Caso Moro tra buone intenzioni e polpette avvelenate

Precisazione della redazione di iskrae.eu.

Questo articolo uscito su Globalist.it il 3 marzo 2015 attribuiva erroneamente il nome Attilio Vizzini all’allora ministro della Difesa, Attilio Ruffini; la svista è stata corretta dalla redazione di iskrae.eu su segnalazione dell’autore.

Attilio Ruffini, nipote del cardinale Ruffini e uomo di Andreotti, è il ministro che aveva come segretario particolare il notaio, Nicasio Ciaccio, che acquista dalla brigatista Anna Laura Braghetti l’appartamento di via Montalcini 8, finanziando così le BR con 50 milioni. Ruffini è il ministro che ha sposato la figlia del presidente della Regione Sicilia, Giuseppe La Loggia, padre anche di Enrico esponente di spicco di Forza Italia, creata da Silvio Berlusconi, tessera P2 1816..

Il capocosca di Villabate Antonino Mandalà, in una telefonata intercettata dagli inquirenti che indagavano sul suo conto, raccontava di aver detto a Enrico La Loggia:

«Enrico tu sai da dove vengo e che cosa ero con tuo padre… Io sono mafioso come tuo padre, perché con tuo padre me ne andavo a cercare i voti vicino a Villalba da Turiddu Malta che era il capomafia di Vallelunga… Ora (lui) non c’è (più), ma lo posso sempre dire io che tuo padre era mafioso….».

Al processo però Mandalà ammetterà di aver detto a La Loggia quelle frasi, ma sosterrà di aver millantato con lui la propria mafiosità.

Frasi del genere i mafiosi le dicono solo se sanno che possono essere strumento di ricatto con lo scopo di avvisare, chi quelle frasi riceve, che deve essere collaborativo, molto collaborativo, con i loro bisogni ed obiettivi.

Va inoltre ricordato che Silvio Berlusconi, il fondatore di Forza Italia, viene in possesso della villa di Arcore, di proprietà del marchese Camillo Casati Stampa di Soncino, tramite il “buon lavoro” svolto dall’avvocato Cesare Previti. I Casati Stampa di Soncino, tramite il padre di Camillo, il marchese Alessandro, furono alla Presidenza della IV Commissione Difesa del Senato dal 1948 al 1953, gli anni della ricostruzione della forze armate in funzione anticomunista. Infatti tra il 1948 e il 1953, esattamente nel 1949 nasce la struttura di stay-behind in Italia, conosciuta come Gladio.

Mario Moretti, il capo delle Brigate “rosse”, frequentava i marchesi Casati Stampa di Soncino. Moretti poté continuare gli studi grazie ai contributi filantropici della marchesa Anna Casati Stampa di Soncino: la zia di Moretti lavorava a Milano come portinaia nel palazzo dei marchesi Casati Stampa, in via Torino, e riuscì ad ottenere l’aiuto economico dei due benefattori che permise al giovane e alle due sorelle di completare gli studi. Nel luglio 1966 Mario Moretti si diplomò perito in telecomunicazioni.

Nei ricordi di amici d’infanzia, insegnanti e studenti, riportati da Sergio Flamigni nel libro La sfinge delle Brigate rosse. Delitti, segreti e bugie del capo terrorista Mario Moretti (Kaos, 2004) sembra che Moretti fosse un ragazzo estraneo al Movimento studentesco, fosse di idee conservatrici e iscritto all’Asan-Giovane Italia, l’associazione studentesca neofascista.

Dopo aver conseguito il diploma, Mario Moretti, si trasferì all’inizio del 1966 a Milano in cerca di lavoro; visse inizialmente con gli zii nel palazzo dei Casati Stampa in via Soncino 2. Ha in tasca due lettere di raccomandazione: una del rettore del convitto di Fermo, Ottorino Prosperi, per un posto all’università Cattolica (dove si iscrive), l’altra della marchesa Anna Casati Stampa di Soncino, per un impiego alla SIT Siemens (dove andrà a lavorare).

Com’è piccolo il mondo della provocazione anticomunista.

 

Caso Moro tra buone intenzioni e polpette avvelenate

La Commissione sta tentando di fare nuova buca dopo moltissimi anni. Ecco cosa potrebbe fare.

di Carlo D’Adamo

Sono diversi e contraddittori gli input che hanno portato a una ripresa dell’interesse sulle reali modalità del rapimento di Aldo Moro e della strage degli uomini della sua scorta. Prima di tutto la consapevolezza diffusa che la versione ufficiale dei fatti si basa su un accordo “politico” stipulato a suo tempo fra la Dc e le Br, e che può essere riassunto così: silenzio in cambio di indulto. In un lungo ping pong fra il vicedirettore del Popolo, Remigio Cavedon, e il brigatista Morucci, visitato quasi quotidianamente in carcere da suor Teresilla Barillà, fu messo a punto un testo nel quale si ammetteva quello che già era stato scoperto, e si taceva quello che non si doveva dire. A poco a poco, sulla base di successivi “aggiustamenti” per lo più contraddittori e inattendibili, sia sul luogo in cui era tenuto prigioniero Moro, sia sulle circostanze del suo omicidio, fu costruito un racconto dei fatti ben lontano dalla verità. Ma i numerosi libri di ricercatori indipendenti che dimostravano l’inattendibilità della versione ufficiale non facevano che gettare cattiva luce sulle istituzioni, che sono state coinvolte fino in fondo nella costruzione di quella verità fasulla. Al punto che, nel febbraio 2014, un libro del Pd (“Aldo Moro: il Partito Democratico vuole la verità”) rilancia la richiesta di nuove indagini, e una successiva raccolta di firme a cura di senatori e di onorevoli Pd chiede una nuova commissione parlamentare, istituita poi con la legge 82/2014, pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale del 31 maggio 2014.

Ma la Camera ha appena votato per l’istituzione di una nuova Commissione Moro, che, mentre il testo di legge è in discussione al Senato, il 24 marzo 2014 arriva un dispaccio ANSA firmato da Paolo Cucchiarelli, che muove le acque: “Roma due uomini dei servizi segreti sulla moto Honda, presente in via Fani il 16 marzo 1978, mentre le Brigate Rosse rapivano Aldo Moro e massacravano la sua scorta. Da quella moto partirono colpi di mitraglietta contro un testimone e fu quella moto che bloccò il traffico; la confessione post mortem di qualcuno che sapeva.” Si tratta delle rivelazioni di Enrico Rossi, un ex ispettore di polizia, al quale era stato affidato nel 2010 il compito di indagare su una lettera anonima postuma nella quale un morto, chiamando in causa anche un collega già defunto, sosteneva di essere stato agli ordini del colonnello Guglielmi quella mattina in via Fani, e di essere stato lui il passeggero della moto Honda che aveva sparato una raffica di mitra contro il testimone Alessandro Marini. Rossi racconta di avere svolto indagini, e di avere scoperto che la lettera anonima era stata scritta probabilmente da Antonio Fissore, nella cui abitazione la Digos aveva trovato due pistole e alcuni giornali, fra i quali una copia della Repubblica del 16 marzo 1978. Lo scoop dell’ANSA fa scalpore. Ma i tre che avrebbero potuto dire qualcosa, Fissore, il suo collega e il colonnello Guglielmi, sono tutti morti e non possono né confermare né smentire. Lo scoop dell’ANSA è un depistaggio o è la verità?

Miguel Gotor, senatore Pd e filologo (ha studiato per anni il carteggio di Moro prigioniero) non ha dubbi : “Ho l’impressione che anche questa sia una polpetta data in pasto proprio nel momento particolare in cui nasce la Commissione Moro”, dice a Roberto Rossi, giornalista dell’Unità. E aggiunge che nella galassia del caso Moro bisogna avere prudenza, per evitare di cadere nelle trappole dei polveroni e delle polpette avvelenate. “Come si fa a evitare questi pericoli?” gli chiede il giornalista. Gotor risponde: “Esercitando spirito critico. Quanti saranno scelti per fare i membri della commissione Moro dovranno avere responsabilità istituzionale e una doverosa prudenza per evitare di trangugiare queste polpette e fare poi delle brutte figure”. E ad una ulteriore domanda di Roberto Rossi, Gotor sostiene che l’operazione Moro “deve essere letta dentro il nesso tra una dimensione originale, nazionale, autonoma, autoctona del nostro brigatismo e una internazionale. In questo legame sta la originalità di questa vicenda che costituisce per questo Paese un trauma mai assorbito, perché interroga il nodo della nostra sovranità”. Gotor, insomma, ha le idee chiare: occorre esercitare spirito critico e chiederci perché qui si tocca il nodo della sovranità nazionale.

Le rivelazioni dell’ex ispettore Enrico Rossi danno comunque la possibilità ai legali di Maria Fida Moro di avanzare alla Procura della Repubblica presso la Corte d’Appello di Roma l’istanza di riapertura delle indagini sulla moto Honda e la richiesta di rogatoria internazionale per l’esame di Steve Pieczenik, uomo dei servizi americani, per concorso nell’omicidio di Aldo Moro. Nella sua requisitoria, pubblicata nel novembre 2014, il Procuratore generale della Repubblica, Luigi Ciampoli, archivia la moto Honda, ma “dispone la trasmissione del presente atto al Procuratore della Repubblica di Roma, perché proceda nei confronti di Steve Pieczenik in ordine al reato di concorso nell’omicidio di Aldo Moro, commesso in Roma il 9 maggio 1978″. La requisitoria del procuratore Ciampoli smonta pazientemente, nella sua lunga analisi, la verità ufficiale costruita da Morucci, Cavedon e Moretti.

Nella seduta del 2 dicembre 2014 viene effettuata l’audizione dell’ex senatore Sergio Flamigni, che presenta alla Commissione una sua relazione, chiedendo che venga fatta luce su una serie di episodi mai chiariti. Sergio Flamigni (la cui audizione stenografata è reperibile nel sito ufficiale della Commissione) ha indagato per anni sulle società dei servizi presenti in via Gradoli e sui rapporti fra infiltrati, provocatori e brigatisti, scoprendo molti segreti inconfessabili. Tra le altre cose, Flamigni cita anche il mio libro “Chi ha ammazzato l’agente Iozzino?”, pubblicato ai primi di novembre e non ancora distribuito, di cui alcuni membri della Commissione hanno avuto in mano una copia in anteprima. Ma non tutti nella Commissione sono filologi né sanno dare prova di responsabilità istituzionale. Poco dopo l’audizione di Flamigni, l’onorevole Gero Grassi, che ha scritto la prefazione del libro del Pd su Aldo Moro e si è battuto per la riapertura delle indagini, rilascia un’intervista a “Oggi”, un settimanale di gossip, facendo un copia-e-incolla delle notizie prese dal libro “Chi ha ammazzato l’agente Iozzino?”, di cui si è parlato in Commissione, e aggiungendo anche sue illazioni azzardate. L’intervista, apparsa sul numero in edicola alla vigilia di Natale, è firmata da Gino Gullace Raugei, ed è impaginata con una grande foto a colori stampata a rovescio su due pagine, in cui le auto presenti a destra in via Fani appaiono a sinistra, e viceversa. Di conseguenza le didascalie che illustrano l’immagine, tratte dal libro “Chi ha ammazzato l’agente Iozzino?”, risultano assurde. Il risultato oggettivo conseguito dall’articolo dilettantesco è evidente: il caso Moro è relegato fra tette e sederi, sono enfatizzati i “misteri” periodicamente ritornanti e si solleva molta polvere. Un favore reso ai dietrologi e agli scettici, cioè a tutti coloro che prescindono dai dati perché hanno già in testa la risposta. Non è certo con questi metodi che si esercita spirito critico o si dà prova di responsabilità istituzionale. Il problema è che Gero Grassi è il vicepresidente del gruppo Pd alla Camera e membro autorevole della Commissione Moro. A che gioco sta giocando?

Se prevale questo metodo, che privilegia lo spettacolo e l’improvvisazione, non si corre certo il rischio di scoprire la verità. Perché la Commissione non interroga il faccendiere fiduciario del Sisde – ancora vivo e vegeto – che era il titolare della società proprietaria della Austin Morris piazzata poche ore prima dell’agguato al posto del furgone del fioraio Spiriticchio? Perché non interrogano il cognato di Pastore Stocchi, Bruno Barbaro – ancora vivo e vegeto – sui suoi reali movimenti la mattina del 16 marzo 1978? Perché non chiedono al notaio Nicasio Ciaccio – ancora vivo e vegeto – ex segretario del ministro della Difesa Attilio Ruffini, il motivo per cui ha finanziato le BR con 50 milioni? Perché non si fanno dare dall’ENPAF l’elenco degli inquilini di via Fani 109? Perché non risalgono alla ditta che gestiva il bar Olivetti? Perché non vanno a vedere chi ha venduto all’ENPAF il palazzo di via Fani 109, 111, 113? Sarebbe buona norma, anziché enfatizzare testimonianze di morti non più verificabili, sottoporre a riscontri le testimonianze dei vivi, e fare perno sui dati certi, anziché sulle illazioni e le congetture, se si vuole davvero scoprire la verità.

Ma si vuole davvero…..? O questo Pd sta allestendo una grande operazione gattopardesca o, se preferite, democristiana? Facendo finta di cercare la verità, sollevando ancora un po’ di polvere, e poi concordando su una nuova verità “politica” che non intacca il patto fatto a suo tempo: silenzio in cambio di indulto, gioco delle parti e ricatti reciproci, alla faccia della verità e della sovranità nazionale… Questo rischio è concreto.

3 marzo 2015

Caso Moro tra buone intenzioni e polpette avvelenateultima modifica: 2017-04-29T07:37:50+02:00da iskra2010
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