa si mostrò ai suoi occhi corrotta e fallace, tanto da condannare a morte il suo maestro Socrate. Furono soprattutto queste le vicende che gli scaturirono un ribrezzo per la politica militante, portandolo all’ideazione di uno stato utopistico basato su leggi buone e giuste. Dal momento che Socrate non scrisse nulla, è proprio grazie alle opere di Platone che possiamo avere una visione d’insieme del pensiero socratico. Non è però sempre facile scindere il pensiero del maestro da quello dell’allievo: i dialoghi platonici, infatti, riportano spesso Socrate come voce narrante e questo rende assai difficile scindere i due personaggi. Diogene Laerzio, fra l’altro, riporta che Socrate, dopo aver sentito la lettura del Liside fatta da Platone, abbia esclamato «Per Eracle! Quante menzogne mi fa dire il giovinetto» (5).

La dottrina platonica inoltre rimane in un certo senso incompleta poiché le sue opere vanno differenziate tra opere scritte e dottrine non scritte (non pervenuteci in quanto non ve ne rimane alcuna testimonianza se non indiretta). Fonti antiche, però, riportano che egli tenne alcuni corsi intitolati “Intorno al Bene” che non volle mettere per iscritto, ritenendo più opportuna- data la profondità dell’argomento- la dimensione dell’oralità dialettica. In queste cosiddette “dottrine non scritte” sviluppava una metafisica a sfondo pitagorico che poneva alla base di tutto l’Uno (chiamato Bene nella Repubblica) e la Diade (principio determinato dall’Uno).

Platone inserisce in alcune sue opere delle considerazioni sulla musica. L’opera in cui queste sono più corpose e poste come base di un’istituzione statale è la Repubblica.

LA REPUBBLICA

La Repubblica comincia con una riunione di amici in casa di Cefalo (6). Sono presenti Polemarco (7), Eutidemo, Glaucone, Adimato (8) e Lisia (9). Il tema su cui interrogarsi è “cos’è la giustizia”. Da qui si passa all’ideazione di uno stato in cui il giusto sia posto come asse portante della struttura organizzativa. In quest’opera quindi Socrate (che è la voce narrante) intende creare una città ideale nella quale ogni aspetto della vita degli abitanti (musica compresa) sia fortemente controllato e indirizzato al bene dei cittadini. Egli incomincia col dividere la popolazione in tre classi: Filosofi (o Custodi), Guardiani e Lavoratori.

I primi sono coloro che amministrano lo stato e ne dettano le leggi, i secondi coloro che lo proteggono e gli ultimi i soli atti a svolgere il lavoro dei campi, il commercio e altre attività di tipo pratico. Lo stato quindi deve esser diviso in classi poiché compiti diversi richiedono individui diversi. A seconda della predestinazione di ognuno si avrà un compito diverso e un’educazione specifica. Non è sempre detto però che da figli di Filosofi si generino Filosofi e da Guerrieri sempre Guerrieri. Per spiegare come ciò avvenga Platone rievoca un antico mito fenicio.

“Voi tutti che vi trovate nella Città siete dunque fratelli, ma il dio, plasmandovi, quelli di voi che erano atti al comando, nel metterli alla luce li mescolò all’oro, motivo per cui sono i più preziosi. Nei responsabili alla difesa mescolò dell’argento; ferro e rame nei contadini, e in ogni altro operaio. Ebbene il fatto di essere tutti della stessa stirpe comporta che per lo più generiate esseri simili a voi stessi, ma non si può escludere che dall’oro nasca una discendenza d’argento, e, viceversa dall’argento una prole aurea” (Platone, repubblica V 415 a,b).

L’ARTE EDUCATIVA

L’educazione secondo il filosofo aveva un ruolo preponderante nella Città, in quanto essa doveva scardinare i vecchi valori e fondarne di nuovi. La musica e la ginnastica erano le attività preposte ad educare: la prima l’anima e la seconda il corpo. La musica, come sottolinea Socrate a Glaucone, include anche il genere letterario: «So. “E nella musica […] includi anche il genere letterario?” Gla. “Io sì” » (10) Considerato che questa accompagnava sempre dei versi (11), l’indagine su quale fosse più adatta alla Città inizia proprio con una restrizione della poesia. Quando un poeta compone, secondo Platone, s’immedesima nella parte che sta recitando e per il suddetto processo dell’ἐνθυσιασμός coinvolge anche gli uditori. Non è solo l’attore ad immedesimarsi nel ruolo che recita ma anche il poeta che agisce per imitazione del personaggio nell’atto stesso di crearlo. Di conseguenza l’uditorio proverà una sorta d’identificazione emotiva in ciò che viene narrato. E questa identificazione emotiva ha luogo, oltre che a livello di ricreazione e di divertimento nell’adulto, soprattutto nell’apprendimento del giovane. In tal proposito Eric Alfred Havelock, filologo e classicista inglese del XX secolo, afferma che “ […] l’imitazione veniva messa in atto a più livelli come uno stato totale di partecipazione personale e quindi di identificazione emotiva con la sostanza dell’enunciato poetico che si è chiamati a ritenere. […] Bisogna calarsi nella situazione di Achille, identificarsi col suo dolore e con la sua collera. Bisognava diventare Achille, così come faceva il recitante cui si prestava ascolto” (12). Dunque la musica – intesa come poesia e melodia – si configura sostanzialmente col processo dell’imitazione.

Per Platone esistevano tre forme d’imitazione. La prima, chiamata diretta, è Socrate a spiegarla, e si ha «quando si sopprimono gli interventi del poeta che si pongono fra una battuta e l’altra dei personaggi e resta solo il puro dialogo. […] Si tratta ad esempio dell’andamento della tragedia o della commedia. […]» (13). La seconda, chiamata indiretta, «[…] che si fonda sull’intervento diretto del poeta» (14). Infine Infine la terza specie, chiamata mista, «[…] si esprime in ambedue i modi e si ha nella poesia epica e, abbastanza spesso, anche in altre forme letterarie» (15). Viene posto inoltre anche un esempio, per chiarire quest’ultima, riferito all’Iliade e all’Odissea di Omero: «Il poeta si esprime in prima persona, e non prova nemmeno a sviare la nostra mente come se fosse un altro a parlare e non lui. Ma da questo punto in avanti prosegue fingendo di essere Crise e non lascia nulla di intentato perché il narratore non risulti essere Omero, ma lo stesso anziano sacerdote. E peraltro, tutto il resto della sua opera non si discosta molto da questa forma, sia per quanto concerne le vicende ambientate in Ilo e in Itaca, sia quelle descritte nell’Odissea.» (16). Platone però, amante delle forme pure ( e cristallizzate nel concetto delle idee (17) ), disdegna l’ultima ed attua quindi una dura riforma della poesia epica.

LA RIFORMA POETICA

Secondo il filosofo andava compiuta una riforma della poesia e dei miti a partire dalle loro modalità di composizione. Platone scarta quindi l’imitazione mista sulla base della teoria che nello Stato ognuno doveva dedicarsi a ciò che gli era più congeniale e non era possibile eccellere dedicandosi a pieno titolo a più forme imitative: «E’ raro che uno possa assolvere a un compito di qualche rilievo, e farsi imitatore, di molti modelli» (18).

Basandosi sul principio che l’imitazione porta all’identificazione emotiva se ne deduce che l’ascoltatore tende all’assimilazione dei modi di essere e di pensare dei personaggi in cui ci si immedesima. Il filosofo si dimostra scettico riguardo alle rappresentazioni teatrali e mette da parte (anche se indirettamente) il primo tipo d’imitazione. Ciò è dovuto principalmente alla presenza in scena di personaggi contrastanti fra loro o con personalità ambivalenti. Le persone dovevano invece conformarsi ad un solo modello: quello ispirato al Bene, al Giusto e alla rettitudine morale. Nelle tragedie, o peggio ancora nelle commedie, «vengono rappresentati uomini malvagi o vili, con comportamenti antitetici rispetto a quelli che abbiamo esposto. [….] Il loro linguaggio spesso è ingiurioso o scanzonato, oppure osceno, da ubriachi o da sobri; e poi ancora si lasciano andare a gesti e a parole ad atteggiamenti indecorosi riguardo a sé e nei confronti degli altri» (19).

Osservando in scena personaggi retti e altri ingiusti si sarebbero creati nell’ascoltatore dei contrasti, culminati nella creazione di uomini bivalenti o addirittura plurivalenti. Tutto ciò risultava agli occhi di Platone inaccettabile poiché «in una Città come la nostra noi non potremmo trovare un calzolaio che faccia il nocchiero, oppure un contadino che eserciti la professione di giudice oltre a quella dell’agricoltore» (20).

Questa capacità di creare uomini con più valenze, legata a forme rappresentative vivaci (come il teatro), risulta essere però più attraente e affascinante per i giovani, per gli insegnati, e per la gran massa ma Platone non si fa scrupoli a scegliere una forma meno piacevole qualora si dimostri un veicolo più efficace di valori retti. In questo senso egli predilige a qualsiasi altra forma quella mitica: «In verità, a noi, che miriamo a quel che è utile, servirebbe un poeta o un narratore di miti, magari meno piacevole, però più serio, che ci recitasse la parte dell’uomo per bene e dicesse le cose da dirsi secondo la tipologia da noi stabilita» (21). Si delinea da questo passo la predilezione per la narrazione mitica. Il mito, in Platone, ha due significati fondamentali. Esso è uno strumento di cui si serve il filosofo per comunicare in maniera più accessibile e intuitiva le proprie dottrine all’interlocutore, è quindi un’escogitazione didattico-espositiva programmaticamente concepita ai fini della comunicazione intellettuale (tant’è vero che la maggior parte di essi sono inventati dallo stesso filosofo). Esso inoltre è anche un mezzo per parlare di realtà che vanno al di là dei limiti cui l’indagine puramente razionale può fare.

Analizzate le forme poetiche adatte, egli si sofferma anche sul contenuto, scagliandosi contro la tradizione impostata dai poemi omerici. Essa non viene criticata per l’esposizione di racconti falsi (in quanto la falsità, se portatrice di sani valori, è largamente accettata) ma per il loro carattere decettivo. Per il poeta, in quanto poeta, è difficile veicolare valori puri: Platone illustra come sia nella sua natura il creare cose e fatti che si ispirano alla realtà sensibile e che si configurano come una rappresentazione della rappresentazione delle Idee pure. La prima critica all’epos omerico consiste quindi nella constatazione che i contenuti degli enunciati poetici non dipendono da conoscenze ma da pure opinioni (22) e quindi sono mere e sbiadite immagini delle Idee. Si badi bene però che la critica platonica verso la poesia, e in particolare a quella omerica, non è un attacco alla poesia e a alla produzione omerica tout court (23). poeti della Città dovranno necessariamente continuare a operare poiché l’educazione dei bambini e dei giovani non potrebbe esser fatta altrimenti. Essi però dovranno attenersi ad alcune regole. Prendendo Omero come riferimento, in larga parte da non imitare, Platone considera quali errori sono stati compiuti dal gran poeta. Per semplificare ho stilato una lista dei precetti che il filosofo impone alla poesia nei libri II, III e X della Repubblica:

1. dovrebbero venire eliminate completamente le lotte fra figli e padri fra gli dei;

2. «come dio si trova ad essere così andrebbe sempre raffigurato, sia che lo si faccia in versi epici, lirici, o nel contesto di una tragedia.» (24) Dio, concepito come l’Idea suprema di Bene è perfetto e immutabile e non deve esser mai rappresentato come causa di mali;

3. un dio non deve esser rappresentato come suscettibile di cambiare forma, in quanto «dio e la sfera del divino sono, sotto ogni profilo, le realtà più perfette. […] Per tale motivo dio è l’essere che meno di ogni altro potrebbe assumere molte forme» (25);

4. gli dei non possono presentarsi in modo illusorio in forme apparenti e quindi trarre in inganno;

5. per formare dei giovani coraggiosi si dovrà evitare di renderli paurosi della morte, narrando cose terribili a proposito dell’Ade;

6. per la stessa ragione si dovrà evitare l’uso di termini che si riferiscono sempre all’Ade e che incutono paura;

7. non dovranno venir presentati uomini illustri che si abbandonano a scomposti pianti e gemiti, per preparare i giovani a sopportare con dignità le disgrazie che capiteranno loro durante il corso della vita;

8. per la stessa ragione non dovranno esser attribuiti gemiti e lamenti agli dei ed a eroi;

9. non si dovranno presentare dèi ed eroi in preda al riso per non rendere i giovani troppo disposti a ridere sulle cose (26);

10. non si dovrà abituare a far uso della menzogna, perché questa sovverte e rovina lo stato della Città;

11. non si dovranno presentare i comportamenti degli dèi e degli eroi come intemperanti e neppure come vittime di scomposte passioni;

12. non si dovranno permettere esempi che abituino i giovani a lasciarsi corrompere dal danaro e ad essere avidi di ricchezze (27);

13. né esempi di azioni nefande degli eroi nei confronti di dèi e di uomini morti;

14. non si dovranno attribuire a figli di dèi rapine e imprese terribili, in quanto non dovranno commettere l’errore di affermare che molti disonesti sono felici e molti onesti infelici.

Tutte le prescrizioni sopra elencate sono poste per evitare che «qualsiasi poco di buono avrà già bell’e pronta la scusa, quando sia convinto che i suoi reati li compiono o li hanno compiuti anche consanguinei degli dei » (24).

Non importa, inoltre, se questi divieti sono stati davvero infranti dagli dei, il ruolo del buon poeta è quello di trasmettere dei validi valori e tacere sul resto :«Non direi proprio che sia materia da doversi raccontare a giovani ancora immaturi. Penserei, anzi, che andrebbe, in linea di massima, tenuto segreto, e se proprio non potesse fare a meno di dirlo, che andrebbe riferito sotto il vincolo del silenzio di pochissimi ascoltatori, dopo aver immolato un qualche animale possente e raro, così da restringere ancora di più il numero dei possibili uditori.» (29)

Platone quindi non si fa scrupoli riguardo l’invenzione di nuove vicende mitiche. L’unico aspetto fondamentale di ciò sarebbe stato il controllo dei poeti prima che diffondessero i loro componimenti : «Bisogna tener d’occhio gli ideatori delle favole: quando ne inventassero una bella la approveremo, in caso contrario la scarteremo» (30). Lo stato quindi deve tenere una censura ferrea su quali storie vadano raccontate agli adulti ma soprattutto ai bambini poiché è proprio in quell’età che si presenta «il momento ideale per plasmarli e per foggiarli secondo l’impronta che a ciascuno di essi vuol dare». (31)

LA RIFORMA MUSICALE

Dopo aver analizzato approfonditamente la questione poetica, nelle forme e nei contenuti, si passa alle modalità con cui la musica deve esser eseguita. Come si diceva poc’anzi la musica doveva accompagnare la parola: «l’armonia e il ritmo devono adattarsi alle parole» (32). Fare il contrario sarebbe stato un grave delitto che avrebbe compromesso le leggi estetiche e morali della Città. Per Platone la melodia (μήλος) si componeva di tre parti: il parlato (λόγος), armonia (ρμονία), ritmo (υθμός). Il parlato era semplicemente la parola che si voleva accompagnare con la musica. L’armonia invece riguardava i suoni, cioè le modalità con cui questi dovessero esser disposti. I Greci tuttavia non avevano sviluppato la concezione di accordo (più note diverse suonate simultaneamente) e quindi l’armonia si configurava principalmente come lo studio di successioni di

suoni o, al limite, di soli due suoni suonati contemporaneamente. Il ritmo invece era costituto dalla durata delle note: «L’ordine del movimento si chiama ritmo» (33). È importante notare come lo studio del ritmo implicasse non solo un movimento inteso come scorrere delle note nel tempo ma anche come movimento fisico e cioè danza. Platone quindi ammonisce anche certi tipi di danze e ne sancisce i movimenti corretti. Quest’ultimo argomento, seppur molto interessante, non verrà trattato in questa sede.

LE MELODIE RIFORMATE

Il filosofo insiste sulla necessità di condannare ogni opera poetica contraria ai buoni costumi, ne risulta di conseguenza che anche la musica, accompagnando quei i versi, deve esser ritenuta inammissibile. Vengono eliminate tutte le melodie che non trasmettono «le voci e toni dell’uomo valoroso» (34) Secondo Socrate nella Città dovevano esser insegnate solo alcune tipologie di melodie: una per i momenti bellici l’altra per quelli di pace. Le une perché avrebbero sostenuto il guerriero in battaglia dandogli forza e vigore, le altre per aiutare le persone in «opere libere e non coatte, sia che convinca o preghi qualcuno per uno scopo -potrebbe essere un dio con preghiere, o un uomo con l’insegnamento o l’ammonizione- , sia invece che stia ad ascoltare un altro che a sua volta prega, o ammaestra o dissuade. E per quanto egli, muovendo da ciò, riesca a realizzare i suoi progetti, tuttavia non monta in superbia, e si comporta in tutti questi casi con misura e moderazione.» (35) I modi (36) che accompagnavano le lamentazioni o le libagioni (misolidio e ipolidio) vengono banditi poiché non erano «buoni neppure per le donne […] figuriamoci per gli uomini!» (37) Platone alla fine di questo processo di epurazione melodica, accetta senza esprimerne grande soddisfazione il frigio e predilige nettamente il modo dorico. Socrate inoltre espone a Glaucone come quest’ultimo rappresenti la forma più elevata dell’armonia greca, considerata come espressione della sua stabilità e, pertanto, della moralità per eccellenza. Leggendo i passi della Repubblica dedicati a questi temi agli studiosi è sembrato di sentir riecheggiare le teorie damoniane sulla musica.

Damone fu un musicologo greco nell’Atene del V secolo che sosteneva che la musica avesse il potere di influenzare gli stati d’animo dell’uomo. Il testo in cui viene espressa questa teoria è l’Areopagitico. Esso fa allusione alla πεττέια, procedimento che consiste nello scegliere i suoni più opportuni per ogni circostanza. Inoltre egli era convinto che esistessero quattro specie di suoni che generano tutte le armonie: distinse quindi quattro vocali che, precedute da τ (tau), avrebbero potuto designare ogni genere di suono. Inoltre definì anche che influenze avessero questi suoni sull’animo affermando che: quelli con η erano “umidi”, completamente passivi e effemminati; quelli con ω attivi e virili; quelli con α virili ma meno dei precedenti e quelli con ε avessero un carattere decisamente femminile. Gli intervalli prodotti da questi suoni esprimeranno quel determinato carattere, mentre a loro volta, i modi generati da questi intervalli saranno analoghi a questi ultimi. Stando sempre alle teorie damoniane, questi elementi musicali, in virtù dei loro movimenti con quelli dell’anima umana, formerebbero il carattere dei bambini e influenzerebbero quello degli adulti. Anche i ritmi avrebbero influito sugli animi al pari della melodia. Platone dunque affascinato da Damone ne trasse numerosi spunti inseriti nelle sue opere.

I RITMI RIFORMATI

Tornando al nostro filosofo, anche i ritmi quindi subiscono alcune restrizioni. Quello prodotto da una poesia acquista il senso dello stile trattato: «Alle regole dell’armonia seguono quelle dei ritmi. In tal caso, non ci sarà da perdersi dietro ritmi complessi e variati nei metri, ma si dovrà considerare la natura di quelli che si confanno a una vita morigerata e coraggiosa, e poi una volta esaminata, si dovranno forzare il metro e la melodia a seguire il testo» (39).

Nelle Leggi invece il filosofo attribuisce l’ethos melodico di un’opera musicale al suo corrispettivo sesso e distingue tra composizioni maschili e femminili (40). È possibile che Platone faccia allusione ai differenti registri e anche alle armonie, tuttavia si guarda bene dall’attribuire differenti atteggiamenti ritmici agli uomini e alle donne, preferendo distinguerli in ritmi propri agli uomini liberi, e dunque equilibrati, e in ritmi da schiavi, caratterizzati da una mancanza di equilibrio. Tant’è che poi aggiunge «E la disarmonia delle forme, la mancanza di ritmo e di equilibrio sono parenti stretti di un discorso e di un carattere sconvenienti, come le qualità contrarie sono sorelle e copie dei caratteri contrari, ossia di una condotta di vita assennata e virtuosa».

GLI STRUMENTI CONCESSI

Rappresentazione di un aulos su una ceramica del V sec a C.jpg

Rappresentazione di un aulos su una ceramica del V sec a C

Sulla base della scelta delle armonie e dei ritmi che abbiamo appena visto, proibisce anche l’uso di alcuni strumenti: «E dunque nei nostri canti e nelle nostre melodie non serviranno neppure strumenti dalle molte corde e dai molti accordi.» (41)

Vieta l’utilizzo e perfino la costruzione di trigoni e pettidi (tipi di arpe con molte corde che quindi potevano vantare una gamma di scale notevole). Dimostra inoltre una certa avversione per l’ἄυλος. L’aulos era uno strumento a fiato, smile ad un flauto, costituito da due canne ravvicinate ad una estremità. Una andava suonata con una mano e l’altra con l’altra. Questo strumento inoltre aveva un’ancia mobile che consentiva di modulare il suono permettendo all’auleta di intonare praticamente tutti i modi esistenti in Grecia. Questo strumento inoltre ebbe una grandissima diffusione nel V-IV a C. ad Atene tanto da soppiantare in parte l’uso della cetra. Platone quindi consente l’uso di soli due strumenti : «E a tal punto nella nostra Città ti restano a disposizione solo la cetra e la lira» (42).

Secondo il filosofo ateniese inoltre doveva esser scontato l’abbandono del flauto per la cetra poiché ciò era testimoniato anche dalla mitologia classica: «Del resto caro amico, non facciamo nulla di straordinario, quando anteponiamo Apollo a Marsia e gli strumenti dell’uno agli strumenti dell’altro» (43).

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Apollo e Marsia Saverio Altamura

l mito citato si riferisce ad una contesa tra Apollo, abilissimo suonatore di cetra, e Marsia, satiro eccelso suonatore di aulos. La fama acquisita da quest’ultimo era tale che un giorno osò lanciare una sfida al dio della musica, certo di poterlo battere. Il dio accettò e chiamò le Muse al suo cospetto in modo che potessero giudicare la contesa. In un primo momento esse rimasero molto colpite dalle melodie dell’aulos di Marsia. Apollo quindi –temendo una sconfitta– iniziò a suonare la sua lira e a cantare contemporaneamente, sfidando il rivale a fare altrettanto: chiaramente, la natura stessa dello strumento a fiato del satiro non gliel’avrebbe consentito, e così la vittoria fu assegnata al dio che come punizione scorticò vivo il suo rivale.

LE TEORIE PLATONICHE RELATIVE ALL’ONDA SONORA E LA SUA INFLUENZA SULL’ANIMO

Tuttavia le severe prescrizioni sopra elencate sarebbero pure speculazioni metafisiche se non fossero sostenute da teorie (pseudo)scientifiche, che infatti Platone fornisce nel Timeo. Secondo il nostro, il suono non era vibratorio e neppure dotato di una spinta circolare (come credettero molti dopo di lui), bensì semplice e continuo. Inoltre «se questo movimento è rapido, il suono è acuto, e se è più lento il suono è più grave. Se è uniforme il suono è omogeneo e dolce; se possiede la qualità opposta, il suono è duro; se il movimento è grande il suono è forte; se possiede la qualità opposta il suono è debole.» ( 44)

Platone quindi ritiene che un suono sia di altezza proporzionale alla sua velocità di propagazione. Un’altra proprietà che egli adduce al suono è la chiarezza, considerata come risultato del suo movimento di propagazione. Se questo resta uniforme, il suono è chiaro e piacevole (ἦχος); in caso contrario è confuso e sgradevole (ψόφος).

L’ultima proprietà è l’intensità: un suono è deciso e corposo quando il movimento con cui si propaga è πολλή (intenso). Sulla base di queste proprietà il suono è in grado di entrare nel nostro corpo e generare sensazioni che si ripercuotono sull’individuo. È curioso che Platone non creda che il suono possa attraversare (“propagarsi attraverso” è il termine più corretto) la materia, come oggi sappiamo, ma riteneva che grazie all’orecchio –considerato all’epoca un semplice orifizio- il suono entrasse nel corpo e colpisse il cervello, il cuore e il fegato (organi in cui si riteneva risiedesse l’anima). Se due o più suoni erano consonanti fra loro, questi avrebbero generato delle sensazioni positive in caso contrario negative. La consonanza tra più suoni, secondo Platone, avviene dalla somiglianza e dalla compatibilità dei movimenti con cui essi si propagano in noi. Dunque quando due suoni diversi fra loro, ma consonati, entrano nel nostro corpo resta da stabilire quale organo vadano a risanare.

Su quest’ultima parte, i testi si fanno di dubbia interpretazione e le domande che sono sorte agli studiosi sono molteplici. Una delle tesi più attendibili è quella dell’accademico greco Evanghelòs Moutsopoulos. Egli sostiene, in base alla sua interpretazione dei testi, che il suono, una volta entrato nel nostro corpo, diminuisca di velocità. Chiaramente più un suono è veloce (e di conseguenza anche acuto) più velocemente rallenterà la sua velocità e viceversa. Quindi la differenza di predita progressiva di velocità dei due suoni consonati, farà sì che essi si possano incontrare in una determinata parte del nostro corpo modificandone gli influssi sull’animo. Lo schema qui in basso aiuterà notevolmente la comprensione di questo ostico concetto

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Legenda: V e v le loro rispettive velocità- Asse delle ordinate: la velocità (che corrisponde all’altezza); asse delle ascisse: livello di penetrazione organica del suono.

Spiegazione:

Ipotizziamo che venga emesso da una cetra prima un suono grave ( quindi più lento) e poi uno acuto ( quindi più veloce) in modo tale che entrino contemporaneamente nel nostro corpo. Come si può osservare il suono più acuto diminuisce la sua velocità più rapidamente di quello grave e in questo caso si uniscono nel fegato. I due suoni, in base alla loro consonanza o dissonanza, produrranno diversi effetti sull’organo colpito ( ad esempio il fegato).

L’EDUCAZIONE CONTROLLATA DALLO STATO

Il complesso sistema prescrittivo, su come la musica dovesse esser concepita, era accompagnato da un rigido regolamento educativo che cercherò di sintetizzare nei punti di maggior rilievo. Prima di tutto è bene capire come Platone concepiva l’educazione:

«Se il piacere, l’amicizia, il dolore e l’odio nascono nelle anime prima del risveglio della ragione e se, una volta risvegliata la ragione, i sentimenti si accordano con essa nel riconoscere d’esser state ben formate dalle abitudini corrispondenti, questo accordo costituisce la virtù totale; ma ciò che ci insegna a fare uso nel modo più giusto del piacere e del dolore, che ci fa odiare quello che è opportuno odiare dall’inizio fino alla fine, ma che ci induce ad amare quello che lo merita, questo è ciò che la ragione isolerà per chiamarlo, a buon diritto secondo me, educazione.» (45)

La dottrina educativa negli scritti del filosofo ateniese si riscontra in maniera abbozzata nella Repubblica, è invece nelle Leggi che egli ne delinea un profilo più accurato e metodico. L’educazione per Platone era uno studio propedeutico della dialettica, del Logos. Ciò andava trasmesso per via indiretta e per via imitativa ai bambini i quali avrebbero poi naturalmente imparato a riconoscere il Bene; il fanciullo quindi avrebbe dovuto sentirsi istintivamente attratto dalla bellezza, mentre di fronte al brutto (che nel campo morale si identifica col male), provare una repulsione immediata. Considerando che lo Stato stesso, per il filosofo ateniese, si identificava con ciò che era più vicino alla somma virtù (e cioè al Bene) doveva esser proprio quello ad impartire un’educazione ben determinata fin dalle più tenere età. È opportuno premettere che nella Città ideale era previsto che i figli fossero sottratti alla nascita dalle madri e allevati da nutrici e matrone specializzate in questo compito. Ciò aveva una duplice funzione: i bambini sarebbero stati educati da persone competenti e capaci, inoltre i giovani avrebbero prestato rispetto per tutti gli anziani della Città poiché tutti sarebbero potuti essere i loro genitori. L’educazione iniziava dalla nascita, le nutrici avrebbero dovuto predisporre in un certo modo il bambino durante l’allattamento e cantargli canti nasali o di altro genere, per abituare l’orecchio del bambino a ricevere le prime nozioni di euritmia, mentre il calore umano avrebbe trasmesso calma nella sua anima. In questo modo il ritmo, l’armonia e la calma psichica si sarebbero radicati nello spirito del bambino come unità coerenti e interconnesse.

Dai tre ai sei anni l’educazione era ancora comune tra maschi e femmine ma successivamente sarebbe stata destinata a differenziarsi. La differenziazione non era dovuta all’insegnamento di due materie diverse (Platone infatti ribadisce l’universalità del suo modello educativo) ma alla scelta di un metodo più opportuno per ogniuno dei due sessi. Durante questi tre anni per i bambini era predisposta un’educazione collettiva dedicata a giochi di gruppo, canti e danze. Sarebbe bastato inoltre riunire i bambini in un determinato luogo e lasciar loro la facoltà autonoma di costituire gruppi. Tutto ciò, chiaramente, avveniva sotto la supervisione delle matrone, incaricate di controllare la disciplina e di punire con castighi chi si comportava male. I canti e le musiche in questa fase agivano come canalizzazione del naturale istinto ludico dei fanciulli, attraverso anche l’impartizione delle regole di gioco e l’insegnamento delle canzoni tradizionali. Dai sei ai dieci anni i ragazzi venivano indirizzati a rudimentali esercizi di ginnastica e alla tecnica nell’uso delle armi, mentre le ragazze si sarebbero limitate a imitarli nella misura in cui avrebbero potuto sopportare questa dura disciplina. L’educazione musicale in questo periodo invece fungeva da contrappeso alla durezza dell’allenamento fisico, mantenendo il ragazzo nel clima musicale, estetico e morale del periodo precedente. I cori, le danze e il canto non sarebbero stati quindi abbandonati ma avrebbero continuato ad essere regolarmente praticati.

Dai dieci ai tredici anni il maestro (γραμματικής) impartiva al ragazzo lo studio dell’alfabeto (e di conseguenza anche della notazione musicale, cfr NOTAZIONE).

Dai tredici ai sedici anni l’adolescente riceveva dal citarista un’istruzione musicale accurata, metodica e approfondita in quanto l’apprendimento musicale costituiva per Platone uno dei fattori più significativi nell’educazione.

Sappiamo che dai sedici anni fino ai venticinque (termine che il filosofo aveva fissato per il processo educativo) c’erano delle prescrizioni precise che però, non essendo presenti nelle Leggi o in altri testi (se non in alcuni spuri), non ci sono arrivate. Tuttavia sappiamo che lo studio della ginnastica e della musica sarebbe dovuto esser integrato con nozioni di aritmetica, geometria, astronomia, armonia e dialettica.

È sorprendente quanto questo sistema educativo risulti essere moderno: esso era costituito da un processo ciclico per cui si ritornava periodicamente sulle stesse discipline, studiate però ogni volta ad un livello più avanzato. Una modalità simile è adottata dal nostro sistema scolastico dove appunto le materie fatte alle elementari sono poi riprese alle medie, per esser infine approfondite alle superiori.

COSI’ LO VOGLIO RICORDARE

Concludendo vorrei ricordare questo grande autore, tanto amante della musica, con un passo (tratto da un libro) che rielabora un frammento di Filodemo (che a sua volta dice di averne sentito parlare da Filippo di Opunte, astronomo , discepolo e segretario di Platone) trovato in un papiro ad Ercolano.

“ Platone è ormai molto vecchio, stanco e malato. Giace, nella sua stanza, aspettando la morte, confortato solo dalla presenza di un ospite caldeo e dal lieve suono di un’arpa. Quand’ecco che, poco prima di spirare, si agita, seppur debolmente, fa capire che vuol qualcosa, delira forse. L’amico si china su di lui, per udire la sua voce sommessa, e Platone bisbiglia un’esortazione rivolta all’arpista: «Attenzione a non perdere il ritmo!». Il caldeo commenta: «Solo voi greci capite veramente cosa siano il ritmo e la musica». (46)

Note : Platone

1. Il concetto di altezza assoluta è legato a quanti Hertz produce un determinato suono. Solitamente in orchestra affinché gli strumenti siano tutti accordati assieme viene posto il la a 440 H. L’associazione di una nota a delle caratteristiche fisiche della sua onda sonora ne determina l’altezza assoluta.

2. Il concetto di altezza assoluta è legato a quanti Hertz produce un determinato suono. Solitamente in orchestra affinché gli strumenti siano tutti accordati assieme viene posto il la a 440 H. L’associazione di una nota a delle caratteristiche fisiche della sua onda sonora ne determina l’altezza assoluta.

3. Platone; Ione, 533 e – 534

  1. 4. Rep, III 411d e

  2. 5. Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, III 35

6. Padre di Lisia, noto oratore del V sec a.C.

7. Fratello di Lisia

8. Questi ultimi due sono fratelli di Platone

9. Cfr nota 6

10. Rep.III 376 e

11. E si badi bene che non si dice che era accompagnata da dei versi; cfr paragrafo “la riforma musicale”

12. Preface to Plato, Cambridge Mass, Harvard UP. 1963

13. Rep. III 394 b

14. Rep. III 394 c

15. Cfr nota 14

16. Rep, III 393 a, b

17. Il concetto delle Idee fu coniato da Platone quando venne in contatto con la filosofia socratica (tesi sostenuta da alcuni studiosi, tra i quali spicca Giovanni Reale). Socrate si occupava di questioni etiche e non della natura nella sua totalità, tuttavia, nell’ambito di queste cercava di risalire a concetti universali (per il concetto di “definizioni socratiche” si veda, ad esempio, il dialogo platonico Eutifrone in cui si cerca di risalire alla definizione di “cosa è santo”). Platone si convinse, grazie anche alla sua formazione nella scuola eraclitea di Cratilo, che le definizioni immutabili si riferissero ad altre realtà e non al mondo sensibile che è in continuo mutamento. Egli allora denominò queste altre realtà Idee e affermò che le cose sensibili esistono e vengono determinate in base ad esse.

18. Rep, III 395 a

19. Rep, III 396 a; nel passo citato inoltre si vedono anche dei riferimenti all’opera del commediografo Aristofane. Egli infatti nella sua nota commedia “Le Nuvole” aveva rappresentato Socrate in maniera denigratoria, in linea con la tecnica dell’ ὀνομαστὶ κωμῳδεῖν. In un certo senso Platone risponde agli attacchi aristofaneschi proibendo la commedia a carattere scommatico.

20. Rep, III 397 e

21. Rep, III 398 b

22. Opinione espressa nel termine greco δόξα, si connota di una accezione dispregiativa

23. Platone infatti definisce, nella Repubblica, Omero come «il primo maestro e caposcuola di tutti i nostri bei poeti tragici» (X, 595C)

24. Rep, II 397 a

25. Rep, II 381 e

26. La questione del ridere è molto sentita da Platone tant’è che Diogene Laerzio ci riporta «che in età giovanile era così pudico e composto che non fu mai visto ridere smoderatamente» (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, III 27)

27. L’argomento del possesso di beni durevoli o di danaro viene ampiamente trattato anche nell’educazione e nello stile di vita dedicato ai Custodi. Essi infatti non potevano possedere nulla ma anzi dovevano mangiare e vivere in comunità senza mai venire a contatto con cose che avrebbero potuto distrarli dal loro compito. Erano proibiti i metalli preziosi. Tutto lo Stato non doveva possederne, essi infatti avrebbero generato avidità tra gli uomini e li avrebbe allontanati dai veri valori. A questo proposito Platone aggiunge che sarebbe stato più facile procurarsi degli alleati poiché il bottino di guerra sarebbe andato completamente a questi ultimi. Solo gli agricoltori tuttavia potevano avere delle proprietà, che però riguardavano soltanto i possedimenti terrieri. Il prodotto delle terre doveva essere suddiviso nella comunità per il fabbisogno dello stato. È per questo che molte volte si parla di comunismo platonico: tutto (tranne le rare eccezioni sopra elencate) doveva essere di tutti, mogli incluse.

28. Rep, III 391 e

29. Rep II 378 a

30. Rep, III 377c

31. Rep, 377b

32. Rep, III 398

33. Leggi, II 669

34. Rep, III 399 ab

35. Cfr nota 34

36. Cfr paragrafo Notazione

37. Rep, III 398 e

38. Rep, III 399 c

39. Rep, III 399 e 400 a

40. Cfr Leggi II 669

41. Rep, III 399

42. Rep, III 399d

43. Rep, III 399e

44 Timeo 67 a

45 Leggi 653 b

46. “Il ramo di mirto, Platone e l’idea di musica”, Alessandra Lazzerini Belli, ed. Laboratorio di Musicologia applicata


BIBLIOGRAFIA:

  • “Itinerari di filosofia, vol. 1A”, N. Abbagano, G Fornero;

  • “Storia della Musica”, Riccardo Allorto;

  • “Odissea”, Omero, a cura di Enzio Certangolo;

  • “Storia della filosofia greca, vol II”, Luciano De Crescenzo;

  • “Vite dei Filosofi”, Diogene Laerzio;

  • “Il ramo di mirto, Platone e l’idea di musica”, Alessandra Lazzerini Belli;

  • “La sezione aurea”, Mario Livio;

  • “La musica nell’opera di Platone”, Evanghelos Moutsopoulos, introduz. Giovanni Reale;

  • “Repubblica”, Platone, a cura di Roberto Radice e Giovanni Reale, saggio introduttivo di Giovanni Reale;

  • “Manuale di Storia della Musica, vol. I”, Elvidio Surian

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il suono di Platoneultima modifica: 2012-10-21T08:25:00+02:00da iskra2010
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