Marxismo, fondamentalismo e guerre (5)

Marx K 5.jpg

 Da Angelo Ruggeri

9. Il pensiero negativo antidialettico e nichilista da dopo gli anni ’70 è stato ed è considerato vincente rispetto a quello di Marx.

Lo si ritiene “vincente” (sic!) anzitutto nella civiltà occidentale del pensiero unico, che non crede ci possa essere una dialettica teorica e sociale alternativa all’ideologia e alla forma sociale capitalistica dominate, e dove si considera – lo ritengono anche tutti gli ex, post e anti comunisti -, che i teorici del pensiero antidialettico come Nietzsche e Heidegger sono diventati dominanti e vincenti rispetto a Marx (Essere e tempo di Heidegger ha del resto lasciato un impronta su molti animi anche di personalità di “sinistra”, come Herbert Marcuse e Jurgen Habermas che non hanno esitato a dire che Essere e tempo è l’opera filosofica più importante scritta dopo la Fenomenologia dello spirito di Hegel),

Comunque Nietzsche e Heidegger sono diventati i referenti principali a cui si guarda non solo da destra, ma anche e moltissimo da una “sinistra” a cui appartengono – non si sa come mai – tanti critici di Marx ed estimatori e divulgatori del pensiero negativo e antidialettico dei sopra citati, oltre che di Max Weber, tra cui è esempio noto Cacciari, che ancora quando si faceva eleggere come parlamentare “comunista” del Pci, già sosteneva nel 1977 (in “Pensiero negativo e razionalizzazione”) che “la conservazione che…tace di ciò che ormai non raggiunge, è mille volte più rivoluzionaria delle idee che superano lo stato di cose esistente” (evidentemente riferendosi, per negarlo, al comunismo che anticipato nell’idea è per Marx “il vero annullamento del conflitto tra l’uomo e la natura, tra l’uomo e l’uomo” con cui è possibile superare il naturalismo e completarsi nella pienezza di un uomo cosciente e integrale.

Si può quindi capire come anche attraverso tale cultura possa essere penetrato anche a “sinistra” un “modernismo” e una reazionaria, per non dire fascista, “cultura della morte” e “cultura della guerra” che in nome di una filosofia dell’azione (propria del fascismo) si contrappone filosofia della prassi (propria del marxismo), che assume la guerra come atto inevitabilmente risolutivo delle controversie internazionali, anche attraverso operazioni prima di “polizia internazionale” (contro l’Iraq nel ’91) o “intervento umanitario” (contro la Jugoslavia nel ’99), e poi ora di “guerra” tout court. che rischiano giorno dopo giorno di configurarsi come prospettiva di belligeranza totale e permanente e quindi come una invano demonizzata “terza guerra mondiale”.

 

Una “cultura di morte” e una “politica della guerra” che, viceversa, era stata messa al bando dopo la caduta del nazifascismo e la disfatta delle idealità imperialiste e belliciste di stampo reazionario e conservatore, con il rilancio di idealità di giustizia, eguaglianza sociale e di libertà nei diritti e nei poteri, attraverso la fondazione di un nuovo potere sociale basato sulla sovranità dei popoli e non degli stati e dei governi come quello con cui si cerca di dare espressione, rispettivamente, con l’ONU o viceversa con la NATO.

Un nuovo potere sociale per contribuire, quindi, alla valorizzazione delle esigenze di uno sviluppo civile e sociale espresso ed imperniato sui valori dell’antifascismo, del lavoro e della pace riassunti ed espressi nella formula e nelle forme del “diritto ‘della’ pace” (non “alla” pace) formalmente sancito nella Carta dell’Onu e, non a caso, nella nostra Costituzione che consente solo quelle limitazioni di sovranità che servono ad assicurare condizioni di parità tra gli stati e che siano necessarie per “assicurare la pace e la giustizia fra le nazioni” (art.11).

Un “diritto della pace” la cui portata, quindi, può essere colta attraverso la sottolineatura delle connessioni che il ripudio della guerra come strumento di offesa, ha in modo assai stretto con i valori di giustizia sociale e di emancipazione, che impediscono di isolare le questioni nazionali e statali da quelle sovranazionali e mondiali, quasi che le lotte dei popoli per la pace fossero altro dalle lotte dei popoli per la libertà e l’eguaglianza sostanziale e non solo formale, come rischia invece di fare un certo pacifismo generico, che per ciò diventa imbelle.

Perché il realismo dei bellicisti esprime nell’ordine dei rapporti internazionali, quella inevitabilità della guerra che contemporaneamente – e in stretta interdipendenza – da luogo a politiche statali e sovranazionali che indirizzano il conflitto sociale con strumenti di imperio, che rappresentano una lesione sia dei diritti politici che di quelli economici e sociali.

La “pace” diventa così un bene supremo che vincola ad attuare tutti i principi costituzionali di cui quello sulla pace costituisce il punto unificante di una concezione che non è solo simbolo di passiva “non violenza” e di generico “pacifismo”, ma è – sul terreno dei rapporti internazionali – l’equivalente di quei valori che sul terreno dei rapporti nazionali hanno come obiettivo la salvaguardia dei diritti inviolabili dell’uomo e il superamento dei limiti che, di fatto, ostacolano per ragioni economiche e sociali, la libertà e l’uguaglianza dei cittadini non meno che dei popoli. Ecco perché ogni colpo dato ai valori e ai principi su cui si fonda la nostra Costituzione è un colpo data anche al diritto e alla politica di pace internazionale, e viceversa.

In tal senso, i titoli dei giornali che annunciavano l’abrogazione di un pezzo sostanziale della nostra repubblica delle autonomie fondata sul lavoro e l’antifascismo, sovrastato dai titoli di “guerra” e seguiti da quelli della catastrofe dell’aeroporto di Linate – causato dall’incuria criminogena di una gestione aziendalizzata e privatizzata anticipatrice di quelle che si moltiplicheranno, attraverso la possibilità di generalizzare la gestione privata di servizi economico-sociali e funzioni pubbliche, grazie alle modifiche costituzionale c.d. “federalista” introdotte nel Titolo V della II Parte della Costituzione con il referendum dell’8 ottobre -, rappresentano una metafora gigantesca di come tale modifica costituzionale colpisca il “diritto della pace” a vantaggio del “diritto di guerra” che non ha solo valenze internazionali ma anche interne, ricadendo e colpendo gli interessi sociali e la sicurezza dei cittadini che per Principi e prima Parte della C. devono invece essere garantiti dalla gestione pubblica di tipo democratico-sociale (non pubblico-burocratica) delle funzioni e dei servizi, ora messa consapevolmente a rischio dai “partiti di governo” che hanno invitato a votare SI’ (centro sinistra) e a non votare (centrodestra) e più inconsapevolmente “accettata”, da tutti coloro che votando “Si” o non votando, si sono subalternati passivamente ai potentati privati e bellicisti nazionali e transnazionali.

Lotta per la pace, lotta per la democrazia, lotta per il socialismo e la solidarietà sociale si coniugano invece in base alla aspirazione ideale della esigenza di sottrarre la vita delle classi alienate e dei popoli sfruttati da una forma di potere che esprime il prevalere di una concezione dell’ordine pubblico internazionale ed interno contro una concezione di autonomia sociale che dovrebbe invece animare l’azione delle istituzioni statali e delle organizzazioni internazionali, ponendo finalmente i governi al servizio della società e liberando i Parlamenti dai vincoli di esecutivi che gli impediscono di esprimere la voce effettiva di larghe masse di popolo.

10) I comunisti sono chiamati in causa per dare una visione più generale degli interessi di classe e dei lavoratori; non tanto quindi per rivendicare una indispensabile pace contro la guerra, quanto per creare una partecipazione di massa al tempo stesso più organizzata e più consapevole rispetto a quella sin qui data dai movimenti che come quelli pacifisti e quelli cosiddetti “antiglobal”, rimangono corporativi perché mancanti di una visione e teoria generale.

Non si tratta quindi di accodarsi o di partecipare tra i tanti, come si deduce si voglia fare da parte di chi anche dopo Genova ha come Bertinotti pur dichiarato: “tutto quello che decide il movimento mi va bene”, quasi che la non assunzione di atteggiamenti dogmatici e dottrinari e forme di organizzazione rigide e autoritarie non abbia per alternative che il solo “sbragamento”, ignorando che la vera questione che nel “nostro tempo” si pone da molto, non è quella tra “movimento” o “organizzazione”, ma è di “quale organizzazione”, è quella che si pone tra due diverse concezioni dell’organizzazione, burocratico e autoritaria o democratica e sociale, che esige una critica comunista dei movimenti e una lotta teorica e pratica della formazione politica “partito”, fondato sull’autonomia comunista del partito e l’autonomia comunista dei militanti .

In questo senso vale anche ricordare quello che alla dottrina rigida e libresca dei menscevichi contrappose Lenin, rispondendo a tutti coloro che lo definivano “blanquista”, “anarchico” e “bakunista” per non dire “terrorista” o giù di li:

<<Il marxismo si distingue da tutte le forme primitive di socialismo perché non lega il movimento a una qualsiasi forma di lotta determinata. Esso ne ammette le più diverse forme, e non le “inventa”, ma si limita a generalizzarle e organizzarle, e introduce la consapevolezza in quelle forme di lotta delle classi rivoluzionarie che nascono spontaneamente nel corso del movimento. Irriducibilmente ostile ad ogni formula astratta, a ogni ricetta dottrinale, il marxismo esige un attento esame della lotta di massa (la sottolineatura è sua) in atto, che, con lo sviluppo del movimento, con l’elevarsi della coscienza delle masse, con l’inasprirsi delle crisi economiche e politiche, suscita sempre nuovi e più svariati metodi di difesa e attacco. Non rinuncia quindi assolutamente a nessuna forma di lotta e non si limita in nessun caso a quelle possibili ed esistenti solo in un determinato momento, riconoscendo che inevitabilmente, al seguito del modificarsi di una determinata congiuntura sociale, ne sorgono delle nuove, ancora ignote agli uomini politici di un dato periodo. Sotto questo aspetto il marxismo impara, per così dire, dall’esperienza pratica delle masse, ed è alieno dal pretendere di insegnare alle masse forme di lotta escogitate a tavolino dai “sistematici”…

Il marxismo esige categoricamente un esame storico del problema delle forme di lotta. Porre questo problema al di fuori della situazione storica concreta significa non capire l’abbicì del materialismo dialettico. In momenti diversi dell’evoluzione economica, a seconda delle diverse condizioni politiche, culturali-nazionali, sociali, ecc., differenti sono le forme di lotta che si pongono in primo piano divenendo fondamentali, e in relazione a ciò si modificano, a loro volta,, anche le forme di lotta secondarie, marginali>> (Sulla guerra dei partigiani, 30 settembre 1906)

Un modello di dialettica, dunque, del resto sempre applicata, anche quando il governo bolscevico non passò affatto alla nazionalizzazione delle industrie private per scelta, che era invece stata quella del controllo sociale e operaio della produzione e delle fabbriche, ma per necessità costrittiva a causa del sabotaggio degli industriali e dell’alleanza tra forze controrivoluzianarie interne e intervento armato degli eserciti occidentali. E’ un modello di teoria applicata politicamente, di teoria della prassi, visibile anche nel fatto che in tutti i suoi discorsi dei giorni della rivoluzione, ai soviet, agli operai e ai contadini, Lenin non nomina nemmeno mai Marx, né parla della sua teoria o proferisce formule e ricette della sua dottrina, ma parla applicando concretamente la teoria in termini di analisi politica e sociale del reale e di conseguente iniziativa di lotta in quel dato momento.

11) Il mondo è percorso e pervaso da opposti fondamentalismi. Un fenomeno comune che riguarda tutte le culture che si sono innervate sulle grandi religioni monoteistiche. Come tendenza ad affermare e se possibile imporre in modo totalizzante la propria dottrina é applicabile a qualunque ideologia, religiosa o laica. Un integralismo che diventa fondamentalismo quando afferma la volontà di fare rispettare come monoteistica, con qualunque forma di forza, la propria cultura e civiltà.

La negazione delle ideologie e la “fine della storia” produce i suoi mostri.

Il fondamentalismo è un pensiero unico, che nega la dialettica tra le diverse concezioni del mondo e della storia, legittimata se non figliata da teorie di scarsa qualità come quelle espresse da conservatori quali Fukuyama e Huntington (già autore coautore del “famigerato” studio della Commissione Trilateral – di Kissinger, Rochefeller, Agnelli e Ruggero tra gli altri – sui pericoli che rappresenta la democrazia per la governabilità) che non percependo la dialettica che esiste tra la base materiale di ogni civiltà e la politica degli Stati, considerano esaurita la storia e la dialettica interna di ogni civiltà, ritenendo finita ogni possibile alternativa alla propria ideologia e al proprio modello di società: liberista o coranica che sia.

Questa negazione della dialettica e del pluralismo porta a concepirsi come “pensiero unico” e a declinare al singolare sia la propria che le altrui civiltà, sotto il segno di una scelta ideologica esclusiva che punta a stemperare e cancella le differenze culturali, i contrasti d’interesse e le divisioni sociali di classe, o a sottovalutarle e a subalternarle con teorie come quelle dette “terzomondiste” e della cosiddetta “dipendenza” delle “periferie” dal “centro” che dividendo il mondo in un “Nord” che drena le ricchezze dal “Sud”, non sanno certo spiegare, anzi ignorano e rimuovono, “come” e in che modo queste ricchezze vengono prodotte, ma producono due gravi effetti e conseguenze:

a)di spostare il concetto e l’ottica dello sfruttamento dal processo produttivo capitalistico e dalle sue forme di produzione a quello tra Nazioni e Paesi;

b) di favorire l’idea di una contrapposizione o “scontro di civiltà”.

E’ noto di quale “pensiero unico” si sia nutrita la società occidentale, grazie al processo di omogenizzazione al processo organico del capitale operato con cui, dietro l’alibi della ristrutturazione capitalistica, forze della sinistra europea e italiana infliggono colpi alla loro ideologia, anche quando abbracciano (come molti cattolici, antiglobal, sinistre e sindacato) quelle teorie “della dipendenza” che ignorano del tutto le vecchie e nuove divisioni di classe, potenziate “nel Nord e nel Sud” dalla cosiddetta “globalizzazione”, che in realtà altro non è che una suprema accelerazione di un processo organico del capitale, attraverso non solo l’esportazione e l’internazionalizzazione di capitali, mercati e materie prime, ma soprattutto e in primo luogo attraverso l’esportazione e l’internazionalizzazione del modo di produzione e dei rapporti sociali capitalistici stessi in tutto il mondo.

Un processo di mondializzazione e internazionalizzazione del modo di produzione e dei rapporti sociali capitalistici, con il quale non solo non vengono meno ma vengono confermate e potenziate tutte le contraddizioni che, dall’inizio del “secolo lungo (iniziato ben prima del ‘900 con le lotte di fine ‘800 per la spartizione delle risorse mondiali di cui le due guerre mondiali e l’Ottobre del ’17 sono state le testimonianze più eloquenti) e con l’avvio di quel processo che per successive acquisizioni ci ha portato alla presente dimensione mondiale – che chiamiamo appunto età contemporanea – attraverso la progressiva unificazione del mercato mondiale sotto il segno del sistema capitalistico di scambio, hanno portato nel corso del ‘900 ad aspri conflitti internazionali, tipicamente interimperialistici e a profonde lacerazioni di classe.

Così come quando dal grembo del mercato unico mondiale crebbero inevitabilmente nella realtà e nelle coscienze le forze antagonistiche del sistema capitalistico e la stessa idea del socialismo; così oggi nella fase “matura” dell’età contemporanea, che si distingue qualitativamente ancora di più da quella del suo inizio che aveva cominciato a distinguere l’età contemporanea da quella moderna, la frattura dialettica che tende a rovesciare il meccanismo economico e sociale del capitalismo, con la cosiddetta e solo per intenderci “globalizzazione”, si va ed estende ancor più, diventa potenzialmente sempre più forte ed eguale in ogni parte del mondo, oggi ancor più di ieri.

Viceversa gli “opposti fondamentalismi” diventano il modo ideologico di opporsi alla realtà, proprio di chi concepisce e punta alla “società omogenea” mirando, anche con riforme elettorali e “riforme istituzionali” contrarie al pluralismo sociale e ideologico, a forme di governo in cui due partiti o due poli “di governo”, si fronteggiano non più come di “destra” e “sinistra”, ma come aggregati, come kombinat di “gruppi di pressione” (tipici dell’americanismo) e di interessi corporativi, per l’alternanza di governo tra lobby qualitativamente non diverse ed espressione delle medesime classi sociali e della formazione sociale capitalistica.

Il fondamentalismo si limita a cogliere solo una parte della verità, la sua, assumendola e contrapponendola antidialetticamente al tutto. Per questo assomiglia a quello che Hegel chiama il pensare astratto, un pensiero che coglie solo una parte della realtà e della verità e che, come tale, produce un modo di pensare astratto. Per questo anche nega la realtà.

Questo nonostante l’evidenza del fatto che non esistono “società omogenee” e tutte le civiltà sono pluraliste e contraddittorie. Se gli americani (e gli inglesi che sono in verità più “cervello dell’occidente” degli americani, rispetto a cui sono questi a fare ciò che dicono gli inglesi più che viceversa) avessero letto anche soltanto “Danubio” di Claudio Magris, non avrebbero guardato alla Serbia con gli occhiali deformanti del pensiero unico e, forse, non avrebbero sparato nel mucchio. Avrebbero almeno saputo che la Serbia è “profondo occidente”, parte costitutiva e importante della civiltà occidentale. Questo aumenta le colpe di chi come i governi di sinistra dell’Europa continentale doveva e deve sapere, ma che preferisce ancora oggi – come “freudianamente” ha fatto D’Alema a Reggio Emilia sostenendo che la Serbia aveva invaso il Kosovo (un suo territorio) – sporgere il petto per mostrare, vantandosene, le medaglie appuntategli sul petto nel corso di una guerra antiserba che – come quella all’Iraq – non ha certo risolto i problemi da cui originavano la crisi e che ha visto la violazione di ogni regola del diritto internazionale, con una sovrapposizione dell’Onu, espressione del “diritto della pace”, con la Nato, espressione del “diritto della guerra”. Ciechi e miopi di fronte ai sentimenti di revanscismo e vendetta che possono essere alimentati da rabbia, frustrazione, dolore e disperazione delle popolazioni e che poi si lamentano a “babbo morto”.

Ogni civiltà è, come ovvio, attraversate da antitesi e interessi contrapposti. Anche la civiltà islamica, ovviamente, anche la sua religione, che certamente non sono del resto incompatibili con il capitalismo. Il Corano non ha niente contro la proprietà privata, regolamenta l’eredità, permette le transazioni commerciali e permette di mettere a frutto i propri beni alla maniera capitalistica. Lo sanno bene i monarchi multimiliardari, compreso Bin Laden.

La religione mussulmana in effetti è incompatibile solo con il comunismo, di cui l’Islam non ha mai accettato l’ideologia. Lo sanno bene i regimi arabi che hanno inteso anche solo richiamarsi al socialismo e che di fronte al fondamentalismo e anche al terrorismo islamico, hanno dovuto evitare di affermare a voce alta il loro laicismo e hanno mescolato confusamente le due ideologie del mondo mussulmano moderno: l’arabismo e l’islamismo. Anche perché gli arabi non sono stati in grado di restaurare i diritti dei palestinesi nei confronti di Israele, e gli islamisti hanno potuto presentare questo come una “punizione divina”. Così ha preso piede la “guerra santa” di certi gruppi, alcuni dei quali(come Hamas) sono stati persino favoriti da Israele in funzione anti Arafat. La stessa guerra del golfo è stata una guerra che ha favorito i regimi islamistici come l’Arabia saudita e il Kuwait, e indebolito quelli laici dell’arabismo a cui appartiene lo stesso regime iracheno.

Ma la divisione “pluralistica” passa oltre che per i contrapposti interessi di classe e le contrapposizioni sociale tra popolazioni povere e classi dirigenti tiranniche e corrotte al servizio degli interessi occidentali, passa per la religione, anche tra sunniti, sciiti, kharijiti. E poi gli sciiti imamiti, gli sciiti ismailiti divisi tra Drusi e Nosairi con all’interno gli Alauiti, e poi gli sciiti zaiditi, ecc. ecc.

A contestare la pretesa guerra tra civiltà, basta sommariamente ricordare che i mussulmani già sapevano che la causa della peste è l’assenza di igiene fisica quando l’Occidente credeva ancora fosse il peccato e gli antenati di Bossi (e nostri) respiravano la mal-aria; che è con il dominio della Turchia, pilastro dell’alleanza occidentale, che l’umanesimo mussulmano si riduce a teologia, bandendo lo spirito critico e la ricerca scientifica; che la civiltà occidentale deve a quella islamica come minimo la letteratura, la chimica, la matematica, la medicina e la ginecologia, l’arco acuto e le vetrate in architettura, l’algebra, la trigonometria e l’astronomia. E anche la Divina Commedia di Dante.

12) Se proprio si volesse fare riferimento alla categoria della civiltà, si dovrebbe allora dire che non è scontro tra civiltà, ma è crisi delle civiltà, Testimoniata dal ricorso reciproco alle armi del “terrorismo di guerra” e anche dalla terminologia del ricorso da una parte alla bomba atomica e alla censura, perché dalla guerra del Vietnam in poi, non si sopporta che ci siano informazioni sulla guerra; dall’altra alle armi batteriologiche e chimiche o nucleari tattiche. E Il linguaggio, come si sa, è una manifestazione della filosofia e della cultura degli uomini che per questo, anche inconsapevolmente, sono tutti filosofi.

Sicché a una civiltà che semina e minaccia vento, un’altra risponde seminando e minacciando tempesta (e viceversa, così avanti all’infinito).

I grandi potenti della terra, i rappresentanti della borghesia delle diverse aree imperialiste che discutono nei loro vertici di come affrontare la povertà che loro stessi diffondono, le guerre che scatenano e guidano, lo sfruttamento che impongono, seminano vento e trovano chi risponde con la tempesta.

In Inghilterra i bambini mostrano una pericolosa tendenza alla violenza e sopraffazione (c’è da stupirsene in un paese dove dalla Thatcher a Blair si diventa grandi statisti se si dimostra di usare la forza contro gli altri paesi o contro i minatori e i lavoratori del proprio?), tanto che alcuni marchi pubblicitari che ormai sono più autorevoli dei politici e delle scuole, hanno deciso d’intervenire per organizzare gare in cui dare merci, scarpe, magliette, ecc, come premi, a chi risulterà meno violento, anche perché la carità umanitaria e sociale fa molto bene soprattutto ai marchi.

La civiltà occidentale è anche, e forse ormai soprattutto, questa, fatta di mali e di rimedi peggiori del male stesso, che non la rendono certo attraente ma anzi decisamente odiosa, non solo ai mussulmani ma anche a tanti cristiani e occidentali in genere.

La questione è sempre sociale e il dissenso nel mondo come all’interno dei Paesi è proporzionale al montare della crisi economica, rispetto a cui sia all’interno che sul piano internazionale si attiva la violenza degli apparati repressivi che scatenano la resistenza e la ribellione, a Seattle e a Genova come nel mondo mussulmano. E L’attacco alla costituzione democratica, antifascista e fondata sul lavoro si coniuga perciò con il processo di sostituzione del “diritto della pace”(da cui è nata la costituzione antifascista e contro la guerra) con il “diritto della guerra”, e rilancia tutti i poteri autoritari e personali di destra e di sinistra: tanto che ad esempio, non è un caso che D’Alema ha ripreso voce e spazio dopo l’11 settembre.

Il cosiddetto “popolo di Seattle” anche nella sua composizione sociale esprime in un certo senso la risposta uguale e contraria ai processi di crisi del capitale. Sono generazioni cresciute sotto il dominio delle multinazionali inquieti e arrabbiati per le politiche economiche del “capitale globale”, perché vivono condizioni di precarietà e di sfruttamento nel lavoro, di insoddisfazione e alienazione nei rapporti sociali, di ribellione verso un sistema di potere che li considera solo come consumatori, anche se come i “talebani” non sanno cogliere che le radici di tutto questo stanno nel sistema del meccanismo di accumulazione capitalistico, nelle forme di produzione e nei rapporti sociali che determinano e non sanno bene identificare le strade e le forme di una risposta di lotta adeguata e all’altezza della forza e natura della formazione sociale dominante. 

Anche per questo si scatenano forme di violenza nichilista nelle strade contro i simboli dell’ordine economico e politico. Le forme devianti che si sono espresse a Genova (e per un altro aspetto e su un altro livello, le forme ben più gravi e devianti di New York), sono conseguenza di una mancanza di coscienza determinata dalla mancanza di teoria generale e di prassi conseguente; della mancanza e assenza di un ruolo e di una funzione che in questo senso dovrebbe esprimere il partito e un movimento democratico e di massa organizzato e armato di teoria e prassi da cui deriva la coscienza e una visione generale della totalità dei rapporti politici e sociali, perché la coscienza non si genera spontaneamente ma presuppone la presa di visione di una totalità, e questa totalità può essere perseguita attraverso uno sforzo di analisi prolungata della realtà complessiva, che non può essere tanto o solo degli intellettuali, se non con gli esiti negativi quali quelli che osserviamo oggi quando i ceti intellettuali della “sinistra” separando teoria e prassi contribuiscono in maniera spesso determinante a ridurre la cultura a pura astrazione, la teoria a corporativismo culturale, la politica a tatticismo esasperato e la militanza a opportunismo di partito.

13) I comunisti si trovano quindi di fronte ad una situazione interpretabile dalla teoria come espressione di una storicità della concezione e delle esperienze del comunismo e dei comunisti.

Così che in tale separazione e vagheggiando apodittiche “scomposizioni di classe” ad opera di una tecnica e tecnologia terroristicamente agitate come superamento della lotta di classe, si mistifica come un unicum, tutta la complessità e la molteplicità dell’esperienza socialista, riducendo tutta la varietà del processo storico del movimento operaio e social-comunista a catastrofe o a “conservazione”, secondo lo schema “modernista” che riduce tutto alla sola dialettica “conservazione-innovazione”, questa volta applicato a tutta la teoria e a tutta la storia del movimento comunista.

Con tale abiura si cancella l’onere di analisi ed elaborazioni critiche riferite alla storicità e alla varietà delle diverse esperienza del comunismo e dei comunisti, non fosse altro per l’influenza che hanno avuto e per le gravi conseguenze anche più immediate e che stiamo già vivendo, che una tale rinuncia comporta, se è vero come è vero l’influenza che la rivoluzione marxista ha comunque avuto non solo sul processo di decolonizzazione, ma sullo stesso occidente capitalistico, a proposito del quale si possono citare autorità non sospette, compreso il patriarca del neoliberismo che al di là del giudizio di valore, allorché esamina le questioni dello stato sociale e dei diritti economici e sociali, dichiara che “questa teorizzazione dei diritti economici e sociali è il risultato dell’influenza rovinosa (così la chiama) della rivoluzione marxista russa”, cioè della rivoluzione d’ottobre.

Non fosse altro perché la stessa genesi della coscienza e dell’esperienza rivoluzionaria del soviettismo, come ebbe cura ripetutamente di avvertire lo stesso Lenin, avviene in un contesto storico ben determinato che è quello della Russia zarista.

E quindi da questo punto di vista lo stesso partito teorizzato da Lenin è un partito costruito in funzione di una situazione di arretratezza e di guerra, un partito “militarizzato” in rapporto ai compiti e alle esigenze determinatesi in un una precisa situazione, che spiega per un verso il suo grande successo allorché scoppiano la guerra e poi gli sconvolgimenti in Russia, ed è l’unico partito veramente attrezzato per lo stato d’eccezione; per un altro verso spiega la debolezza di questo partito una volta che lo stato di eccezione si è dileguato e non è in realtà più in grado di adattarsi alle condizioni di “normalità”, spiegando il paradosso della rapida dissoluzione che si è verificata sia in Urss che nei paesi del cosiddetto socialismo reale tra il 1989 e il 1981.

Non fosse altro perché da una teoria costruita sulla tesi della estinzione dello stato, della nazione, della religione, ecc., insomma in altre parole del dissolversi di tutti quegli elementi che potrebbero essere i fondamenti dell’olismo o dell’organicismo, non si può quindi da una siffatta teoria fare discendere a priori il totalitarismo dalla teoria marxista-leninista, che si fa discendere appunto dal fatto che confondendo “organica” con “organicista”, si dice che dato che questa teoria sarebbe olista e organicista essa avrebbe finito inevitabilmente col produrre il “gulag”.

Al contrario non solo non c’è nulla di olista e organicista, di organico certamente, ma semmai c’è da vedere se non ci sia un eccessivo elemento di attesa dell’estinzione di ogni elemento di tal genere, che sta a indicare semmai un elemento di debolezza, storicamente determinato, che rende più difficile estirpare l’eredità dell’autocrazia zarista. Al punto che anche Lenin sembra rendersene conto, quando pensa che specialisti sovietici debbano recarsi negli stati più avanzati dell’occidente per studiarli, e che lo stesso Lenin stesso ha sempre sottolineato che era più facile una rottura rivoluzionaria in un paese che riconosceva come profondamente arretrato come la Russia, impossibilitato però a proseguire e portare a termine il progetto bolscevico, se i paesi più progrediti e avanzati dell’occidente non si fossero affiancati ad esso e alla rivoluzione.

Per comprendere il fenomeno totalitario in realtà si dovrebbe partire dalla situazione che si viene a creare con il primo conflitto mondiale nei paesi più diversi, che è una espressione che comincia a circolare subito dopo il primo conflitto mondiale. Tanto che il termine totalitarismo, rinvia per l’appunto anche sul piano linguistico ed etimologico alle espressioni sopra ricordate circolanti nella sociologia di quel periodo.

Se si procedesse ad una analisi comparata dei diversi paesi, noi vedremmo che siamo in presenza di fenomeni che possono essere messi a confronto nei diversi paesi, che si manifestano anche nei paesi di tradizione liberale seppure ovviamente con diversi gradi di intensità.

Se c’è un fattore ideologico che ha favorito lo sviluppo dell’universo concentrazionario nella Russia successivo alla rivoluzione d’Ottobre (che era già presente con lo zarismo), occorre indagare se non sia invece proprio una visione tendenzialmente escatologica a proposito della estinzione dello stato e del potere in quanto tale, che certamente non ha favorito l’impegno e la riflessione per la trasformazione in senso democratico dello stato scaturito dalla rivoluzione d’ottobre e il superamento delle tradizionali del diritto e del potere dall’alto propriamente borghesi.

Anche ciò storicizzando in ragione di una specifica situazione storica, in cui quando Lenin ad esempio scrive Stato e Rivoluzione e divampa il primo conflitto mondiale, lo Stato appare a ragione un gigantesco Moloch che impone a milioni e milioni di individui di essere sacrificati sull’altare della “volontà di potenza” dei singoli stati, sì da giustificare un antistatalismo di Lenin che va oltre quello stesso di Marx: lo stato sinonimo in quanto tale di abiezione e di distruzione in massa delle vite umane. Con ciò distogliendo gli sforzi da un impegno concreto per la realizzazione di uno stato e di un diritto diversi.

A chi invece di storicizzare pretende di cancellare, facendo pesare lo iato tra progetti, speranze e ambizioni della rivoluzione sovietica e i suoi esiti, occorre ricordare che per fare un bilancio della rivoluzione d’ottobre, non c’è motivo per non applicare alla rivoluzione che a Marx ed Engels si è ispirata proprio il metodo che Marx ed Engels hanno applicato alle altre rivoluzioni, a quelle borghesi, a proposito dello scarto che sempre nella storia si è verificato tra il progetto rivoluzionario e i suoi risultati. Come quando, ad esempio, Marx ed Engels hanno sottolineato che i giacobini speravano in una certa misura di riprodurre la polis antica in Francia ma certamente si è verificata ed è emersa una società del tutto diversa; una considerazione che può essere sviluppata anche per quanto riguarda l’Inghilterra, quando nel corso della prima rivoluzione inglese molti si sono richiamati alla semplicità della società biblica, ma certamente non è poi questo tipo di società che si è prodotta; o per quanto riguarda l’America in cui non solo Jefferson ha pensato ad una società che sarebbe stata caratterizzata dalla piccola proprietà terriera, dall’assenza di un esercito di mestiere, dall’assenza di un apparato statale notevole, e sappiamo che in realtà le cose sono andate in modo del tutto diverse.

C’è insomma sempre un divario che richiede sempre di essere spiegato, analizzato, storicizzato, che non si capisce perché non debba valere anche per la rivoluzione d’Ottobre e per l’esperienza storica concreta del comunismo e dei comunisti nelle diverse fasi e nei diversi paesi, che non cancella e non esime di per sé dalla necessità di non limitarsi ad una critica del capitalismo ma di finalizzarlo, indicando l’obiettivo di una transizione verso al socialismo.

Continuare a negare o a nascondere, oltre che rinnegare tale obbiettivo, senza storicizzare perché gli approdi sono risultati diversi, equivarrebbe, per dirla con una metafora, a negare l’importanza di essere partito per scoprire le Indie solo perché Colombo ha invece scoperto l’America; e rinnegare e negare l’importanza di dover comunque proseguire per andare oltre e arrivare alle Indie.

Il che è appunto di chi vuole rinnegare l’intero processo storico e tutte le esperienze rivoluzionarie, di tutti i paesi, proclamando, ridicolmente, la “fine della storia”, legando al polo dialettico della “conservazione”, tutta la complessità molteplice del passato, e tutta quella del futuro al solo ed esclusivo polo dialettico della “innovazione”.

Non c’è dunque solo un fondamentalismo “del senso”, c’è anche un fondamentalismo “del non senso”. (fine)

Marxismo, fondamentalismo e guerre (5)ultima modifica: 2012-11-18T08:10:00+01:00da iskra2010
Reposta per primo quest’articolo