A PROPOSITO DELLE RIFLESSIONI DI Ernst FISCHER

 

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di Angelo Ruggeri

A proposito delle riflessioni di Ernst Fischer, della cattiva coscienza, dell’attuale frattura dell’Io” individuale dall’”Io sociale, dell’”essere” che non si interessa del “dover essere” e del “non possiamo non dirci cattolici”

In un mondo come il nostro “che degrada di giorno in giorno, e dove si respira un’aria che addormenta, piena di bacilli che corrompono, non si deve scavarsi una piccola nicchia, accettare il compromesso, lasciarsi andare e diventare meschini. Nell’idea di società educante il modello è quello di una persona è quello che ha il coraggio di sognare in grande e la coscienza (che abbiamo) come uomini, di cambiare il mondo in meglio…aprendosi verso il sociale”

Alla civiltà dell’infanzia si ispirava Rodari e noi stessi sia nella scuola, come delegato di classe e di Distretto e da Presidente di circolo scolastico, sia fuori in qualità dei presidente dell’Associazione di garanzia dei diritti del minore. E la difesa della fiaba, in  Rodari, si fonda sulla considerazione del valore educativo dell’utopia, che rappresenta il passaggio dalla accettazione passiva della realtà alla capacità di criticarla e all’impegno per trasformarla. L’accettazione passiva della realtà caratterizza oggi non solo chi si rimette agli ordini di qualcuno che sta sopra di loro, nel mondo dei mass media o dell’amministrazione e dei servizi pubblici e privati, ma, in politica, anche la pseudo sinistra tutta, anche quella c.d. “radicale”   o della costituenda Federazione della sinistra con la borghesia di provenienza demoproletaria. A tutti si confà quanto dice Gramsci  – di cui pur senza citarlo è ricca di citazione l’enciclica Spe Salvi -:

“Il troppo (e quindi superficiale e meccanico) realismo, porta spesso ad affermare che l’uomo (di Stato e non) deve operare solo nell’ambito della realtà effettuale, non interessarsi al dover essere, ma solo all’essere. Ciò significherebbe che non deve avere prospettive oltre la lunghezza del proprio naso”. Bisogna distinguere, precisa Gramsci, “oltre che tra diplomatico e politico, anche tra scienziato della politica che si muovono solo nella realtà effettuale (congiunturale”. Ma il politico (come il Macchiavelli) non era un mero scienziato; è un uomo di parte, di passioni poderose, un politico in atto, che vuol creare nuovi rapporti di forza e per ciò non può non occuparsi del dover essere, certo non inteso in senso moralistico…Si fonda sulla realtà effettuale, che però non è statica e immobile ma un rapporto di forze in continuo movimento e mutamento di equilibrio”. Ed è su questa passione per applicare la propria volontà alla creazione di un nuovo equilibrio di forze reali, cioè delle “forze che sono sempre attive nel mondo secondo la loro natura” (cioè di classe)  come dice Roderigo di Castiglia che si fonda il nostro dover essere, mio e di chi vuole ritenersi progressista, che muovendosi sul terreno della realtà effettuale senza subirla, ma per dominarla e superarla non si lascia intimidire ne si ferma di fronte a maledicenze, censure o a qualsiasi tentativo di silenziarlo o impedirgli di manifestare e diffondere il proprie convincimento ed opinioni “con ogni mezzo” come dice l’art. 21 della Costituzione a cui deve essere sottoposto anche quella libertà di stampa spesso intesa come libertà di chi è proprietario dei giornali.

Manacorda ha scritto un libro sul “non possiamo non dirci comunisti” così come del resto il “non possiamo non dire cattolici”, contribuisce fin dalla formazione giovanile a tormentarci la coscienza e ci spinge alla indignazione che è una categoria morale per cui i molti che non si indignano più é solo perché mancano di moralità. Si è prima uomini che caporali.

“Se noi comunisti non saremo i democratici più conseguenti, saremo superati dalla storia” (Togliatti, riportato da Fischer).

“L’dentità della personalità –scrive Fischer nelle sue Riflessioni – l’Io inteso come continum e totalità, è una scoperta che si rende tuttora indispensabile. Io spero che ci sarà un giorno una libera società in cui il pluralismo dell’Io possa prosperare come la cosa più naturale, in cui ogni uomo possa rallegrarsi della pienezza dei suoi Io e non sentirsi costretto a legarsi a se stesso. Nell’epoca di assoluta mancanza di responsabilità in cui viviamo, perdere l’identità significa perdere qualsiasi responsabilità. Possiamo forse affidare ogni responsabilità agli apparati potere, ai sistemi, alle ‘strutture’ e ritirarci in una eterna ‘necessità degli ordini’? In tal modo ciascuno avrebbe solo la responsabilità concreta per l’esatto adempimento del suo compito, della sua professione qualunque essa sia, della sua specialità: la guida di un mezzo, lo sterminio per fame organizzato, la direzione manageriale di un a banca e di un’impresa, l’editing di un libro e la direzione di un giornale, la precisa attuazione della propria attività di sportello nell’amministrazione, e cosi via. Tutto sarebbe esecuzione di ordini (che provengono da qualcuno che sta più in alto o dalla necessità di perseguire uno scopo di guadagno o di carriera om semplicemente di quieto vivere) e l’ordine nella sua forma diretta o indiretta, sarebbe liberazione da qualsiasi responsabilità, e irrilevante sarebbe da chi o da che cosa l’ordine venga, presidente, generale, editore o computer.

La cattiva coscienza non è più di moda; tuttavia, per quanto problematica possa essere nella sua forma religiosa-morale, io mi batto per la cattiva coscienza, e perciò parlo della mia cattiva coscienza della responsabilità che il mio Io unitario ha per ciascuno dei molti Io particolari, per le molte metamorfosi della mia esistenza”

Di fronte alle ingiustizie vicine e lontane e ai comportamenti che minacciano l’umanità per dirla come Papa Ratzingher nel discorso di apertura dell’ultimo Sinodo (contro le 4 piaghe della civiltà moderna tra le quali ha al primo posto ha messo “i capitalismi anonimi” finanziari e non, e i loro dogmi) si può sentirsi responsabili e intervenire, oppure semplicemente assistere, restare neutrali, volgere l’attenzione da altre parti o addirittura tacitare e contrastare chi non intende tacere o intende agire. Con Fischer  siamo di fronte alla enunciazione critica verso coloro che non sentono il peso di una propria responsabilità e si rifugia dietro la necessità di attendere gli ordini e di seguire l’ordine esistente senza sentirsi responsabile, senza sentire la responsabilità del proprio Io. E siamo di fronte alla enunciazione, per altro non sconosciuto alla letteratura e alla narrativa e particolarmente a quella che Fischer nella sua attività di filosofo e scrittore di estetica e di critico letterario aveva amato e sentito come suoi, come più profondamente corrispondenti alla crisi del nostro tempo, a partire da Musil e da Beckett.

Fin dall’inizio dei suoi ricordi e poi con varia insistenza nella rievocazione delle singole fasi della sua vita tra guerre, repressioni spietate, rivoluzioni e controrivoluzioni, speranze e utopie che hanno segnato il nostro tempo e l’ultimo secolo, si definisce un “non politico” ma come un uomo, cioè, che alle scelte e alle decisioni politiche è stato spinto sostanzialmente dalla forza delle cose, da una oscura e prepotente spinta alla contraddizione e al superamento del suo “io” fino ad allora operante. Quasi a riprova di tutto questo, si potrebbe osservare come egli critichi gli “uomini politici incalliti” la dove se e quando s per politica si intende la tattica quotidiana, il gioco abile e consumato, il giudizio e l’impiego rapido degli uomini a cui sembra sempre ridursi la “politica”. In questo non sta né la forza ne la passione sia di E. Fischer ne nostra. Ma se si intende per politica nel senso ampio della parola il tentativo di rendere operante una utopia come categoria operativa nella lotta concreta (nel senso dell’utopia di Rodari e del “dover essere” di Gramsci), allora tutto è politica per Ernest Fischer.

Nessuno, forse, tra i memorialisti dell’ultimo secolo ha saputo al pari di lui ricostruire le fasi diverse e successive della sua vita con altrettanta sincerità, cercando di aderire con immediatezza al suo “io” di allora e, al tempo stesso tenendo presenti gli sviluppi successivi fino al punto di arrivo rappresentato dalle prospettive sostenute nel presente. La ribellione giovanile contro l’educazione paterna e le pagine in cui si può riscontrare una singolare assonanza con famosi versi di Montale, nelle parole che Fischer dedica alla confusa meteora di aspirazioni contraddittorie attraversata dai giovani della su generazione, a quando scopre il sentimento di solidarietà coi lavoratori che ha avvicinato superando ancestrali pregiudizi di classe. Le esperienze storiche che determinano il distacco dalla socialdemocrazia dopo la rivolta spontanea di Vienna e le giornate del febbraio 1934, gli dettano ricordi e pagine bellissime: di cronaca lucidissima di fatti sociali e politici e di sentimenti personali, insieme. Il suo passaggio dalla socialdemocrazia al comunismo per rendere più profondo il contenuto umanistico della lotta, trovandosi di fronte a fatti che contraddiceva quella scelta con lo stalinismo e i processi contro i dirigenti bolscevichi, notandoci l’assenza del sentimento che ispirava allora tutta la sua condotta, e cioè l’odio verso il nazismo e il fascismo. Dicendo con chiarezza che lo stalinismo pose ad ogni militante il problema di tenere strettamente subordinati i mezzi ai fini, costringendoli a subire un processo contro il proprio “io” e facendo violenza al proprio senso storico  con il “culto della personalità”. “L’idea più grande  diventa dubbia se coloro che la rappresentano non le sono simili”, scrive. Riflettendo probabilmente sull’osservazione fatta una volta da Engels, parlando del cristianesimo primitivo, seconda la quale i grandi movimenti rivoluzionari della storia recano nel loro seno l’”oro e il fango della terra”.

Fischer da l’idea del rovello segreto che assillava questo e altri dirigenti comunisti, cercando di definire la singolare scissione dell’ Io. L’incredibile frattura dell’Io individualista e piccolo borghese che per questo ha rifiutato dopo averlo subito fin dall’infanzia e l’altro Io, il sosia socializzato, sorto dal magma della comunità rafforzato dal punto di vista della classe e della ‘partiticità’ che rinuncia alla soggettività per l’obbiettività.

In particolare dalle sue pagine emerge un’immagine di Palmiro Togliatti completamente diversa da quella che i suoi critici gli hanno dipinto addosso e che non può non appassionare un osservatore italiano. La cauta astuzia con cui Togliatti rimuove gli ostacoli e le fissazioni di funzionari con cui dirige l’estinzione dell’incendio provocato dai bombardamenti tedeschi. Confermando tante altre testimonianze (di Neumann, Margaret Buber, Ruth von Mayenburg, Munznberg, Babette Grosz, ecc.) descrive un dirigente mai invischiato in lotte personali e di potere, consapevole “del tragico periodo e dell’oscuramento di tutto ciò a cui anelavamo”, dice riportando le parole di Togliatti teso verso il futuro senza confondere “l’orrenda caricatura davanti alla quale ci trovavamo, come l’essenza del comunismo”. Da questo, dice Togliatti riportato da Fischer, “dobbiamo apprendere una cosa per il futuro: “se noi un giorno torneremo nei nostri Paesi, bisognerà fin dall’inizio avere la consapevolezza di una cosa: lotta per il socialismo significa lotta per una maggiore democrazia. Se noi comunisti non saremo i democratici più conseguenti, saremo superati dalla storia”.

In tutti i suo iscritti e nella sua azione si ritrova l’anelito e la strategia per realizzare questo principio (già in Spagna denunciò la mancanza di democrazia del Fronte) ha tenuto fede Lui ma non i successori di Enrico Berlinguer che a Gramsci e Togliatti faceva riferimento nella attività di elaborazione e di direzione del PCI.

 

 

di Angelo Ruggeri

L’intervento di Papa Ratzingher sulle piaghe della civiltà, svolto nell’ultimo Sinodo, dimostra una continuità di riflessione molto avanzata sul terreno sociale ed economico.Dopo la denuncia del mercato e dell’individualismo economico nella Spe Salvi e il cambiamento di sistema richiesto nella Caritas in veritate per indirizzare l’economia ai fini di utilità sociale come, per altro, sancito dalla Costituzione con il controllo sociale dell’impresa dell’art.41. Un discorso geopolitico, come è stato giustamente osservato sui mass media che non l’hanno occultato, di inattesa durezza e invettiva senza precedenti contro il capitalismo. Dove, tra le piaghe della civiltà, il Papa pone al primo posto “i capitali anonimi che schiavizzano l’uomo, che non sono più cosa dell’uomo, ma sono un potere anonimo al quale servono gli uomini, dal quale sono tormentati gli uomini e perfino trucidati. Sono un potere distruttivo, che minaccia il mondo“.

Ancora una volta è Papa Benedetto XVI a fare il discorso più chiaro e più forte di fronte ad alla crisi scoppiata nei centri di potere del capitalismo e che continua con sotterranee guerre tra le valute e debiti pubblici non già per spese sociali, ma perché lo stato “fa la spesa al capitalismo” finanziario-industriale, bancario, automobilistico (etc.). E la forbice divaricata delle disuguaglianze sociali infiamma le Piazze d’Europa.                      “Peccato originale” significa che ogni male ha una origine. Prova a identificarlo “Il Papa contro i capitali anonimi” (titolo del Sole 24), “che schiavizzano l’uomo, che non sono più cosa dell’uomo… ma potere anonimo e distruttivo…che minaccia il mondo”. Non è un grido disperato ma un vero e proprio appello alla lotta, che “va a segno esatto come un laser”, ha scritto il giornale dei vescovi. Infatti, quell’anonimo è un consapevole riferimento a quelle che si chiamavano “società anonime”, poi definite SpA (Società per Azioni) con una formula neutra che non fa capire che rimangono anonime. Persino la magistratura non viene a capo di società e compartecipazioni opache, incasellate in un inestricabile “gioco” di scatole cinesi a livello planetario.

La “minaccia”, quindi, viene dalla natura stessa del capitalismo dove chi ha più denaro esercita il potere e comanda il mercato. E’ un problema di potere sociale di classe, non solo di controllo del potere economico concentrato nelle Banche, tramite un ingresso della politica nella loro gestione. Questo viene proposto obtorto collo da quanti, fino a ieri, hanno rivendicato fideisticamente l’autonomia dei mercati finanziari e obliterato il ruolo della politica nell’economia: ricorrendo all’apologia dell’economia di mercato e ai fantasmi della fine dello stato, delle classi sociali e della classe operaia.

“La tipicità dell’uomo sta nell’essere sempre e solo “fine” e mai “mezzo”, dice il cardinale (Tettamanzi, Etica e capitale). Viceversa il potere d’impresa si esercita “su” uomini considerati come “strumenti o fattori di produzione di beni e servizi”: da Pomigliano alla fabbrica Wcm di Marchionni, alla Toyota. Donde che chi vive, o muore, in condizioni non equiparabili a quelle generali della società, ma “determinate” e alienanti come quelle interne all’impresa, fa parte di una comunità di destino che da sempre è il perenne significato di classe sociale.

Il proletariato non esiste come classe solo per la politica e per una “sinistra” che nasconde la sua deriva dietro la forza della Fiom, ma è individualista e ha scelto come sua base i centri finanziari perché li percepiva acriticamente come soggetti vincitori. Spezzoni di classe operaia vengono trascinati a destra, perché il materialismo individualista della sinistra, anche c.d. comunista, la omologa al consumismo e al capitalistico. Si può superare l’attuale subalternità al mercato, che espropria la sovranità popolare con l’artificio della sovranità dei consumatori, solo connettendo valori e fini come fanno Ratzingher e le encicliche Spe Salvi e Caritas in veritate.

A PROPOSITO DELLE RIFLESSIONI DI Ernst FISCHERultima modifica: 2010-12-01T01:00:00+01:00da iskra2010
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