Dens dŏlens 129 – Il PCI com’era politicamente?

di MOWA

Raccontare cosa abbia voluto dire tutta la linea politica del PCI, sino al suo (auto)scioglimento, non è cosa da poco ed è perciò che si preferisce lasciare ad altri (ad esempio, gli storici) questo compito perché a noi, invece, serve capire, ora, cosa abbia indotto altri (e, ahimè, anche di sinistra) a condannare alcuni segretari invece di apprezzarne il rigore e l’integrità morale.

Interessa sapere se coloro i quali, oggi, si scagliano contro Enrico Berlinguer ne abbiano mai letto e/o ascoltato con attenzione i discorsi prima di lanciarsi in banali e fuorvianti accuse di “tradimento”, “revisionismo” “abbandono del marxismo”, “socialdemocratico” o altro di questo genere.

Si vuole, con ciò, provare a capire attraverso la lettura di documenti ufficiali, e quindi su basi scientifiche, quale fosse il pensiero e la linea politica del PCI del tempo espressi attraverso la figura dell’allora segretario più che su un prevenuto e deviante preconcetto. Per questo, nei prossimi giorni inseriremo su questo sito, i testi interi di discorsi, relazioni e lettere di Enrico Berlinguer.

Iniziamo con il discorso fatto da Berlinguer all’incontro tra PCI e la FGCI, al Palazzo dello Sport di Milano il 6 giugno 1976, e pubblicato con il titolo: “Le diverse e nuove vie per superare il capitalismo nei paesi sviluppati dell’occidente capitalistico”:

Al saluto affettuoso del nostro partito e a quello mio personale si aggiunge quello che inviano a voi, lavoratori e giovani di Milano, e a tutti i lavoratori e ai comunisti italiani, i compagni del Partito comunista francese, i centomila lavoratori, giovani, ragazze francesi, e insieme a essi tanti nostri connazionali emigrati in Francia, che si sono riuniti l’altro giorno a Parigi in una manifestazione senza precedenti per il suo significato politico. Il grandioso comizio di massa svoltosi il 3 giugno a Parigi alle Porte de Pantin è andato e va oltre la riaffermazione di una solidarietà e amicizia profonde tra gli operai, i lavoratori, i comunisti della Francia e dell’Italia, perché in quella manifestazione è stata riproposta e rilanciata una scelta politica, un’iniziativa politica comune ai due partiti in tutto il quadro dell’Europa occidentale.

I giovani e le ragazze costituiscono quella parte della società che credo si debba considerare la più curiosa, o meglio, la più attenta, verso questa scelta compiuta dalle forze più avanzate del movimento operaio europeo, giacché i giovani e le ragazze sono i più interessati, i più pronti a cogliere tutte le novità che si presentano, e i più disponibili a impegnarsi per far camminare queste novità.

Non voglio dilungarmi in un’esposizione dettagliata di tutti gli aspetti in cui si configura la scelta che noi proponiamo al movimento operaio dell’Europa occidentale. Il punto di partenza è la constatazione che anche nelle società sviluppate dell’Occidente europeo matura ormai la necessità di superare l’assetto capitalistico. Questa esigenza non è più solo della parte più avanzata della classe operaia e dei lavoratori, ma è delle grandi masse lavoratrici e di altri strati della popolazione: donne, giovani, intellettuali, una parte stessa dei ceti medi.

Perché questa esigenza si manifesta così largamente, pur se in modi diversi, certo in misura più marcata ed evidente in Italia e in Francia, ma anche in altri paesi dell’Europa occidentale? Perché lo sfruttamento, l’alienazione e l’oppressione, anche se continuano a manifestarsi in maniera diretta e centrale nella condizione del proletariato, della classe operaia che lavora nell’industria, si sono dilatati fino a colpire la condizione umana di altri strati e ceti della società capitalistica, sia pure in modi ineguali e in forme differenti. Oggi, infatti, in ogni settore della nostra vita sociale, si manifesta una crisi, una decadenza. Nella vita economica è in atto il ricorrente e sempre più frequente alternarsi di cadute della produzione e di impennate inflazionistiche, oppure, come è accaduto in Italia negli ultimi anni, del manifestarsi di tutt’e due questi fenomeni congiuntamente: e là dove si cerca – e magari si riesce parzialmente e per un certo periodo – di evitare l’uno, si cade inevitabilmente nell’altro, perché non appena si determina un minimo di ripresa produttiva sale vertiginosamente il livello dei prezzi e quando, per contro, si interviene per frenare l’inflazione si provoca una nuova caduta della produzione e dell’occupazione. Ma poi, della vita sociale: l’anarchia impera nelle nostra città e la desolazione delle nostre campagne; il dissesto e l’inefficienza dominano le istituzioni culturali, le amministrazioni pubbliche e dello Stato; sempre più si avverte il peso della disgregazione, della disorganizzazione e soprattutto della penuria delle attrezzature civili, della mancanza o deficienza dei servizi sociali; si estende, infine la perdita del senso della moralità nella vita pubblica e dilaga la corruzione.

Tutto ciò – penso che voi lo sappiate – non è una caratteristica soltanto dell’Italia, non è un fenomeno circoscritto unicamente al nostro paese: esso si è esteso anche agli altri paesi capitalistici. Di qui nascono non solo crescenti disagi materiali per le grandi masse della popolazione lavoratrice; di qui nascono anche il malessere, le ansie, le angosce, le frustrazioni, le spinte alla disperazione, le chiusure individualistiche, le illusorie evasioni; di qui nasce in conclusione quella che si potrebbe definire (e che i giovani avvertono in modo particolarmente acuito) l’infelicità dell’uomo di oggi.

E tuttavia, da tutto ciò nasce anche il desiderio struggente, anzi (e sempre più) la volontà determinata e consapevole di cambiare, di vivere in modo diverso, di vivere più sereni, di vivere più felici: faticando, certo, lavorando, studiando, battagliando, ma sereni, e cioè con la consapevolezza che la vita ha riacquistato un senso, che essa è qualcosa in cui vale la pena di credere, che esistono degli scopi da qualcosa in cui vale la pena di credere, che esistono degli scopi da raggiungere per i quali merita di lottare, che si è ristabilita una solidarietà fra gli uomini tale da consentire loro di lavorare insieme per dei fini che tutti riconoscono essere un bene per tutti.

Vedete, dunque, da che cosa scaturisce, anche nei paesi economicamente più sviluppati dell’Occidente europeo, la necessità di uscire dal capitalismo e di andare verso una società superiore una società che, mentre sia capace di continuare a far progredire le forze produttive, la tecnica, la scienza, di utilizzare senza sprechi tutte le risorse materiali e tutte le energie umane, garantisca al tempo stesso soddisfazione, su scala generalizzata e a un livello più alto, dei bisogni materiale degli uomini, e, soprattutto, assicuri quello che si è perduto, quello di cui più si sente la mancanza: una convivenza veramente umana.

Esiste un modo , una via per andare verso il socialismo anche nei paesi capitalisticamente più sviluppati? Noi rispondiamo innanzitutto che, in linea di principio, tale via non può non esistere; ma poi, anche in linea di fatto, molte cose, molti segni ci indicano che esiste. Essa, però, noi aggiungiamo, non può consistere in una ricetta bell’e pronta, non può consistere nel seguire, imitare, ripetere, vie già percorse ed esperite.

Nell’Occidente capitalistico le vie finora provate sono quelle della socialdemocrazia. Di fronte a tutte queste vie noi non ci poniamo in atteggiamento sprezzante, sia perché sappiamo che vi sono alcuni paesi, particolarmente dell’Europa del nord, nei quali quasi tutto il movimento operaio, a differenza dell’Italia, si organizza ed è rappresentato nei partiti socialdemocratici, sia perché alcuni degli esperimenti compiuti dai partiti socialdemocratici al governo di altri paesi (io non parlo, naturalmente – e vorrei sgombrare il terreno subito da ogni equivoco – del piccolo, rachitico, asfittico Partito socialdemocratico italiano) hanno consentito, talvolta, di raggiungere certi livelli di benessere materiale.

Ma il punto essenziale è che nessuno di questi esperimenti socialdemocratici ha portato a un effettivo superamento del capitalismo e neppure a un effettivo superamento di quell’aspetto decisivo del capitalismo contemporaneo costituito dal dominio delle grandi concentrazioni economiche e finanziarie. Tanto è vero che anche in alcuni paesi dove i partiti socialdemocratici sono al potere da decenni vi sono tutti i segni tipici della crisi di fondo delle società “neocapitalistiche”, degli assetti sociali creati dal capitalismo cosiddetto “maturo”. Il che vuol dire che quegli esperimenti sono rimasti al di qua, all’interno del sistema capitalistico.

Proprio perché è questa la realtà evidente, oggi nelle file dei socialdemocratici di molti paesi (in Germania, come in Svezia, come in Gran Bretagna) vi sono ripensamenti, constatazioni critiche e ricerca – anche e soprattutto da parte dei giovani – dei modi di andare al di là degli esperimenti finora tentati, di superare gli schemi finora perseguiti. La qual cosa – finito ormai il pericolo lacerante della guerra fredda – apre possibilità (che anche a Parigi abbiamo riaffermato insieme ai compagni francesi) di dialogo, d’incontro tra i comunisti e le forze che si raccolgono nei partiti socialdemocratici, così come apre possibilità di incontro con altre forze del popolo lavoratore, della gioventù, degli intellettuali che si ispirano ad altre concezioni e correnti ideali, quali quelle cristiane. Tale dialogo e tale incontro, a concezioni e a esperimenti come quelli che ho già ricordato e che, con le loro luci e con le loro ombre, oramai appartengono comunque al passato: dialogo e incontro sono da noi ricercati guardando avanti e per puntare in avanti; cioè, non verso le soluzioni che sono state già sconfitte, ma verso altre, che possono diventare vittoriose, cioè capaci di superare effettivamente il capitalismo dei paesi sviluppati dell’occidente europeo.

Dunque, le vie non possono essere quelle della socialdemocrazia. Ma esse non possono neppure quelle seguite dai partiti comunisti in altri paesi dell’Europa orientale o dell’Asia. In tali paesi l’avvento della classe operaia e delle classi lavoratrici alla direzione politica della società e dello Stato, l’inizio dell’esperienza di costruzione di società socialiste sono avvenuti muovendo da condizioni economiche e sociali di particolare arretratezza, e da condizioni politiche e civili caratterizzate, salvo qualche eccezione, da scarse tradizioni liberali e democratiche. Ma ciò osservato, tutti i comunisti – e, credo, non solo comunisti, bensì anche la parte più avanzata dei lavoratori e dei democratici, degli antifascisti – non possono dimenticare, ed è ovvio sia così, che è stato nella Russia sovietica, con la Rivoluzione d’Ottobre, che si rotta per la prima volta la catena del dominio capitalistico e imperialistico su tutto il mondo, non possono dimenticare e non dimenticano che resta una pietra miliare nella storia dell’umanità il ruolo decisivo e il contributo – forse il più alto – di sacrificio e di sangue dell’Unione Sovietica per la vittoria contro la barbarie nazista e fascista che aveva oppresso tutta l’Europa e minacciava il mondo. E non posso dimenticare, né dimenticano, anzi guardano con interesse, alle grandi conquiste che, in tempi e condizioni tanto difficili, si sono realizzate e continuano a realizzarsi, in tanti campi della vita sociale, della vita culturale, della vita scientifica, dell’Unione Sovietica e di altri paesi socialisti. Né infine, può essere contestata la coerente, tenace politica di pace, di cui l’Unione Sovietica e tutti i paesi socialisti sono portatori sulla scena europea e mondiale.

Tuttavia, noi abbiamo coscienza dei limiti, degli aspetti criticabili e negativi che vi sono pure in quelle esperienze, specie per quanto riguarda i loro ordinamenti politici in quanto limitativi di una serie di libertà. Noi vediamo che ciò sta in contraddizione con la visione che abbiamo del socialismo come pienezza di tutte le libertà dell’uomo; in ogni caso, noi consideriamo queste esperienze non applicabili, non praticabili nei paesi dell’Occidente capitalistico, cioè in paesi economicamente e industrialmente sviluppati e con radicate tradizioni democratiche, in paesi – e questo è il caso particolarmente evidente dell’Italia – in cui è stata proprio la classe operaia a farsi portatrice e banditrice della democrazia, della sua difesa e del suo sviluppo, dell’ampliamento di tutte le libertà, di tutti i diritti democratici.

Il fatto che nei regimi capitalistici le libertà democratiche abbiano sempre avuto e abbiano tuttora – non dimentichiamolo mai – un limite di classe, cioè un limite nell’esistenza del sistema dello sfruttamento dell’uomo da parte dell’uomo, ci ha spinto e ci spinge a lottare per superare questo limite, ossia a lottare per trasformare i rapporti sociali che stanno a base dell’assetto capitalistico e per estendere il potere e la partecipazione delle classi lavoratrici alla direzione del paese. Ma la lotta per tali obiettivi non ci ha spinto, né ci può spingere mai, a pensare che le libertà civili e i diritti democratici – quali, ad esempio, il diritto di voto, di associazione, di espressione, di opinione – possano venir limitati nelle società socialiste. Questo noi non lo pensiamo; questo non rientra nella nostra visione dei problemi del socialismo; questo, vorrei aggiungere, non sta scritto in nessun testo del marxismo (a parte il fatto che noi consideriamo il marxismo non un dogma, né scolastica dottrina, ma elaborazione vivente, che si deve sviluppare, una guida per l’azione e non un sistema di formule da applicare in ogni circostanza di tempo e di luogo) e non risponde all’attuale livello di coscienza della classe operaia, prima di tutto del nostro paese e poi anche di altri paesi dell’Europa occidentale.

Ecco perché noi parliamo di una via diversa. Essa riguarda non solo l’ordinamento giuridico e politico, ma anche l’ordimento economico. Noi prevediamo, infatti, una programmazione democratica dell’economia, che cioè contempla anche l’esistenza e il riconoscimento della funzione di centri di iniziativa imprenditoriale privata, oltre che pubblica, ma che deve indicare – ed è questa l’esistenza particolarmente acuta in Italia – un chiaro e nuovo quadro di riferimento, deve assicurare cioè che si lavora e si produce non più secondo la logica capitalistica (la logica dell’accumulazione per l’accumulazione, della produzione fine a se stessa), ma si produce e si lavora per soddisfare i grandi bisogni dell’uomo, i grandi bisogni della collettività nazionale. Da questa visione della trasformazione della società derivano tutte le altre posizioni nostre relative alla politica delle alleanze; al riconoscimento della pluralità dei partiti; alla possibilità dell’alternarsi al potere delle maggioranze e delle opposizioni; al ruolo delle autonomie nella vita sociale, in primo luogo di quella dei sindacati; alle autonomie nella vita dello Stato e al suo decentramento; alla sollecitazione costante per una crescente partecipazione democratica dei cittadini e delle loro associazioni e organizzazioni all’elaborazione e alla attuazione delle decisioni fondamentali che riguardano le loro condizioni di esistenza, la vita della collettività, del popolo.

Alcuni avversari pensano di metterci in imbarazzo chiedendoci se siano davvero realizzabili, se siano concretamente possibili sia quella via che, tradizionalmente, noi chiamiamo “via italiana al socialismo”, sia quella che oggi sta assumendo dimensioni più ampie perché, assieme ai compagni francesi ma anche con i compagni di altri partiti, se ne vengono precisando tratti che sono comuni ai paesi dell’Europa occidentale, la via che viene chiamata dell’“eurocomunismo”.

Credo che, molto semplicemente, dobbiamo rispondere rovesciando il quesito che ci viene posto. E perché mai non dovrebbe essere possibile una via diversa da quella socialdemocratica e da quella sovietica o di altri paesi socialisti? Perché mai sarebbe obbligatorio imitare e seguire passo a passo vie già percorse in circostanze storiche, sociali, politiche del tutto diverse da quelle in cui operiamo noi? È vero proprio il contrario solo percorrendo una via diversa noi, qui in Italia e negli altri paesi capitalisticamente sviluppati, possiamo giungere al socialismo.

Mi si consenta di dire che questo schema, messo in giro non a caso da certi nostri avversari, secondo il quale il comunismo è e rimarrà uguale dappertutto, è una delle più grandi castronerie che siano state dette. I fatti, la semplice cronaca, dimostrano che ci sono già parecchie varietà di esperimenti di costruzione di società anticapitalistiche avviate sulla strada del socialismo. Ed è logico che altre varietà potranno venire e ci saranno, alcune delle quali sostanzialmente, qualitativamente diverse da quelle esistenti, appunto perché il socialismo non è stato ancora avviato in nessuno dei paesi dove il capitalismo ha raggiunto i punti più alti del suo sviluppo. Queste diversità e le novità non sono, e non saranno, un’anomalia della storia. La storia reale non tollera schemi.

Del resto, riflettiamo un momento: quanti tipi di rivoluzione borghese abbiamo avuto? C’è stata quella di Cromwell nell’Inghilterra della metà del ’600, quella di Robespierre nella Francia della fine del ’700; c’è stata quella di Washington e di Lincoln nell’America del nord; quella di Bismarch in Germania; da noi quella di Cavour, tanto per richiamare i nomi attorno ai quali si sono organizzate le forze nascenti della borghesia che, in vari paesi, hanno rovesciato, in maniera più o meno radicale, i regimi feudali. E quanti tipi di società borghesi e capitalistiche, quante forme statali capitalistico-borghesi ci sono oggi nel mondo? C’è il Cile, e io colgo qui l’occasione per rinnovare tutta la nostra solidarietà fraterna ai compagni cileni e per esprimere, ancora una volta, il nostro affetto e mandare il nostro abbraccio al compagno Luis Corvalan; c’è l’Argentina, c’è l’Uruguay, c’è il Brasile. E, se vogliamo guardare in Europa, c’è la Spagna con il franchismo senza Franco, c’è la Gran Bretagna, la Francia, la Germania federale. E poi ci sono gli Stati Uniti, e ancora altri paesi, ognuno con le sue caratteristiche politiche, sociali ed economiche. Tutte queste sono indubbiamente società capitalistiche, in quanto fondate sullo sfruttamento dell’uomo da parte dell’uomo, ma i loro regimi e ordinamenti politico-statali e i loro assetti sociali sono profondamente diversi fra loro.

Infine c’è l’Italia, che è forse il paese, tra quelli capitalistici, più avanzato dal punto di vista democratico, perché qui è avvenuto che la classe operaia, le masse lavoratrici sono state più che altrove le vere protagoniste della lotta per riconquistare la democrazia e la libertà contro il fascismo, della fondazione di un nuovo Stato democratico – quello sancito dalla nostra Costituzione repubblicana, che ha basi sociali più ampie e profonde del precedente Stato liberale – e della sua difesa accanita (come il popolo lavoratore ha fatto in tutti questi trenta anni) da ogni tentativo di colpirlo o di svuotarlo.

<Basta, dunque, con questa petulanza, con questo provincialismo culturale sui “modelli”. La verità è che ai nostri avversari farebbe comodo che noi fossimo pedissequi imitatori di “modelli” esistenti ma disgraziatamente per loro noi non lo siamo e questa è una delle ragioni fondamentali della nostra forza tra le masse lavoratrici, del nostro credito nei vari strati della popolazione, del nostro prestigio in ogni campo della vita della società e dello Stato.

A voi, giovani e ragazze di Milano e d’Italia, diciamo potete essere certi che su questa strada, su queste vie che non abbiamo esitato a definire inesplorate, di avanzata verso il socialismo noi comunisti andremo avanti, con ancora maggiore determinazione, slancio e audacia. Non da utopisti, che inseguono le chimere; non da estremisti, che si lanciano in velleitarie fughe in avanti; non da schematici, che si abbarbicano alla lettera dei testi del marxismo; e neppure da opportunisti, che si acconciano al presente, naviganti di piccolo cabotaggio presso le coste a differenza di noi, che vogliamo affrontare le sconfinate distese del mare aperto che ci sta davanti per raggiungere approdi nuovi nella lotta per la costruzione di una società superiore nel nostro paese e nell’Europa. Andremo avanti da comunisti, dunque, che cercano il nuovo con passione, con severità e con rigore, uniti sempre di più ai compagni francesi, ai compagni spagnoli e di altri partiti comunisti, protesi a trovare punti d’incontro con altre forze operaie, democratiche e di sinistra in Italia e in tutta l’area dell’Europa occidentale, chiamando a partecipare a questa grande impresa rinnovatrice le masse delle ragazze e dei giovani italiani con le loro lotte, con il loro impegno critico, con il loro contributo di idee, con la loro freschezza, la loro intelligenza, il loro entusiasmo.

Dens dŏlens 129 – Il PCI com’era politicamente?ultima modifica: 2014-07-28T01:18:41+02:00da iskra2010
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