Con Marx e senza Marx – Dal conflitto di classe al “mercato politico” (sesta parte)

 

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di Salvatore d’Albergo

Si è in tal modo suscitato un generico allarme sui rischi della “negazione acritica ed irrazionale del ruolo specifico del diritto”, invocando il superamento di ogni “rozzo e schematico rifiuto delle conquiste e delle garanzie libertarie, nel momento stesso in cui però si è lamentato un forse troppo preminente interesse per l’analisi del contingente giuridico nella fase degli anni ’60: denunciando apoditticamente i rischi di un primitivismo politico, di riduzionismo, di un’astratta contrapposizione tra politica e diritto, fra analisi “politica” e analisi “tecnica”, fra “strategia” e studio di istituti o fenomeni “particolari”.

Colpisce che in tale contesto critico dell’ordinamento “alternativistico”, già in quella fase di riconosciuta eminenza del tema del rapporto tra stato e sviluppo economico, tra economia e poteri pubblici, tra proprietà pubblica e impresa, si sia colta più l’incidenza sul “diritto del lavoro” che sul “diritto commerciale” dell’esigenza del riesame critico delle categorie giuridiche, stante il modo impacciato con cui la si è posta come alternativa alla resa alle tendenze spontanee e distorte del mercato, non potendosi negare il valor e il peso che il mercato “continua inevitabilmente” ad avere per la sua rilevanza economica e giuridica: ciò nella riconosciuta prospettiva di “arricchire e integrare i concetti di economicità e produttività tenuto conto dei “costi sociali” quali componenti della voce “costi”, nella ridefinizione anche giuridica del rapporto profitto, utili di impresa.

Tale impianto del ragionamento per valutare il peso del calcolo economico nella lotta sociale e culturale in corso aspramente in quegli anni, conferma l’esitazione immediatamente successiva che è insita nella denuncia che la sinistra – si pensa anche culturale – avrebbe mancato di “approfondire i modi e gli strumenti con cui la pubblica amministrazione deve recepire ed attuare le grandi riforme di struttura”, e ciò per essersi “limitata” a sottolineare le esigenze di programmazione e di riforma “come tali”, a differenza dell’attenzione maggiore posta “sui problemi dell’assetto” politico complessivo “delle istituzioni”.

E’ chiaro come tali perplessità, velate da un linguaggio che non fosse in irreducibile controtendenza rispetto all’intento di orientare in termini formalmente unitari il rapporto interno alla Rivista, riflettessero con riguardo ai “contenuti” la diaspora denunciata e ribadita in linea di principio generale tra “tecnica”, “politica” e “scienza”, scoprendo però il fianco all’omesso richiamo alle lotte accanite degli anni ’60 sul piano anche giuridico sui criteri formalmente della programmazione “democratica” dell’economia, pregiudizialmente bloccata dal centro-sinistra (occasione di una distinta posizione di partito e sindacato [Pci e Cgil]) : e vanificata tra l’altro con un pretestuoso richiamo alla dipendenza degli effetti della programmazione dalla inadeguatezza della P.A. che, invece, come tale, non rivestiva ruoli essenziali ai fini della sua attuazione che, viceversa coinvolgeva il potere di autonomia di “soggetti” di diritto “privato” come le grandi imprese private e pubbliche. Ignorandosi oltretutto, che, proprio sul terreno dell’organizzazione “pubblica”, il coinvolgimento dell’istituto delle Regioni appena istituite (1971) ne ha palesato la caratterizzazione già negli statuti della funzione “politica” (e non “amministrativa”) di concorrere alla programmazione economica nazionale con la partecipazione degli enti locali, in un contesto in cui comunque le PA dal canto loro venivano coinvolte anch’esse nella incombente politica di riforma burocratica.

Ancora una volta, nel dibattito che è seguito, si deve a Cerroni il merito di aver sottolineato il senso del nuovo lavoro politico-culturale avviato e da proseguire, coscienti che il movimento operaio inseriva una voce originale proponendo soluzioni riformatrici inconfondibili con la “vecchia e sbiadita tradizione del riformismo socialdemocratico”, in vista di una generale ristrutturazione della società e dei suoi meccanismi: sì che l’innesto della problematica giuridica istituzionale e “teorico politica” sulla strategia socialista del movimento operaio poteva divenire il banco di prova della capacità di esprimere “nella sua emancipazione ‘di classe’ prospettive di emancipazione ‘generale’ “.

E poiché lo stesso Cerroni ha avvertito che l’ipotesi democratico-egualitaria che è stata fatta propria dalla Costituzione italiana, trascina dietro di sé l’esigenza di “una revisione approfondita del diritto costituzionale” consolidatosi nel precedente ventennio, uno specifico rilievo ha avuto la proposta di fare uno sforzo “metodologico preliminare” per individuare gli essenziali punti discriminanti della problematica istituzionale oltre che politica e sociale (Perna), persino utilizzando confutazioni delle categorie logiche formali di tipo “kelseniano” come quella di Santi Romano (benché certo “non è il caso di un rivoluzionario”): che, pure dal suo punto di vista, ha riconosciuto con la teoria “istituzionale” del diritto che ci sono “più forze sociali” che si organizzano con propri ordinamenti nello stato.

Donde l’accoglimento di una critica (contenuta nei 3 numeri del 1973) a carico della teoria della costituzione “in senso materiale” del caposcuola Mortati che, positivamente in linea con l’utilità di tentare di qualificare il “realismo” dello studio del diritto pubblico tradizionale, ha però negativamente dato veste “scientifica” ad una posizione “politica” di tipo verticistico-autoritario, sì che invece di fare come Santi Romano che ha motivato la legittima “instaurazione di fatto” di un ordinamento giuridico anche contrastante a quello esistente, parlando di “forza politica dominante” come portatrice della c.d. “costituzione materiale” non solo non ha preso neppure in considerazione l’ipotesi scientifica connessa all’insorgere di forze sociali e politiche contestatrici “che propongono un nuovo diritto, un nuovo assetto istituzionale”, ma addirittura ha finito per giustificare la varietà degli equilibri nei poteri di fatto come a volta a volta si presentano tra le forze che in campo, in tal guisa accantonando e prescindendo dalla costituzione “formale” quale fonte di legittimità di quello che viene enfatizzato come ordinamento di “diritto positivo”, senza cioè inconcepibili “dipendenze” da fonti “materiali”, oltretutto incontrollabili: ciò che è stato assunto subito come pretesto per sostenere dietro l’esito delle elezioni parlamentari del 18 aprile 1948 che sarebbe perciò mutato il regime politico-costituzionale con la supremazia del quadripartito egemonizzato dalla Dc sul fronte popolare social comunista, al fine quindi di “congelare” la Costituzione (“formale”).

Dall’uso della critica marxista, ispirata da un materialismo storico del tutto estraneo al tipo di “realismo” rivendicato da teorie come quella mortatiana, discendeva quindi la necessità di andare oltre gli ambigui limiti dell’”economicismo” per il reperimento degli strumenti di condizionamento ‘politico’ delle strutture del sistema di potere delle imprese, per la cui individuazione operativa conseguente era infatti necessario l’intervento teorico sulle articolazioni dei rapporti fra forma di stato e forma di governo coinvolgente l’assetto politico “complessivo” delle istituzioni menzionato criticamente da Luigi Berlinguer.

Tanto più che il nucleo fondamentale in termini alternativi alla artificiosa prospettazione di Mortati, era già stato colto da Gramsci, con la denuncia della formulazione teorica circa la c.d. “quarta funzione” rispetto alla tradizionale tripartizione liberale dei “poteri”, consistente (secondo Sergio Panunzio, in un articolo sulla “fine del parlamentarismo”, del 1933) nella inedita c.d. “funzione di governo”, ossia nella determinazione dell’”indirizzo politico” rispetto alla quale la stessa funzione legislativa “si comporta come un esecutivo”, ciò che a suo tempo poteva essere posta in connessione con i problemi suscitati addirittura dalla “scomparsa dei partiti politici”, e quindi dallo “svuotamento del parlamento” (10).

Ed è singolare che i giuristi abbiano per lo più recepito la teoria della “costituzione materiale” che negli anni successivi all’entrata in vigore della costituzione antifascista è stata sintomaticamente usata – a partire dal tentativo di delegittimare i comunisti – ricorrendo agli espedienti intrinseci alla sequenza costituzione materiale/costituzione formale/indirizzo politico immediatamente esecutivo della costituzione materiale (11) con tutte le conseguenze di ritorni come quello di questi giorni, a proposito del nesso tra la legge elettorale “maggioritaria” e l’assunzione del ruolo di Presidente del Consiglio in carica, nel c.d. contrasto tra la costituzione formale e la costituzione materiale, per riconoscere affannosamente che quest’ultima non esiste come categoria concettuale.

(segue)

 

(10) Gramsci, Q 15 &48

(11) su di che valgono i richiami di Cotturri al n. 3 di “DeD” del 1973, in La transizione lunga cit., pag 220

Con Marx e senza Marx – Dal conflitto di classe al “mercato politico” (sesta parte)ultima modifica: 2011-01-11T01:03:00+01:00da iskra2010
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