Con Marx e senza Marx – Dal conflitto di classe al “mercato politico” (quinta parte)

 

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di Salvatore d’Albergo

 

Nella fase in cui “DeD”, come rivista “critica di diritto e giurisprudenza”, non aveva ancora aperto il suo spazio alla politologia e alla sociologia politica come nelle “serie” successive – mentre altrove si discuteva di “bipartitismo imperfetto”, di “pluralismo polarizzato” per giustificare “modellisticamente” l’elusione del libero pluralismo costituzionalmente fondato sul metodo elettorale proporzionale – i giuristi democratici erano soprattutto attenti a sottoporre a valutazione critica le contraddizioni con i principi di democrazia sociale palesate dai contenuti legislativi risultanti dal “mix” tra la sopravvivenza della legislazione pre o fascista “tout-court” e la legislazione prodotta nella fase post-fascista con la preoccupazione di eludere le profonde riforme sociali e democratiche che incombevano per le esigenze maturate nella società e nello stato. Ciò che era accompagnato dalla rivendicazione dell’istituto della Regione (a statuto ordinario), di cui si rinviava con ogni pretesto l’avvio proprio per la percezione, avvertita dalle forze moderate, che a fondamento della domanda sociale e del soddisfacimento dei nuovi “diritti” civili e sociali, incombevano questioni relative al “potere” e alla sua organizzazione, in netta contrapposizione con l’istanza “federalista” respinta dalla Costituente, e riesumata come stiamo constatando nella fase di deriva della democrazia dagli anni ’90 in poi.

Maturavano, in quel contesto, le ragioni per una consapevolezza più elevata della necessità non solo di registrare le ricadute sul terreno normativo/istituzionale delle vicende di una lotta di classe che metteva in discussione la “politica dei redditi” con cui la “programmazione economica indicativa” puntava a stabilizzare il sistema produttivo economico-sociale per inglobare, subordinandole, le aspettative del movimento operaio. Ma anche di cogliere, nella lotta per una programmazione “democratica” dell’economia, gli stimoli a passare da quella che veniva chiamata “politica del diritto” (donde la nascita dell’omonima Rivista giuridica) a una sintesi superiore, volta a riconsiderare la funzione della teoria del diritto in rapporto al nesso tra crisi e superamento del capitalismo, secondo le istanze di una democrazia di massa che negli anni 67-69 aveva raggiunto l’acme nei termini di quella che venne chiamata “contestazione” coinvolgente il movimento operaio – di cui era permanente la centralità delle lotte – e di lì i nuovi soggetti divenuti consapevoli della sempre più ampia estensione degli effetti del dominio antisociale dei rapporti di produzione imposto dal sistema della grande impresa.

“DeD” prima di pervenire al più alto stadio di rivendicazione di una concezione “alternativa” del diritto a partire dalla costituzione democratico-sociale con l’impegno ideologico e operativo che sarà testimoniato nell’aprire la “nuova serie” (1973), si è approssimata a tale nuovo punto di avvio con la testimonianza fornita dalla pubblicazione degli “atti” del convegno su “Giustizia e potere” tenutosi sul finire del 1971, dove Cerroni è partito dalle premesse di una visione marxista dei rapporti tra società e stato per rimarcare l’esigenza di far avanzare la funzione di giustizia verso la complessiva democratizzazione delle istituzioni, onde aprire anche l’amministrazione della giurisdizione all’irruzione della società, dando così un senso pregnante alla estensione della sovranità popolare della Repubblica fondata “sul lavoro”, dato che la funzione “interpretativa” dei giudici se posta in relazione con lo sviluppo della democrazia nella società civile era istituzionalmente in grado di rivelare puntualmente le antinomie del diritto moderno, nonché la contrapposizione tra chi applica la legge “come un sillogismo”, e chi individua l’ingiustizia di una “regolazione astratta di differenze concrete”.

Ed il nesso tra una critica della c.d. “giustizia classista” – per uno spazio “alternativo” nella funzione dei giudici – e un nuovo modo di esprimere i valori della cultura collegando i problemi etico-giuridici e quelli economico-sociali rivelati dall’incidenza dei rapporti di produzione sui connotati delle classi fa comprendere meglio, a distanza di un quarantennio dall’emanazione dello “statuto dei lavoratori” (perentoriamente testé aggredito dall’amministratore delegato di turno della Fiat, nella deriva del XXI secolo), la svolta decisiva anche ai fini di una visione critica della teoria della c.d. “divisione dei poteri” (oggi rivendicata dal difensivismo delle dirigenze del “centrosinistra”): svolta testimoniata dal potere attribuito al giudice di “ordinare” la cessazione della condotta antisindacale del datore di lavoro medesimo, cioè mediante norme volte a sancire l’unitarietà e il coordinamento nei rapporti tra i poteri dello stato – quello legislativo e quello giudiziario – per la convergenza organica dei principi di democrazia sociale ad incidere sulla destinazione degli apparati dello stato a concretare le finalità sociali della nuova “forma di stato”.

Appare ancor oggi evidente come “DeD” fosse ormai oltre il bivio, per l’ingresso più accelerato ad una riconsiderazione sia del ruolo della teoria del diritto e dello stato, sia delle modalità di un tipo di intervento che ponesse in campo, persino nel “paludato” mondo delle scienze giuridiche parcellizzate, quella visione d’insieme utile e necessaria a seguire, nonché a patrocinare lo sviluppo di una lotta sociale e politica ispirata consapevolmente ed irrefrenabilmente da una riforma culturale nonché delle stesse forme organizzative dell’elaborazione del messaggio “politico” che, tramite le ideologie, è alla base delle articolazioni della complessiva legislazione, articolata ormai alle soglie di una applicazione reale delle più avanzate aspirazioni alla socializzazione del potere, tramite un “diritto” nuovo per “diritti” da consolidare, o da legittimare come proiezione di una alternativa di “potere sociale”, quale postulato dalla costituzione democratico-sociale.

Il passaggio di fase ha comportato un impegno serrato di rimeditazione e il salto dal 1971 al 1973 si concreta con la scelta di un “rinnovamento culturale” con la rottura della zona “resistente al nuovo”, essendo anche la cultura giuridica investita oggettivamente dalle grandi lotte della classe operaia e dalla scossa del movimento studentesco del 1968: si è infatti testimoniato che giovani docenti universitari (oltre che giovani magistrati democratici), attraverso “una vera e propria riscoperta di Marx e della sua diagnosi sociale” hanno avvertito l’improcrastinabilità del riesame critico non solo della già denunciata “neutralità” dogmatica del tradizionale settorialismo culturale e della chiusura accademica, ma anche della divisione del lavoro in corpi separati e nella “sistematica della scienza giuridica”.

Poiché almeno una parte dei giuristi andavano sempre più assumendo coscienza della subalternità dei ceti intellettuali all’interno della società capitalistica, si è detto nel primo “editoriale” della nuova serie che occorreva andare oltre al precedente “arroccamento” e passare “dalla difensiva all’offensiva teorica per costruire un’alternativa”, proponendo un terreno di discussione volto ad analizzare “l’intero circuito che salda l‘economia capitalistica con lo Stato burocratizzato e con l’ordinamento giuridico formalizzato”: scegliendo in pari tempo la strada della “più piena valorizzazione dei principi costituzionali”, e “una originale via al socialismo” sulla scia della grande riflessione intellettuale di Antonio Gramsci, in collegamento internazionale con tutti i popoli oppressi e che costruiscono “una società liberata dallo sfruttamento”.

Soprattutto oggi, tuttavia risultano rivelatori di incertezze se non di vere e proprie contraddizioni leggibili tra quelle stesse righe, affermazioni sparse come quella secondo cui la strada intrapresa non discendeva dalle “nostre preferenze intellettuali politiche”, perché quel che doveva contare era la “motivazione storico oggettiva”, negandosi cioè che fosse “la scelta politica a guidare la “ricerca scientifica”, e addirittura proclamando la necessità di “dedurre la nostra scelta politica dall’analisi scientifica”. Sicché interna a tale singolare prospettazione della “conferma delle scoperte geniali di Marx per l’impegno di elaborazione di una teoria giuridica fondata sul marxismo”, è comparso però l’accenno che “concepire il diritto come una tecnica non adiafora” non significa negare o annullare “il momento tecnico”, sottendendo possibili incomprensioni in un compito di quella che si è prospettata come costruzione in itinere di una nuova cultura “politico-giuridica”, di fronte a un meccanismo di regolazione della società che si configura come “oppressione storica di un modo sociale di essere”.

Ci è ormai consegnata quindi la trama della ricostruzione del passaggio alla nuova “serie”, dato che era stata di Umberto Cerroni l’iniziativa della svolta per raccogliere cioè “molte nuove forze di area comunista” (7) , benché dopo l’elaborazione di una discussione culminante nel testo dell’”editoriale” del n. 1 del 1973, “DeD” sia passata dalla direzione di Natoli a quella di Luigi Berlinguer, che al termine della riunione rifondativa, risultò titolato alla formale assunzione del ruolo di “responsabile”, con un “comitato di redazione” non comprendente alcuno dei firmatari dell’editoriale medesimo, come anticipazione, del resto, di una prassi poi mantenuta, di distinguere tra le modalità di pubblicare i fascicoli delle varie annate, e quelle di una valutazione degli orientamenti tematici ad opera di “comitati direttivi” più estesi e variabili, nelle composizioni riflettenti dinamiche proprie della vita culturale dei luoghi di ricerca professionali.

E così nell’organizzazione nuova del lavoro della Rivista, si sono inserite manifestazioni di un serpeggiante parallelismo tra l’avvio di una metodologia che mirasse a costruire nuove categorie concettuali atte a far valere anche nel campo del diritto la critica marxiana dei rapporti sociali, e quello della riqualificazione della critica analitica degli studi giuridici già presente nella fase precedente, sotto la pressione delle più serrate controversie vissute nello scontro sociale e politico a tutto campo.

Tale parallelismo prese corpo nella distinzione fra gli “studi” e le “rassegne”, avendo trovato inevitabile cittadinanza la qualità delle ricerche che, sulla scia delle riflessioni teoriche di Cerroni come filosofo del diritto e della politica, già nel 1973 – per essere proseguito almeno fino al 1977-78 – aggredivano direttamente i “santuari” della dogmatica tradizione, con un tipo di “critica marxista” che non era d’altra parte presente nell’omonima rivista teorico-politica.

In ordine sparso, ma accomunati dall’intento di rompere le uniformità delle dottrine dominanti nel diritto privato e nel diritto pubblico, si sono succeduti saggi sull’uso alternativo della costituzione, su proprietà e controllo a proposito della proprietà socialista, sull’aggressione contro il Vietnam, su rivoluzione e democrazia, sui rapporti di classe nelle società per azioni, sulla storiografia giuridica e l’apologia del diritto moderno, sulla critica sistematica della categoria giuridica: che testimoniano della fecondità di un tipo di approccio rivelatosi idoneo a valorizzare anche le “rassegne” delle questioni più specifiche sollevate dai conflitti interpretativi, che discendevano dalla natura delle “vertenze” provocate dall’incandescenza della dialettica sociale politica sul terreno dei rapporti tra partiti e sindacati, nelle istituzioni e sul territorio.

 

Colpisce ancor oggi il pionierismo di una teorizzazione (seguita poi da elaborati degli stessi autori [Schiavone e Cerroni], naturalmente anche in altre sedi), con cui si affacciava la critica materialistica della categoria giuridica, a partire dalla domanda circa la possibilità che una tecnica di organizzazione sociale come quella del “diritto romano” abbia potuto sopravvivere fino al punto di “consentirne l’utilizzazione” in chiave di “neutro” strumento di ingegneria sociale entro strutture materiali di tutt’altro tipo, per l’incidenza dell’ideologia della “continuità” del diritto romano quale supporto della persuasione della “astoricità” delle categorie fondamentali di ragionamento giuridico, cioè come asse di riferimento di tutta la storiografia “moderna” (Schiavone).

Nel contempo, per trasferire dal campo più organico di una visione critica del diritto quello più funzionale al progetto della Rivista, Cerroni proseguiva nel suo ruolo di promotore della svolta di “DeD” incanalando la sua analisi dell’aspetto “teorico” della categoria giuridica sul terreno pratico della struttura sociale esistente, a partire dal rilievo che il diritto è sia “norma” (volizione “regolativa”) sia “istituto” sociale (articolazione della società), da cui discende la collocazione della “persona giuridica” e del “negozio giuridico”, in un contesto che comporta la necessità di verificare l’unità e la distinzione che passa fra il rapporto “giuridico” e il rapporto “economico” nell’ambito dell’organizzazione sociale “borghese”: sì da poter cogliere la separatezza del potere politico (nella forma della rappresentanza politica) dalle attività produttive sociali, sollecitando a ricostruire quel “meccanismo unico” con l’adeguamento della gestione del potere al carattere realmente unico del processo sociale, mediante la “socializzazione dei mezzi di produzione” e, per converso, la “democratizzazione” del potere politico.

Frattanto, seguendo i profili di tematiche interne alla visione complessiva della relazione società-stato, quella della struttura e della collocazione dell’impresa capitalistica (Galgano), e quella della vicenda dei diritti delle libertà civili e sociali (Barbera), si è pervenuti al riconoscimento della funzione determinante che ai fini – rispettivamente – del controllo sociale e politico della società per azioni, e della concretizzazione dei diritti della persona (nella convergenza delle “due culture” dei costituenti), ha l’applicazione articolata ma coessenziale del più generale principio di “partecipazione” effettiva di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del paese, contenuto nel secondo comma dell’art. 3 della Costituzione italiana, norma che ne rappresenta l’architrave, tanto più rilevante per i caratteri di “rigidità” della c.d. “costituzione lunga” e dei vincoli che ne sono derivati.

E di fronte all’odierno abbandono del marxismo – motivato genericamente e apoditticamente con la abusata formula che “la società è cambiata”, su tutti i fronti dell’impegno culturale e politico (con la deriva di fine anni ’80, solo mascherata dalla “crisi del 1989”) – a tanta distanza di tempo solleva interrogativi che negli anni ’70 poterono sembrare sotto traccia, il tipo di discussione aperta dopo l’uscita dei soli primi numeri di “DeD” del 1973: svolta in una “riunione di collaboratori” (così menzionata da F. Lorenzoni nel n. 4 del 1973 stesso), introdotta da una bozza di documento “sottoposta in precedenza agli invitati” ma non “riportata”, in quanto – si legge nella premessa dei “curatori” (F: Lorenzoni e A. Schiavone) del libro in cui è stata riprodotta la citata discussione – i contenuti di tale bozza risultavano “in parte ripresi nel testo definitivo della “relazione di apertura” , relazione svolta dal direttore Luigi Berlinguer.

Era comunque singolare – ed evocatrice, oggi, delle lontane matrici di una dicotomia destinata poi ad approfondirsi, senza apparenti lacerazioni – che il volume intitolato “Democrazia e diritto”, più esplicitamente espressivo de “I compiti attuali della cultura giuridica marxista”(8), abbia fatto precedere la suddetta Relazione da una “Introduzione”, tanto più emblematica in quanto intitolata significativamente al rapporto tra “Diritto diseguale e formazione del blocco storico”, con cui si è inteso (da parte di Schiavone) evidenziare i motivi dell’”editoriale” (firmato da 14 giuristi dell’Associazione) per il lancio della nuova serie, al fine cioè di “affinare gli strumenti di lotta e di lavoro”, e quindi di affiancare anche i giuristi nell’impegno di “crescita del patrimonio intellettuale della classe operaia e delle sue alleanze politiche e sociali” (n. 1 del 1973).

Non si può non porre l’accento quindi sul fatto che la svolta di “DeD” abbia più o meno studiatamente alimentato al suo interno una contrapposizione (corrispondente a quella più acutamente “politica”, latente e poi esplosa nello stesso Pci), nell’osservare che la denuncia del diritto “come tecnica”, presentava una non risolta relazione tra una scelta “politica” che guidi la “ricerca scientifica”, e uno sforzo teso a “dedurre la scelta politica dall’analisi scientifica”.

Nell’apparente – e certo un po’ amletico – gioco di parole, si annidava in termini di composizione una antinomia destinata a delinearsi poi sempre più marcatamente, risultando comunque un po’ inquietante che siano bastati pochi mesi dall’avvio della nuova “serie” per riaprire una discussione che evidentemente non era stata sufficiente a mantenere compattezza alla svolta; sicché dal volume (edito nel 1975, a due anni dalla data dell’”incontro”) traspare – come di seguito sarà accennato – una difficoltà a raggiungere una linea composita ma unitaria, difficoltà già insita nel processo di incubazione attestato dal salto di un anno – il 1972 – nella pubblicazione di “DeD”.

Tale lettura dei comportamenti politico-organizzativi registrati sommariamente e più o meno criticamente anche in successivi “Editoriali” che hanno accompagnato le varie “serie”, acquista naturalmente senso alla luce dei diversi approcci emergenti dalla “Introduzione” di Schiavone e dalla successiva “Relazione” di Luigi Berlinguer, nonché dal “Dibattito” di cui il volume del 1975 ha singolarmente riprodotto non già le sequenze effettive, ma – come avvertito dai “curatori” – gli argomenti raccolti intorno ad una traccia di tematizzazione “ricostruita attraverso l’esame del complesso dei materiali”: e precisamente, Stato, forme giuridiche ed egemonia; costruzione di una politica; programmi e indicazioni di lavoro.

Tutto ciò non poteva ammortizzare le ragioni accantonate, ma non superate, di una differenziazione foriera di ben più profonde divisioni che matureranno a medio-lungo termine, specie nella fase di svolta a proposito della quale Cotturri – nell’intervento incasellato (insieme a quello di Schiavone, nella “costruzione di una politica”) – non esitò a sottolineare che “nel gruppo redazionale, in occasione della stesura del documento di preparazione della riunione si erano delineate due posizioni: una per la elaborazione di un documento “di linea” un’altra che puntava alla presentazione di un programma di lavoro “aperto” (9); essendo prevalsa poi la seconda senza che, comunque, si potesse già sbiadire il rapporto degli intellettuali con la classe operaia e le sue organizzazioni.

Proprio per ciò risultava determinante la giustapposizione tra l’”Introduzione” e la “Relazione”, avendo Schiavone attestato il suo elaborato sulle premesse che Cerroni aveva già da tempo posto per sollecitazioni poi raccolte nel passaggio dal 1971 al 1973 (e che tuttavia non gli valsero la titolarità di direttore della Rivista): nel senso cioè di attivare riflessioni teoriche idonee ad avvalersi di strumenti analitici critici della crisi della mediazione giuridica “tradizionale”, come conseguenza del mutamento della struttura dello stato e delle sue funzioni, a causa del rapporto fra processo di concentrazione capitalistico e nuova articolazione dello stato, poiché le vecchie forme del “diritto eguale” e dello “stato di diritto” nei fatti non servono più, critica dello stato e critica dell’economia politica vengono indissolubilmente a legarsi, alla crisi della liberaldemocrazia palesemente inadeguata a reggere il peso delle nuove articolazioni della macchina statale occorre sostituire la direzione globale del corpo sociale esibendo il “bisogno oggettivo di socialismo” con forme di “diritto diseguale”, con una politica delle istituzioni funzionale alla dinamica della formazione del “nuovo blocco storico”.

Viceversa, seguendo la traccia della “relazione di apertura” di Berlinguer, si viene bensì a riconoscere che lo stato del capitalismo monopolistico, le sue istituzioni, vengono investite direttamente dalla lotta di classe evidenziando la crisi del diritto borghese, ma viene nel contempo demonizzata la c.d. “fine di ogni funzione e ruolo delle forme giuridiche” e rimarcato che i fermenti (nella magistratura, nell’università) in vista di una rifondazione teorica delle categorie giuridiche “restano ancora fenomeni di avanguardia” a fronte del peso che tuttora ha la dottrina tradizionale: per porre l’accento sulla necessità, anche alla luce del cammino della nuova serie di “DeD” nel processo di lotta sia culturale che politica, di sciogliere alcuni nodi teorici anzitutto in tema di “formalismo giuridico”: senza però specificare le forme concrete di quelle che venivano additate come “incertezze”, “tentennamenti” e “intemperanze” riconducibili ai soli tre numeri rivisitati.

 

(segue)

 

(7) Cotturri, in La lunga transizione, 1997, pag. 217

(8) nella collana “Dissensi” n. 62 di De Donato, 1975

(9) in Democrazia e diritto cit., pag. 112

 

 

Con Marx e senza Marx – Dal conflitto di classe al “mercato politico” (quinta parte)ultima modifica: 2011-01-05T01:02:00+01:00da iskra2010
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