Circolo comunista Enrico Berlinguer documento per asemblea iscritti

Chi non vuole un unico partito comunista....png


Documento di prospettiva politico-economica del

Circolo Enrico Berlinguer per l’assemblea degli iscritti

 

Analisi politica della fase


Quando avremo vinto su scala mondiale, con l’oro si faranno gli orinatoi delle grandi città. (Lenin)

 

I dati (in allegato) parlano di cifre raccapriccianti e le testimonianze sociali a riguardo si fanno ogni giorno più numerose. Chi ancora nutriva qualche perplessità non ha più appigli: non ci può essere una soluzione positiva di questa crisi, oramai strutturale, del capitalismo.

Ha un bel dire Monti quando parla “di luce in fondo al tunnel” volendo far credere una cosa che è negata dalle percentuali sia italiane che di molti paesi dell’Europa, soprattutto della zona meridionale, relativi alla disoccupazione (compresa quella giovanile), alle ore di cassa integrazione e ai posti di lavoro persi.

Le fazioni della grande borghesia, le istituzioni europee ed internazionali e tutte quelle che rappresentano i padroni parlano una sola lingua: la lingua dello sfruttamento e del dispotismo capitalistico.

Anche noi proletari dobbiamo parlare una sola lingua: la lingua dei nostri bisogni, delle nostre aspettative, della nostra dignità, della nostra organizzazione unitaria di classe. Negli ultimi due decenni  i padroni hanno visto aumentare i loro profitti in modo esorbitante, i lavoratori invece hanno visto drasticamente diminuire il potere d’acquisto dei propri salari. In ultima analisi è aumentata la ricchezza prodotta dal lavoro (surplus) intascata dai capitalisti mentre è venuta meno sempre più la redistribuzione ai lavoratori. A tal proposito il caro vecchio Marx diceva: <<L’operaio diventa tanto più povero quanto più produce ricchezza […]L’operaio diventa una merce tanto più a buon mercato quanto più crea merci.>> Da ciò ne consegue, e ne abbiamo avuto ampia dimostrazione, che le ipotesi socialdemocratiche e neo-moderate sono senza ombra di dubbio fallimentari.

In questa feroce guerra internazionale le potenze e le fazioni della grande borghesia, per accaparrarsi fette dei profitti una a danno delle altre, spostano sempre più a destra le loro politiche social-liberiste e filo-imperialiste andando così a confluire nelle politiche delle destre classiche  per unirsi in un fronte comune. Esemplare in questo senso il “governo dei tecnici” capeggiato da Monti dove il mondo della finanza oramai detta le proprie leggi in commistione con i politici di schieramenti apparentemente differenti (Pd, Pdl, Udc) che gli preparano il terreno legislativo.

Si disvela ogni giorno di più la natura di classe del governo dei professori-banchieri, maestri eccellenti nell’uso del debito e dello spread come forma di ricatto permanente sulla testa delle classi subalterne per cancellare salari, diritti, lavoro e tutte le conquiste ottenute nei decenni di perentorie lotte sociali organizzate e portate avanti da partiti di classe (PCI in primis,  più altre realtà extra-parlamentari).

E’ questo il nodo gordiano che dobbiamo sciogliere: dobbiamo uscire allo scoperto e rilanciare la nostra ipotesi di società: i lavoratori devono riappropriarsi dei mezzi di produzione come punto di partenza per spezzare quel meccanismo perverso fonte di tutti i mali (economici – sociali e umani).

Non è più tempo di inseguire alleanze posticce con Pd, Sel, Idv, Alba, tutti accomunati dalla chiara impostazione liberale. Bisogna piuttosto richiamare la nostra classe di riferimento a raccolta sotto la bandiera rossa del Comunismo per evitare che movimenti populisti (Grillini in particolar modo) siano visti agli occhi di milioni di persone della nostra classe come esterni al sistema attuale e dunque utilizzabili come strumento di protesta da ampi strati popolari stremati dalla crisi, schifati oramai dall’attuale, ignobile, classe politica.


Situazione Internazionale


Il movimento proletario è il movimento autonomo della stragrande maggioranza nell’interesse della stragrande maggioranza. (K. Marx)

 

Nel mondo stiamo assistendo ad una recrudescenza dei conflitti bellici senza precedenti, le stime di Emergency parlano di 31 grandi conflitti attualmente in corso. L’ultima escalation guerrafondaia si è assistita il mese scorso in Palestina dove la protervia dello stato sionista israeliano ha raggiunto livelli insopportabili, col benestare meschino dell’occidente. Aver riconosciuto la Palestina come stato osservatore “non membro” nel consiglio di sicurezza dell’Onu a poco o a nulla serve per la sostanziale soluzione della questione palestinese; che risulterà invece un ulteriore pretesto da parte dell’Anp per continuare a contrattare con Israele al ribasso i diritti dei palestinesi. Come circolo siamo convinti che Israele debba fermare senza se e senza ma l’occupazione e retrocedere dai territori indebitamente già occupati. Per questo appoggiamo incondizionatamente la resistenza palestinese (fronte di liberazione) per la formazione di uno stato “unico” palestinese, laico e aconfessionale, dove finalmente, dopo tante vessazioni, il popolo palestinese possa prendere in mano il proprio destino.

Nella vicina Siria il conflitto in corso per far cadere il governo di Assad è un’altra dimostrazione dei tentativi occidentali di destabilizzare l’area medio-orientale per meglio assoggettarla alla propria politica economica, così come è stato fatto in Afghanistan e Iraq. Questi conflitti portati avanti in Medio-oriente dall’imperialismo, americano soprattutto, hanno la loro ragion d’essere nell’operazione di accaparramento delle risorse energetiche di cui l’area è ricca, oltre che per la creazione di nuovi spazi di mercato con manodopera a bassissimo costo.

Le cosiddette “primavere arabe” in Nord Africa, scaturite da una maggiore presa di coscienza collettiva da parte di proletari e sottoproletari riguardo alle loro problematiche economico-sociali, hanno tentato di spezzare il giogo dei governi corrotti, che col beneplacito dell’occidente hanno affamato per decenni quelle popolazioni. Purtroppo la mancanza di un “fattore soggettivo” politico, un partito comunista forte, ha portato, nonostante i buoni propositi nati dal basso, dall’azione alla reazione, dalla rivoluzione alla controrivoluzione.

Quasi ogni paese del mondo ha subito in questi anni: aumenti della disoccupazione, tagli ai diritti fondamentali dei lavoratori, tagli allo stato sociale, tagli ai servizi, il tutto “promosso” dal Fondo Monetario Internazionale di concerto con la Banca Mondiale con la scusa, mendace, della necessità di risanare i debiti pubblici nazionali che per tutta risposta invece continuano a crescere, con immensa gioia dei grandi gruppi bancari, che si vedono pagare dagli stati, oramai strangolati (vedi Italia, Grecia, Spagna, etc.), astronomici interessi.  Una manna dal cielo per i capitalisti che invece di investire nella produzione investono sui debiti, con profitti sicuri e certezze per il loro futuro garantite dalle nazioni, a discapito del futuro della stragrande maggioranza dei cittadini. Questo è un pericoloso corto circuito, un cul de sac, in cui l’economia globalizzata, basata sulla circolazione del denaro ancor più che delle merci, sta ricacciando il mondo. Le ricette promosse da governi complici delle banche, come il governo Monti, non sono la  cura ma gli effetti di questa malattia, ormai endemica. Siamo in ultima analisi di fronte ad una crisi perenne, che porterà i popoli alla bancarotta; popoli che coercitivamente abbindolati da una propaganda mediatica sempre più incalzante e reazionaria si andranno convincendo – senza la contro-azione di un soggetto politico realmente popolare che spinga per un cambiamento di sistema – che la crisi è lo stato normale dell’economia, a cui rassegnarsi definitivamente, soggiogati infine a fare sacrifici, vita natural durante, per mantenere lauti profitti ai loro affamatori.

In quest’ottica è fondamentale quindi lottare per imporre la nazionalizzazione delle banche: unico modo per impedire la definitiva bancarotta dei popoli. La soppressione a livello internazionale di un’economia basata sul debito, imperniata su un sistema monetario, in questo senso è cruciale


Conclusioni

 

La verità è sempre concreta (Lenin)

 

Il grande Lenin diceva: <<fino a quando gli uomini non avranno imparato a discernere, sotto qualunque frase, dichiarazione e promessa morale, religiosa, politica e sociale, gli interessi di queste o quelle classi, essi in politica saranno sempre, come sono sempre stati, vittime ingenue degli inganni e delle illusioni. […] Dal momento che non si può parlare di una ideologia indipendente, elaborata dalle stesse masse operaie nel corso del loro movimento, la questione si può porre solamente così: o ideologia borghese o ideologia socialista. Non c’è via di mezzo (poiché l’umanità non ha creato una “terza” ideologia e, d’altronde, in una società dilaniata dagli antagonismi di classe, non potrebbe mai esistere una ideologia al di fuori o al di sopra delle classi). Perciò ogni diminuzione dell’ideologia socialista, ogni allontanamento da essa implica necessariamente un rafforzamento dell’ideologia borghese.>>

Come comunisti allora dobbiamo lavorare – in questo mondo “idealisticamente materialista”, corrotto, prostituito al denaro, dove le persone vivono l’alienazione del lavoro e della propaganda e lavorano per alimentare la propria schiavitù –  per una presa di coscienza di classe dal respiro internazionale creando e portando avanti un’alternativa socio-economica possibile e necessaria, l’unica veramente perseguibile, la cui pietra angolare debba essere la ricerca continua, adogmatica di una visione d’insieme, su basi dialetticamente materialiste, coerente con la sostenibilità umana, economica ed ambientale: in una parola il socialismo.                                              

Non è più tempo di tentennamenti quindi come Circolo “E. Berlinguer” chiamiamo a raccolta tutti gli iscritti perché in questo periodo di crisi feroce una scelta chiara e precisa si impone. Non da settarismo o velleitarismo politico, ma mossi da una ineluttabile realtà storica: dobbiamo concentrare tutte le nostre forze partendo dal mondo del lavoro per estenderle in tutte le direzioni della società per la costruzione di un Partito Comunista dall’irrefutabili radici marxiste-leniniste.

Bisogna avere il coraggio di recidere il cordone che ci vede legati ad un partito (Prc) che non è più compatibile con le nostre aspettative, la cui classe dirigente inetta continua con diabolica perseveranza a portare verso il baratro e le cui decisioni verticistiche non hanno fatto altro che gettare confusione e sconforto nel suo corpo militante e nel suo elettorato; prima con la formazione della sinistra arcobaleno, poi con l’ostinazione fallimentare della Federazione della Sinistra, recentemente con l’ipotesi di formazione di un quarto polo, liquidando di fatto simbolo e nome per confluire in un cartello elettorale “arancione” impostato su politiche keynesiane e liberali (new deal).

Basta tergiversare! Il momento storico ce lo impone. Occorre un atto di obiettività storica. La lotta di classe è iniziata e siamo già in ritardo rispetto ai capitalisti che si sono già avvantaggiati, ma solo il chiamare a raccolta tutti i compagni della diaspora comunista potrà risultare vincente per il nostro obiettivo come le vicende di Russia, Cina, Cuba stanno a testimoniare. Solo i comunisti sono riusciti a sconfiggere il capitalismo e solo i comunisti ci riusciranno di nuovo, perché il capitalismo è alle corde e sta a noi accelerare i tempi e farci trovare pronti a prendere il suo scalpo.

Partiamo dal lavoro e contrapponiamo al disegno schiavistico di società strumenti concreti che destabilizzino le attuali istituzioni che proteggono come fortezza la cittadella della proprietà privata contrapponendo ai loro sindacati i nostri Consigli di Fabbrica in modo da far intravedere una diversa forma di società possibile e così aprire varchi e spazi sempre più grandi che la Classe Operaia dovrà gestire direttamente.

Apriamo una discussione, compagni, su questi punti e cominciamo a pensare in grande, perché grande è la nostra idea. Proletari di tutto il mondo uniamoci!

 

30 DATI PER L’ASSEMBLEA (al 25/11/2012)

 

IN EUROPA LA DISOCCUPAZIONE È STRUTTURALE


La vera emergenza nell’area euro non è lo spread ma la disoccupazione. Lo ammette la Bce nel suo ultimo rapporto sul mercato del lavoro, che rivela come un’elevata disoccupazione sia ormai una caratteristica strutturale dell’economia europea. Tra il 2008 e il 2011 l’Europa ha perso 4 milioni di posti di lavoro (-2,6%). La disoccupazione dell’area euro in meno di tre anni è aumentata di due punti, passando dal 9,6% del 2009 all’11,6% del settembre 2012. Contemporaneamente, è aumentata anche la disoccupazione di lungo periodo, che nel 2010 ha raggiunto il 67,3% del totale (7 punti più che nel 2008). Un segno evidente di quanto la disoccupazione non sia più un fenomeno congiunturale. I disoccupati nell’area euro dal settembre 2011 al settembre 2012 sono aumentati di 2milioni 174mila unità.

Con il passaggio ad una politica incentrata su drastici tagli della spesa pubblica per ridurre i deficit pubblici, la disoccupazione è esplosa. Il fenomeno è evidente anche in Italia. In 24 mesi, nel periodo peggiore della crisi tra gennaio 2008 e dicembre 2009, i disoccupati aumentarono di 463mila unità. In soli dieci mesi, tra novembre 2011, data d’insediamento del governo Monti, e settembre 2012, sono aumentati di 416mila unità, passando dai 2 milioni e 359mila di novembre 20011 ai 2milioni e 774mila di settembre 2012.

LE RESPONSABILITA’ DELLA B.C.E.

La Bce di Mario Draghi ritiene che la principale causa della disoccupazione strutturale non sia la crisi ma l’eccessiva rigidità salariale. La soluzione, quindi, sarebbe garantire maggiore flessibilità salariale proseguendo con le “riforme del mercato del lavoro”, come quelle che si stanno portando avanti in Italia (riforma Fornero), Grecia, Portogallo, Irlanda e Spagna.

Di fatto,  ad oggi, il potere d’acquisto dei lavoratori si è ridotto senza che la disoccupazione abbia smesso di crescere.

Di fatto, oggi in Europa, come negli Usa, si tende a ricostituire un ampio “esercito industriale di riserva”, con lavoratori a tempo che possano essere agevolmente inseriti e dismessi a seconda dei cicli di una economia che è destinata a mantenersi per chissà quanto tempo a un bassissimo tasso di crescita molto lontana dalla piena occupazione.

Visto che le riduzioni salariali e del costo del lavoro non hanno mai creato maggiore occupazione, l’obiettivo reale delle riforme del mercato del lavoro è quello di contrastare la sempre più agguerrita concorrenza mondiale comprimendo i salari di milioni di lavoratori a livelli di sussistenza o addirittura al di sotto di questo livello. Archiviata la società del benessere e dei consumi, con buona pace dei teorici della “decrescita felice”, fa ritorno sulla scena sociale la figura del “povero che lavora”, ricattabile e disposto ad accettare condizioni e ritmi di lavoro peggiori. Del resto, che importa se il salario reale cala? Non è il mercato interno che interessa alle grandi imprese multinazionali ma quello mondiale.


LA DISOCCUPAZIONE IN ITALIA


L’Italia passa dal 5,1% di inizio 2007 al 7,8% del 2009 al 10,8% del settembre 2012. Le previsioni per l’Italia riguardanti il 2013, secondo l’Istat, danno un ulteriore peggioramento, con la disoccupazione all’11,4%, a causa del contrarsi dell’occupazione e dell’aumento della disoccupazione di lunga durata. Questa percentuale dovrebbe corrispondere a circa 3 milioni di disoccupati.

I DATI DI UN DISASTRO INDUSTRIALE

 Da quando Monti si è insediato, la produzione industriale ha continuato a scendere ed è tornata ai livelli del 1987, mentre la disoccupazione, considerato anche il dato degli “scoraggiati”, è salita al 13% e quella giovanile addirittura al 35,9%. Assistiamo in Italia ad una preoccupante scomparsa di parti importanti del tessuto produttivo: siderurgia, auto, alluminio, commercio, bancari, edilizia, elettrodomestici, ceramica, tessile, settore aeroportuale, navale e delle telecomunicazioni sono i comparti oggi drammaticamente più a rischio. E Ilva, Alcoa, Fiat, Lucchini, Finmeccanica,  Thyssen di Terni, Carbosulcis, Vinyls, Irisbus, Alitalia, Agile ex Eutelia, Nokia Siemens, fanno parte di un interminabile elenco di situazioni di crisi.

In Italia ogni giorno 10 imprese chiudono i battenti, l’industria negli ultimi 5 anni ha perso circa 700.000 posti di lavoro considerati anche i lavoratori in cassa integrazione (aumentata del 315% dal 2008) Sono 180.000 le persone coinvolte solo nei “tavoli di crisi” aperti al Ministero di Roma, e di questi, 110.000 sono metalmeccanici. Tutto ciò senza contare le migliaia di precari a cui non viene rinnovato il contratto, oppure le centinaia di migliaia di «esodati», dimenticati senza stipendio e senza pensione dal Ministro del lavoro Fornero

·                       In Italia ad oggi i lavoratori precari o part-time hanno raggiunto la cifra record di 4 milioni, il 21% in più rispetto al 2008

Tra questi, 160 mila precari della pubblica amministrazione hanno il contratto in scadenza il 31 dicembre. Oltre ai 160 mila dipendenti pubblici, anche 70 mila persone del settore scuola sono destinate a trovarsi, al termine dell’anno scolastico, senza contratto, senza stipendio e senza lavoro, per la scadenza del loro contratto annuale.

Solo per quanto riguarda la sanità si parla di un bacino di precari pari a circa 40 mila lavoratori e circa 10 mila di questi sono medici. E’ la fine dello stato sociale perché mancheranno i servizi.

·           La spending review e le ultime manovre tagliano il lavoro precario e eliminano migliaia di posti di lavoro

La manovra di taglio delle dotazioni organiche delle amministrazioni centrali, tra cui ministeri, enti previdenziali, agenzie fiscali, enti di ricerca e altro, ha portato a 4.028 posti di lavoro in meno e ad altrettante eccedenze di lavoratori. Numeri che per la Cgil sono assolutamente parziali e che rischiano di essere di più di quelli indicati dalla stessa ragioneria generale dello Stato in 24 mila.

Tutto questo mentre non è ancora chiaro il destino delle oltre 5 mila persone che lavorano nei centri per l’impiego.

·           Tra i lavoratori del settore privato, si registra un crollo per gli apprendisti (-14,6%) mentre gli operai tengono (-0,3%) e rappresentano con 6.505.337 unità ancora più della metà dei dipendenti. Tra loro inoltre, nell’arco compreso fra 2007 e 2011, gli uomini sono diminuiti di quasi 215mila unità

L’ occupazione per gli under 30 è in calo dell’11,3%.. Per i giovani è diventato più difficile trovare un’occupazione, anche di una sola ora a settimana e con contratti a termine – il dato statisticamente sufficiente per entrare nella categoria degli “occupati”. Per di più, in media, la qualità dei nuovi lavori è più scadente rispetto al passato, anche di quello recente.

·           In questo contesto le donne Italiane si piazzano all’ottantesimo posto su 135 Paesi, vivendo peggio persino delle donne del Ghana e del Bangladesh e perdendo 6 posizioni rispetto al 2011, quando erano al 74mo posto.

Il risultato è ancora più drammatico se andiamo a considerare la partecipazione economica e le opportunità presenti: il nostro Paese è al 101mo posto con donne penalizzate nella carriera oltre che con salari più bassi rispetto ai colleghi: nel 2011 la retribuzione media annua lorda dei dipendenti privati (esclusa l’agricoltura) è stata di 21.678 euro per le donne contro i 30.246 euro degli uomini. Quasi un terzo in meno, lo svantaggio è del 28,3%, come è stato sottolineato durante il convegno sulle «Donne al lavoro»

L’82% dei lavoratori a tempo parziale è rappresentato da donne. I lavori delle donne sono i meno importanti, quasi tutti in posizioni basse e intermedie. Le differenze riguardano anche le pensioni. Le donne rappresentano il 47% dei pensionati eppure percepiscono il 34% dell’importo complessivo. Una pensionata su tre prende meno di mille euro al mese. E, in generale, nel pubblico la pensione media per le donne è di 18.400 euro lordi un terzo in meno degli uomini che sono su una media di 26.900 euro.

L’80% delle pensioni integrate al minimo sono erogate alle donne. Una donna su due ha meno di 20 anni di contribuzione nel settore privato. Nel pubblico, invece, il 40% delle donne hanno più di 30 anni di anzianità contributiva.

·           A proposito di pensioni Il 52% dei pensionati, che corrisponde a 7,2 milioni di persone, non percepisce più di mille euro dallInps e il 24% (3,3 milioni) si colloca nella fascia tra mille e 1.500 euro mensili.

Soltanto il 12,7% riscuote pensioni comprese tra 1.500 e 2.000 euro mensili e il restante 11,2% gode di un reddito pensionistico mensile superiore a 2mila euro. Inoltre l’assegno medio per le pensioni di vecchiaia nel 2011 ammonta a 649 euro, mentre per le pensioni di anzianità si sale a 1.514 euro.

Sono questi alcuni dei paradossi che emergono dal bilancio sociale del biennio 2009-2011 dell’INPS, che riflette, tra gli altri, i dati su ammortizzatori sociali e occupazione.

·           Il Pil del 2012 è diminuito di circa il 2,3%, la domanda interna è calata in misura superiore, mentre la condizione delle famiglie è in costante peggioramento.

Sono in aumento le persone che faticano ad arrivare alla fine del mese e quelle che sono costrette a intaccare i risparmi; è cresciuto il numero di chi ritiene opportuno accantonare parte del reddito, ma sono sempre meno coloro che vi riescono. E in Toscana ci sono almeno 100.000 poveri che vivono con gli “aiuti” della Caritas

 

GLI EFFETTI DEL GOVERNO MONTI


Nonostante i tagli, con Monti il rapporto debito/Pil, il parametro che più influenza la vulnerabilità del debito dello Stato, ha superato il 126%, quasi sei punti percentuali in più rispetto all’anno precedente

Malgrado le numerose e pesanti manovre fiscali, tra le quali l’introduzione dell’Imu, l’innalzamento dell’aliquota ordinaria Iva, l’inasprimento delle accise sui carburanti, le maggiori imposte di bollo, oltre al fiscal drag e alle ancora insufficienti misure di contrasto all’evasione, le entrate fiscali sono cresciute in misura limitata; il gettito Iva, a causa del crollo dei consumi, è sceso.

I vincoli di bilancio si sono fatti più stringenti con l’aggravarsi della crisi e diventeranno ancora più pesanti con l’entrata in vigore, il prossimo anno, del Trattato europeo in materia di politica fiscale, il cosiddetto “Fiscal compact”, sottoscritto dai governi europei – con l’eccezione di Gran Bretagna e Repubblica ceca – ma non ancora votato da tutti i parlamenti. Le misure previste sono l’obbligo del bilancio in pareggio e l’azzeramento, in 20 anni, della quota di debito pubblico che eccede il 60% del Pil.

Per l’Italia ciò impone che il saldo di bilancio rimanga per due decenni ampiamente positivo (a meno di elevati saggi di crescita nominale del prodotto).

Che cosa significa questo impegno per l’Italia? Nei prossimi anni, per rispettare il Fiscal compact l’Italia dovrà tagliare la spesa o aumentare le imposte per quattro o cinque punti percentuali di Pil, oltre 60 miliardi di euro.Tutto questo ha l’effetto di ridurre la domanda e far cadere la produzione, prolungando la recessione.

Nell’ultimo anno, il governo “tecnico” ha introdotto una stretta fiscale molto forte nel mezzo di un rallentamento particolarmente grave dell’economia, col risultato di aggravare sia le condizioni dell’economia reale che quelle di finanza pubblica, peggiorando anche la distribuzione del reddito.


SULLA PRODUTTIVITA’


L’italiano lavora tantissime ore: ben 200 ore sopra la media dell’Eurozona (1.573) e addirittura 363 in più rispetto ad un tedesco, eppure la sua produttività per ora lavorata, stenta: infatti nel 2011 erano 45,6 dollari contro quasi il doppio della Norvegia (81,5), che però totalizza il 20% di ore in meno, come la Germania. Dunque aumentare le ore non spinge la produttività, se non si investe in tecnologia, ricerca e innovazione di prodotto. Infatti se lavoriamo in Italia circa 200 ore all’anno in più rispetto alla media europea (v. anche dati dell’Organizzazione internazionale del lavoro OIL), con retribuzioni del 20 % inferiori, è chiaro che non è il costo del lavoro la causa dell’abbassamento del CLUP (costo del lavoro per unità di prodotto), semmai la causa è il prodotto, il cui valore è del 35% inferiore a quello che con lo stesso costo del lavoro riesce realizzare la Germania.

Ecco perché Il patto sulla produttività firmato da CISL e UIL è  reazionario e scellerato: La tesi di fondo che l’ispira è un brutale imbroglio di classe.perchè spostando tutto dal contratto nazionale (e dalle tutele garantite dalle leggi) alla contrattazione aziendale, si indebolisce tutto quello che abbiamo conquistato fino a oggi collettivamente e saranno milioni i lavoratori che non riusciranno mai a fare una contrattazione aziendale. In particolare, per quanto riguarda i salari, si prevede che il contratto nazionale possa perdere gli automatismi previsti fino a oggi, che in qualche modo tendevano a garantire il potere di acquisto agganciando gli aumenti all’inflazione: gli incrementi verranno legati alla produttività, contrattata nel secondo livello.

A tale fine il governo mette a disposizione la riduzione delle tasse solo per il salario flessibile. Mentre alla maggioranza dei lavoratori viene calata la paga, una minoranza può mantenere il potere d’acquisto se lavora di più in una azienda che va bene, e solo questa minoranza avrà meno tasse sulla busta paga. Questo mentre non si trovano più i fondi per la cassa integrazione o per l’indennità di disoccupazione.

Gravissimo quanto deciso in merito a orari, mansioni e videosorveglianza, perché è previsto che nei contratti aziendali e territoriali si possa derogare non solo al livello nazionale ma anche rispetto alla legge. E, quel che è più grave, le parti hanno chiesto al Parlamento che queste materie si sottraggano alla tutela legale per metterle tutte in mano alla contrattazione.

Oggi la legge prevede che l’orario sia di 40 ore settimanali e di 8 al giorno con un massimo di 48 ore settimanali compresi gli straordinari. La contrattazione potrebbe prevedere, nel caso di affidamento della materia da parte della legge, criteri di maggiore flessibilità a fronte di specifiche situazioni. Si potrebbe naturalmente prevedere che questa flessibilità sia perlomeno remunerata.

Quanto alle mansioni, l’articolo 2103 del codice civile stabilisce che il lavoratore «deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o a quelle corrispondenti alla categoria superiore che abbia successivamente acquisito». La contrattazione potrebbe regolare la materia in modo differente anche se l’accordo parla di «equivalenza delle mansioni e integrazione delle competenze»: insomma di fatto si potrà prevedere il demansionamento dei lavoratori.

Ma c’é un metodo in tutto questo . Se l’Italia deve sottostare ai drastici vincoli dei patti di stabilità europea, delle banche e della finanza, della moneta unica, dei governi conservatori, se il sistema delle imprese vuole incrementare i margini di profitto nonostante la crisi, allora è chiaro che l’unica leva che rimane, l’unica reale flessibilità è quella che viene dal supersfruttamento del lavoro.

Il patto sulla produttività estende ovunque il sistema Marchionne: i pochi che ancora lavorano devono accettare di farlo ai prezzi del mercato globale, altro che contratti e diritti.

Bisogna allora ridurre l’orario di lavoro a parità di salario per aumentare gli occupati e redistribuire il reddito complessivo, e anche detassare stipendi, pensioni e tredicesime per incentivare consumi e quindi crescita.

Circolo comunista Enrico Berlinguer documento per asemblea iscrittiultima modifica: 2012-12-19T08:15:00+01:00da iskra2010
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