Con Marx e senza Marx – Dal conflitto di classe al “mercato politico” (quarta parte)

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di Salvatore d’Albergo

 

Nella temperie dell’aspro contrasto tra i partiti guidati dalla Democrazia Cristiana e l’opposizione nella prima fase di unità socialcomunista, sullo sfondo della contrapposizione tra  principi di eguaglianza “formale” e di eguaglianza “sostanziale” provocata dalla alternativa tra democrazia sociale e liberaldemocrazia, l’impegno politico-culturale dei giuristi fu avviato a partire dal settore  del diritto privato (dopo il passaggio di campo del costituzionalista Crisafulli): e si comprende così come il primo direttore di “DeD” sia stato Ugo Natoli per tutto il periodo che ha preceduto la prima delle “nuove serie” che si sono susseguite nella multiforme esperienza della Rivista, a misura dell’incidenza sulla cultura giuridica (e di quella che volta a volta le si affiancò sino ad oggi) del mutare della storia sociale e politica, e delle posizioni assunte dai partiti del movimento operaio nonché dagli organismi (l’Associazione giuristi democratici, e il “CRS”) cui la Rivista è stata collegata.

   E c’è una ragione di fondo, derivante dal nesso tra teoria e prassi, che fece emergere più la cultura “privatistica” che quella “pubblicistica”, in uno scontro che comportava la necessità di una qualificazione anche nel campo dei giuristi di una scelta ideologica coerente con la natura della “forma di stato” introdotta dalla nuova Costituzione (sì che in seguito emerse il ruolo di un altro giusprivatista come Pietro Barcellona, testimone di una successiva generazione): poiché la necessità di respingere l’attacco al ruolo delle forze (partiti e sindacati), che venivano relegate ai margini del sistema costituzionale con la pregiudiziale concernente la “delegittimazione” a concorrere a organizzare la forma di governo parlamentare (nel segno del c.d. “bipartitismo imperfetto”) – sul terreno cioè delle “sovrastrutture” –  trovava le sue motivazioni in base alle scelte politico-sociali gravitanti sul terreno della “struttura” dei rapporti sociali, laddove la contrapposizione tra l’istituto della “proprietà” e gli istituti che ineriscono al prisma del “lavoro” costituivano il terreno “reale” di una dislocazione degli interessi che entrano in gioco sul campo dei rapporti istituzionali cioè del nesso governo-parlamento. Si spiega così perché i costituzionalisti sono entrati in gioco in una fase successiva, da un lato perché soprattutto i privatisti hanno fatto leva sui principi “sostanziali” della democrazia sociale per difendere il “lavoro” dall’attacco “padronale”, e dall’altro lato perché la rilevanza delle questioni relative alla “forma di governo” e in generale di quelle concernenti l’intero assetto dell’organizzazione dello stato – meglio, della “repubblica” – era destinata ad emergere con più nettezza a misura che l’efficacia delle lotte inerenti il conflitto di classe dava luogo anche ad un consenso crescente – oltre che in “fabbrica” anche nello “stato”, determinando gli spostamenti di equilibrio tra le forze politiche in modo tale da mettere a repentaglio la formula (maccheronica) di “conventio ad excludendum”, escogitata per riverniciare un metodo di arbitraria incostituzionalità fatta valere dai vertici dello stato contro i comunisti.

   In tal guisa, il diritto del lavoro, che, nonostante il dispiegarsi sempre più ampio del diritto sindacale, ha gravitato nell’area disciplinare privatistica, ha potuto essere assunto come luogo della prima elaborazione giuridica della problematica del rapporto tra potere democratico e autonomia privata, con tutte le demistificazioni riguardanti il mercato e la c.d. “libertà economica”, in una fase – gli anni ’60- nella quale si andavano accelerando processi di coscienza e quindi di lotta coinvolgenti oltre l’istituto della proprietà quello della “impresa”, di tipo rispettivamente privata e pubblica.

   Nel contempo, a dimostrazione della necessità di non separare le questioni complesse sia della forma di stato sia delle forme di governo, e quindi di marcare la dialettica in cui andava posta la creazione (già tardiva) sia della Corte Costituzionale sia del Consiglio superiore della magistratura (CSM) rispetto alla realtà sociale oltre che politica in attesa di “garanzie” rafforzate rispetto a quelle dello stato liberale, l’interesse degli operatori del diritto gravitanti in “DeD” si è via via accentuato con riguardo alla funzione della giustizia, della sua organizzazione e del ruolo dei magistrati, la cui maturazione culturale è stata accelerata proprio per l’incidenza della cultura della Costituzione, cultura affermatasi come cultura dei gruppi dirigenti “politici” in antitesi con la cultura tradizionale dei “giuristi”, corriva all’idea di imbalsamare nei “preamboli” discorsivi e comunicativi il vaticinio di un “futuribile” disarmato se e in quanto non dotato della necessaria “precettività”: precettività che oltre ad armare la progettualità dei partiti ha contribuito a riformare la magistratura in quel che di più profondo riguarda gli apparati organizzativi “separati”, e cioè l’uso dei principi ispiratori dell’esercizio delle funzioni, donde l’affermarsi a partire dalla metà degli anni ’60 di quella capacità dei magistrati di cogliere negli indirizzi politici la linfa della attuazione delle varie normative, trovando nel canale di collegamento tra giudici ordinari e giudici della Corte Costituzionale la immissione della funzione giurisdizionale nel circuito dei rapporti istituzionali tra i “poteri”, con l’autonomia di un “ordine” che precedentemente era preclusa per impedire il passaggio dal “garantismo formale” a quello “sostanziale”.

   Infatti, contro la pretesa delle forze moderate di fossilizzare la dinamica sociale entro i fortilizi di una maggioranza politico-parlamentare arroccata intorno al primato del “suo” governo, concorrevano ad aprire varchi democraticamente significativi sia le maggioranze “qualificate” necessarie per l’elezione del presidente della repubblica, sia – e ancor più – quelle necessarie per la composizione poliedrica  della Corte costituzionale e per le articolazioni del CSM, rese queste ultime sempre più determinanti per attivare il pluralismo culturale di una magistratura, posta in grado, con i criteri di elettività, di animare con le “correnti” la ricerca di una corrispondenza – nelle rispettive autonomie – tra gli orientamenti posti alla base della lotta per la costruzione di un nuovo apparato legislativo, e quelli necessari a far valere le “interpretazioni” giurisprudenziali volte a dare le ulteriori “certezze” alla forza ispirativa dei nuovi principi costituzionali, negli ambiti civili, amministrativi e penali.

   Si delineava così il modificarsi del complessivo sistema dei rapporti tra questione sociale e questione istituzionale con le sue prime avvisaglie, precorritrici della stagione successiva – quella degli anni ’70 – alla luce della crisi del “centrismo” e della sconfitta – sul campo stesso della lotta nella società – del tentativo di spostare a destra l’asse politico-parlamentare (comprovato dall’appoggio del Msi al governo Tambroni): in quella stretta rappresentata dalla tormentata svolta per il “centro-sinistra”, che è stato la “cruna dell’ago” dei processi, divenuti sempre più sconvolgenti, scatenati dallo scontro di classe estesosi poi tumultuosamente ai “movimenti”, donde anche le conseguenti nuove questioni di “ordine pubblico”. In un contrasto nel quale la discussione interna al Pci, animata dalle riflessioni teoriche di Togliatti (documentate dagli “scritti degli anni 1958-1964”) sul centrosinistra come alternativa al “riformismo”, va colta – pur nella loro specificità di teoria “politica” – come pre-condizione per valutarne le ricadute sull’impegno “articolato” dei comunisti (non “organizzati” in correnti, ma portatori “in nuce” di filoni di una impegnata dialettica interna),  e quindi dell’intellettualità gravitante nell’area della lotta culturale per il “socialismo”: con inevitabili, accentuati riverberi anche nel campo dei “giuristi” (più che degli economisti), tra i quali cominciavano a prendere quota gli effetti delle elaborazioni di Cerroni nel passaggio dalla filosofia del diritto, alla filosofia politica e alle scienze giuridiche, questa volta con entrata in campo anche dei “pubblicisti”, oltre che dei “privatisti”.

   Si viene in tal modo a contatto con l’opportunità di un tipo di verifica che si riproporrà con varie angolazioni per tutte le fasi successive agli anni ’60 (si è già accennato, e ancora lo si dovrà fare, alle varie “serie” di “DeD”), volta a individuare quali linee di tendenza di fondo si sono susseguite nei rapporti tra i partiti e i sindacati con le rispettive culture, in ordine alla scelta degli indirizzi di politica internazionale e interna, sempre più caratterizzati dalle strategie di politica economica e sociale (da cui si sono irradiate le specifiche forme di regolazione degli interessi, nel quadro del conflitto ideologico): ciò che conduce a evidenziare alcuni nodi “tematici” già nella prima “serie” conclusa nel 1971, prima dell’apertura della seconda “serie” degli anni ’70, a partire cioè dal 1973, quando si sono condensate nel modo più pieno le ragioni di un conflitto delle idee oltre che sociale e politico, risultando sempre più stringente l’interdipendenza delle questioni c.d. di “diritto positivo” con quelle di livello “teorico generale”, proprio perché sottoposte a tensione irriducibile, negli anni ’66-69, con gli esiti degli anni ‘70-75.

    Gli anni ’60, infatti si sono caratterizzati con il progressivo allargamento delle analisi puntuali su aspetti del diritto internazionale (Vietnam) e del diritto privato (famiglia), del lavoro, della pubblica amministrazione, nonché sulla giustizia (Csm) in contemporanea con la discussione di problemi riguardanti la visione critica delle dinamiche istituzionali come riflesso delle dinamiche politiche, a loro volta derivanti dall’incontenibilità progressiva della pressione del movimento operaio per un crescente protagonismo propositivo: e cio sia sul versante del “declino” del parlamento e sul peso dei nuovi centri di potere, e dell’ipotesi dell’ammissibilità della c.d. “dissenting opinion” in seno a una Corte Costituzionale sempre più coinvolta nelle dinamiche concernenti le manifestazioni dell’indirizzo politico; sia sul versante della critica delle forme istituzionali dei rapporti stato ed economia, stante il ruolo sempre più pressante delle imprese pubbliche (Iri, Eni, Cassmezz) come centri formalmente dipendenti ma sostanzialmente collegati all’esecutivo e separati dalle assemblee elettive, e messi in grado di svincolarsi come le imprese private dai principi costituzionali di direzione pubblica dell’economia, fenomeno di “autonomia” tanto più anomalo nelle prospettive della “programmazione economica” divenuta il punto culminante dei contrasti sia di politica economica sia di politica istituzionale, nella alternativa tra “burocratizzazione” o “democratizzazione”. Il tutto alla luce dell’incompatibilità sempre più avvertita, proprio per il passaggio dal “centrismo” al “centro-sinistra”, tra la insistita “delimitazione” della maggioranza parlamentare rilanciata da Moro, e lo sviluppo coerente della “forma di governo” nella rivendicazione della “centralità” del parlamento, propria di un modello diverso da ogni altro impostosi nell’Occidente europeo.

 (segue)

 

Con Marx e senza Marx – Dal conflitto di classe al “mercato politico” (quarta parte)ultima modifica: 2011-01-03T01:29:00+01:00da iskra2010
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