La Nota di Alice
C’è qualcosa di eccessivo, una sorta di forzatura, nelle posizioni assunte da Mr. Sergio Marchionne, costruttore di auto con sistemi cinesi e venditore di auto a prezzi americani.
Il capo di un gruppo che si misura sul mercato globale dovrebbe saper fare di conto: se gli investimenti in Italia non garantiscono alla Fiat i profitti desiderati la soluzione è semplicissima: trasferire in luogo migliore materie prime e apparecchiature.
Se i conti tornano, perché minacciare? Se non tornano, perché restare?
Faccia i conti e faccia ciò che deve Sergio Marchionne, dando i numeri se crede.
Se deciderà di traslocare e andare – poniamo – in Papuasia, si faccia accompagnare dal Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, da Matteo Renzi, da Sergio Romano, da Piero Fassino e da quanti – parenti di Mubarak, utilizzatori finali dei parenti di Mubarak, sindacalisti e operai – si sono schierati con lui.
Gli italiani restanti in qualche modo si arrangeranno: i profitti della Fiat non sono indispensabili alle loro fortune.
Parta o resti, chiediamo a Marchionne un’unica cortesia: di spiegare come, a fronte delle sue minacce, “una società liberale che vuole durare de[bba] difendere chi è colpito dal cambiamento” – così recita il titolo di un suo intervento riportato dal “Corriere della sera” del 29 settembre 2007 -, di confermare che la farina di quell’intervento fosse proprio del suo sacco e non provenisse dal sacco di qualche “scrivano”, di dipanare l’arcana ragione per cui la società debba essere liberale e la fabbrica schiavista e di suggerire che cosa debba fare una società liberale contro chi determina il cambiamento o minaccia, senza alcuna ragione, di determinarlo.