Nascita degli USA, e morte della rivoluzione col federalismo

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di Angelo Ruggeri *

 

di Angelo Ruggeri *

Mentre in Tunisia e con essa torna di moda la parola “Rivoluzione” che i Tunisini proclamano non essere per il pane ma per la democrazia, ma PER UNA DEMOCRAZIA NON OCCIDENTALE

Rivoluzione, Costituzione, federalismo americani e Rivoluzione francese ed Europa.

Dove, come e perché è nato ed esiste la forma di governo dello “stato federale”, di uno stato centralista “presidenziale”, che separa istituzioni e società e realizza la “unità” per il tramite di una forte concentrazione di poteri verso l’alto, sia nei vertici di governo dei singoli stati che in quelli dello “stato federale” dal quale i singoli stati sono dipendenti.

E’ stato detto tante volte che quella Americana è stata una Rivoluzione “dimenticata”. C’è però motivo di ritenere che a questo hanno mirato proprio gli stessi gruppi dirigenti statunitensi: farla “dimenticare”, per “sostituirla” e “cancellarla” con una Costituzione che per molti aspetti “la rinnega” e che anche per questo è stata da subito “sacralizzata”.

Quando Paul Brenner, capo dell’amministrazione militare USA in l’Irak, in vista del passaggio delle consegne ad un irakeno scelto dagli americani, ha promesso “una Costituzione provvisoria” che contenga “i valori della democrazia americana”, ne ci si è stupiti ne riflettuto sul significato delle sue parole e tantomeno si è replicato. Essendo dato per scontato che “esportare la democrazia” nel mondo altro non significa che “esportare l’America”, in una sorta di“americalatinizzazione del mondo”, dove il “cortile di casa” della “dottrina Monroe” dove intervenire per adeguare a sé e al proprio, l’ordinamento degli stati e tra gli stati non più solo del Centro e Sud America ma del Globo.  Esportando” il “sistema di governo” anglosassone e le tecniche di comando che sia in Inghilterra che negli Stati Uniti sono state presidenzialisticamente organizzate in modo equivalente, col governo “del primo ministro” in Inghilterra e “del presidente” negli Stati Uniti dove il “federalismo” sta a significare una diversità rispetto alla monarchia di quella che però è la stessa ed equivalente forma di governo e tecnica di comando, non a caso definita “monarchia repubblicana” col Presidente facente funzioni del Re.

Uno “stato repubblicano” che, come quello monarchico, continua ad essere inteso come “persona giuridica”, staccato o separato dalla società, e che riguarda solo le forme “interne” dei rapporti di governo e tra i vertici dei governi. L’opposto dello “stato comunità”, appunto “democratico”, che invece riguarda il rapporto tra “governanti e governati”, esprime un nuovo e diverso rapporto con la società ed attiene quindi alla “forma dello Stato”, al suo rapporto “esterno” – che prima non esisteva ne ci si poneva – col territorio (ad es. come la “Repubblica delle autonomie” della nostra Costituzione in cui anche l’ente locale è Stato esso stesso). Uno stato, quindi, legato al sociale, uno “stato di democrazia sociale”, appunto, com’è quello della nostra Costituzione. Un “nuovo” tipo di stato, che è venuto alla luce col moderno costituzionalismo democratico con l’entrata in campo, dopo il 1945 e la guerra contro l’imperialismo nazi-fascista, delle grandi masse socialmente e politicamente organizzate, i movimenti, i partiti, i sindacati, ecc. Donde che il “federalismo” rappresenta un ritorno indietro allo “stato di diritto” dallo “stato democratico”, in particolare un ritorno allo “stato persona giuridica” – ne sociale ne democratico – dallo “stato comunità” e di democrazia sociale. Una regressione che intraprende lo stesso Trattato intergovernativo che instaura una c.d. “costituzione europea” e che come la Costituzione Americana non proclama un potere popolare, ne fa riferimento alcuno al popolo ma solo ad una c.d. “opinione pubblica”; addirittura innalzando e “costituzionalizzando” il liberismo economico come ideologia ufficiale ed obiettivo supremo dell’Unione, trascurando del tutto la questione sociale e dei rapporti sociali tra classi ricche e povere, ecc. e aggirando il suffragio universale.

PER CHI NON SA CHE “FEDERALISMO” SIGNIFICA DIPENDENZA CENTRALISTA DAL GOVERNO E DALLO STATO FEDERALE CENTRALE E DAI VERTICI CENTRALISTI DELLE REGIONI (O STATI). Non per caso si chiama “Stato federale” centrale.

Le classi dirigenti statunitensi tesero a considerarono “antica” la loro Costituzione già 4 anni dopo l’entrata in vigore (vedi citazioni dei politici del 1790, in Marcus Cunliffe, “The Nation Takes Shape”). Fu “sacralizzata per necessità ideologica, per avere già da allora un archetipo valido per l’intero mondo. Per far dimenticare, appunto, che non proclama un potere popolare, ne nasce da una Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo, ma da “una delle poche ribellioni coloniali conservatrici” (“The Genius of American Politicus”, del grande storico conservatore D. J. Boorstin).

Significativa in proposito era anche la posizione di Thomas Jefferson, considerato lo statista allora più “europeo” e per così dire “progressista”, pur essendo di spiccato razzismo, proprietario di schiavi e favorevole all’assimilazione forzata degli indiani e all’espulsione degli Afro-americani. Jefferson sottolinea la differenza tra il suo paese e il vecchio continente, ponendo innanzi a tutto il diritto statunitense all’espansione come “esempio” per il mondo in generale e soprattutto per il resto del continente americano, come ha approfondito Malcom Sylvers nel suo Il pensiero politico e sociale di T. Jefferson, Lacaiti Editore, e che l’autore ha voluto regalarmi per significare con specifica dedica la convergenza in merito al giudizio sul federalismo e su quanto scritto e analizzato nel mio Leghe e leghismo…e l’antitesi federalista al potere dal “basso” (Quaderno 2 del Centro Il Lavoratore), e che da cittadino americano ha voluto testimoniare intervenendo nel corso della presentazione di tale Quaderno (promossa dalla CGIL e dal Lavoratore alla Casa della Cultura di Milano)

E’ noto che gli statunitensi considerarono “eccessi” quelli della Rivoluzione francese, ma nemmeno la rivoluzione americana fu un pranzo di gala. La sua guerriglia “borghese” costò sangue, impiccagioni, profughi, impeciati, incatramati, ecc. Gli americani avrebbero una prospettiva diversa delle rivoluzioni moderne, se si ricordassero qualche volta della loro. Nel prendere le distanze dalla Rivoluzione francese e dal giacobinismo e nel far passare le leggi contro “gli alieni e i sediziosi”, non reagivano solo al Terrore rivoluzionario, ma anche all’idea delle possibili conseguenze per loro. E miravano a neutralizzare ad es. quei seguaci di Daniel Shays che volevano trasferire dalla carta alla realtà i principi della Dichiarazione d’Indipendenza secondo cui “tutti gli uomini sono creati uguali” – e che per questo volevano che i beni degli Stati Uniti, che contro la Gran Bretagna erano stati protetti da tutti, fossero comune proprietà di tutti.

Non a caso, lo dicono anche storici conservatori come Samuel Morison, la spinta a redigere la Costituzione degli Stati Uniti venne dallo spavento provocato dalla rivolta dei contadini del Massachusetts che credevano di poter estendere alla limitazione della proprietà la loro “ricerca della felicità”. E proprio la questione della difesa della proprietà da ogni qualsivoglia incisione anche solo ipotetica è stata ed è alla base della Costituzione Americana e della forma di potere federalista dello stato federale. Sottrarre la proprietà ad ogni qualsivoglia forma di lotta sociale, ancor più se di classe. Il “federalismo” non esiste in altro modo, se non come forma di governo che nasce con la funzione di rendere impossibile la lotta e il conflitto sociale, la autonominatasi e abusiva “convenzione di Filadelfia” in funzione di questo cerca una forma di governo capace di garantire la proprietà dal conflitto sociale. Raggiungendo un compromesso tra due correnti politiche che non avevano nessun piano istituzionale preordinato, tanto che il termine federale non vi compare, ma un preciso istinto (di classe) che li porta ad identificare senza alcun modello e quasi senza saperlo, attraverso un’opera di pura ingegneria istituzionale, una sofisticata forma di potere e di dominio del governo sulla società proprio in virtù di una combinazione “eclettica” tra le posizioni di chi era per l’unità centralista dello stato e chi per una qualche forma di “confederalità” tra i governi degli stati, che li ha portati ad una ingegneristica forma di unità dei vertici, tra i vertici di stato e di governo, in un unico “stato federale” centrale. Ma in una separazione dei territori e quindi del sociale che risulta così spezzato e frantumato rispetto all’unità del potere dei vertici sia del governo centrale dello Stato federale che degli Stati, in una così per tanto generalizzata e istituzionalizzata separazione dei governanti dai governati e della “società politica” dalla “società civile”. Donde che secondo la definizione stessa di uno degli autori del Federalist, A. Hamilton, la federazione è “un’associazione di due o più stati in un unico stato“, nel quale l’autorità dell’unione si estende ai singoli cittadini (dove però per l’appunto i singoli cittadini associati non possono estendere la loro sovranità all’autorità centrale dell’unione) e in cui gli stati federali (o le regioni federali) dipendono dallo stato centrale: donde che stati (e regioni) federali diventano “governatorati” in quanto retti da un funzionario che altro non è che un “governato” (dal lat. Gubernatus), dal governo centrale, un Governatore, appunto, o “alto funzionario di stato che rappresenta il governo centrale in dipartimenti, regioni e simili, sia civile che militare”, come dice il vocabolario. Sicché ecco che anche nell’anticostituzionale “federalismo” italiano, i presidenti, eletti direttamente, svelano freudianamente il loro essere funzionari dipendenti dal governo centrale autonominandosi con l’anticostituzionale termine di “governatori”, nel mentre stesso che mistificando proclamano (agli occhi di sprovveduti cittadini e militanti politici della sinistra) di essere ed esprimere una autonomia regionale federale dal governo centrale che in realtà non esiste, quando invece proprio col federalismo si cancella l’autonomia regionale che era realmente esistente nella “Repubblica delle autonomie” sancita dalla nostra Costituzione.

Dunque, il federalismo, anche a proposito di quello europeo, mentre parla ossessivamente di unità, in realtà e come è ben visibile nel ruolo degli Stati Uniti, separa sia in senso orizzontale che in senso verticale sia le istituzioni dalla società, e spezza e separa questa rendendo quindi impossibile l’unità di potere della “sovranità popolare” rispetto al potere di governo. Donde che per ciò non prende a riferimento il “popolo” ma una c.d “opinione pubblica”, cioè l’ideologia della classi dominanti espressa attraverso gli apparati ideologici di stato e i c.d. rappresentanti dell’opinione pubblica, i giornali ed élite culturali e politiche e i vertici delle corporazioni della società civile, che si fanno interpreti, tramiti e mentori di società e popoli.

Perché il federalismo è un fatto puramente istituzionale e non sociale, che prescindendo dalla realtà sociale, e che diventa “unità” solo per il tramite e come “unità” esclusiva dei vertici di potere, attraverso un forte concentramento dei poteri verso l’alto, dove ciò che conta di più e in massima parte è lo “stato federale” che è uno “stato centrale”. A conferma della separazione tra istituzioni politiche e società, tra la sfera libertàsfera della necessità, tra sfera della politica e lasfera della società, e all’opposto di una ricomposizione necessaria per la liberazione dell’uomo, degli uomini e del popolo dalla alienazione e dalla sudditanza e subalternità di popoli e società ad un potere politico ad esso sovrapposto e sovraordinato.

Il federalismo non compare in nessuna teoria dello stato, perché riguarda e attiene esclusivamente alla “forma di governo”, al governare inteso come restringimento anziché come allargamento della società, come arroccamento di gruppi di potere di vertice dietro le forme apparenti della democrazia. Attiene insomma alla ideologia della “governabilità” e non al rapporto delle istituzioni con la società, ad un vetero costituzionalismo liberale riferito solo alle “forme di governo”, cioè alla varietà tecnica della forme di dominio dei dominanti.

Del resto e non per caso negli stessi dizionari di lingua inglese la parola “federalismo” stessa compare solo a partire e messa in relazione alla “nuova” Costituzione USA, ben diversa e opposta a quella che fu la prima costituzione degli Stati Uniti, gli Articoli di Confederazione, il cui sistema corrispondeva alle aspettative di gente le cui esperienze con un forte governo esterno erano state tanto infelici da dover entrare in guerra per liberarsene. Ma solo dopo 4 anni la firma del trattato di pace, “un gruppo di persone spaventate e ansiose, cominciò a reclamare un governo forte e a mettere in piedi il meccanismo che lo avrebbe portato ad avere il governo centrale che desiderava. Gli speculatori di terre occidentali che erano stanchi di vedere le loro terre prive di protezione, fabbricanti, mercanti, chi prestava denaro a interesse e non riusciva a riscuotere, chi deteneva obbligazioni governative, chi possedeva schiavi: tutti questi volevano un forte governo centrale che fosse in grado di mettere in piedi una guardia e un esercito federale per difendere chi viveva sulla frontiera e che proteggesse le loro proprietà e permettesse loro di accrescerle, in un clima di sicurezza, favorevole a chi faceva affari” (Storia popolare degli USA, Einaudi).

Il Congresso, secondo gli Articoli di Confederazione, non poteva farlo. E così 55 rappresentanti di mercanti, speculatori, banchieri che prestavano ad interesse, detentori di obbligazioni, proprietari di schiavi e senza alcun rappresentante dei piccoli agricoltori o degli operai, sfruttando l’occasione di essere delegati solo per rivedere, magari con qualche aggiunta, i vecchi Articoli di Confederazione, si riunirono a porte chiuse in un albergo di Filadelfia e in gran segreto e senza alcun mandato, autonominatisi “convenzione costituzionale”, scrissero la Costituzione degli Stati Uniti.

Vi furono vivaci discussioni su molte questioni. Ma su un punto erano praticamente tutti d’accordo: il popolo (cioè chi possedeva poco o nulla) non doveva avere troppo potere” (Idem). Come assicurarsene? Con uno stato dotato di un forte governo centrale, federale, che avesse veri poteri senza più necessità di chiedere agli stati, con poteri di controllo sul commercio estero e su quello tra gli stati; di imporre tasse sulle merci straniere e di stipulare trattati commerciali, nell’interesse di fabbricanti e mercanti; di pagare i debiti governativi agli speculatori che fin lì non riuscivano a riscuotere; dotato di guardia federale, esercito e marina pronti a fermare ogni ribellione e rivoluzionari dalla testa calda come Shays che dava l’assalto alla proprietà altrui e impedivano ai tribunali dei singoli stati i rimborsi dei debiti agli usurai.

Scrissero la Costituzione degli Stati Uniti e l’imposero anche agli stati che non l’approvarono nonostante che gli Articoli di Confederazione prevedessero l’unanimità: un po’ come si comincia a dire per la c.d. “costituzione europea” che si vorrebbe valida anche se non fosse approvata da tutti i paesi. Col nuovo progetto di governo federale di tutti gli stati, gli stati non potevano più stampare carta moneta che svalutava il valore dei crediti degli usurai ne emanare leggi di dilazione dei pagamenti dei debiti o che permettessero di pagarli in merci e bestiame. Tutto avrebbe funzionato a meraviglia per i benestanti.

Il paradosso è che l’America, così identificata col nuovo, il moderno e il futuro, di una sola cosa vanta l’antichità e immutabilità: la sua Costituzione che, salvo alcuni emendamenti che non l’hanno negata, è rimasta sempre uguale, senza minimamente adeguarsi ne agli sviluppi sociali e democratici della storia ne a quelli del moderno costituzionalismo democratico che, soprattutto nel continente europeo e soprattutto con le costituzioni di “democrazia antifascista” in specie italiana, ha superato il vecchio costituzionalismo vetero “liberale”, a cui è rimasta ferma la Costituzione e lo stato federale americano, ma che paradossalmente la cultura europea soprattutto giuridica e i fautori del c.d. “europeismo”, della c.d. “costituzione europea” e della Europa federale, assumono come prototipo a cui far retrocedere e tornare il nostro Continente.

Nonostante che il suo essere la più “vetero” costituzione del mondo, quella Americana dimostri di non essere segnata dagli sviluppi di tutta la storia e pensiero moderno degli ultimi 300 anni. Mentre il Continente europeo ha pure subito qualche contaminazione dal presidenzialismo Usa: in Germania (cancellierato); in Francia (gollismo); in Italia, col Parlamento aggirato col nome del candidato premier sulle schede elettorali e dall’interventismo di Ciampi, specie in politica estera, con l’istituzione di una commissione Quirinale/Farnesina e un suo portavoce “insinuato” nell’ultimo Consiglio europeo “dei ministri”.

E nonostante che negli stessi Stati Uniti – e l’hanno dimostrato Vietnam, Watergate, Irangate, ma anche New Deal, ecc. – la forbice tra la costituzione formale e la realtà del paese si è andata progressivamente allargandosi, fino a diventare praticamente incolmabile, allontanando i cittadini dalla politica in una maniera forse inimmaginabile persino per i suoi “padri fondatori”. Nonostante la Costituzione sancisse l’unione volontaria dei 13 stati sovrani e il diritto di separarsi in qualunque momento, di fatto lo si è negato da quando per impedirlo si arrivò ad una guerra civile, che fu anche la premessa per un ulteriore rafforzamento dell’esecutivo centrale dello stato federale. Nonostante l’originaria idea costituzionale è stata progressivamente e sempre più smentita dall’entrata di nuovi stati che traevano legittimazione dal governo federale, anziché dall’inverso come per i primi 13; e nonostante l’allargamento imprevisto del suffragio a ceti senza proprietà, e quindi mobili, non identificati e non identificabili con aree e località territoriali specifiche; nonostante l’acquisto dei territori della Louisiana, l’allargamento del mercato nazionale, e tutto quello che ha progressivamente e sempre più reso irriconoscibili gli Stati Uniti rispetto a quelli del 1786.

Continuità e immutabilità

della carta costituzionale Usa hanno soprattutto una funzione ideologica e a ciò sono servite. L’ideologia (sovrastruttura che maschera la realtà) dell’immutabilità costituzionale, tende anzitutto a mascherare il fatto che la Costituzione Usa non è “democratica” ma “liberale”.

Una continuità e immutabilità che servono per fingere indifferenza storica tra “stato liberale” e “stato democratico” e per funzioni ideologiche: verso il mondo esterno, come dimostra il fatto che essa è diventata un riferimento per l’Europa e che il governo presidenziale dello stato federale repubblicano Usa – bollato da Tocqueville come tirannia della maggioranza; e che ha sostituito l’equivalente governo del primo ministro inglese nel rappresentante simbolicamente nel mondo il c.d. “stato di diritto”; e verso l’ “interno”. Già Michael Kamen, anche lui storico tutt’altro che sovversivo, ha mostrato – in Season of Youth – come, a partire dalla metà dell’800, la Costituzione servisse a sostituire e andasse gradualmente sostituendosi alla dichiarazione di Indipendenza come documento fondante e legittimante del paese: sacralizzandola, la pars costruens, l’istituzione di una nuova autorità, prendeva il posto della pars destruens della rivoluzione che abbatteva l’autorità e che preoccupava per il ruolo problematico, di turbativa, che aveva nell’immaginario politico nazionale.

Ma, “sacralizzandosi”, la Costituzione ha fatto dimenticare anche se stessa. Tanto che durante la guerra del Vietnam la gente veniva arrestata per aver distribuito ai militari il testo dei primi 10 emendamenti, quelli della Carta dei Diritti, proprio perché a tale “Carta dei diritti” non corrispondono poteri democraticamente e socialmente adeguati a garantirli ed attuarli (come avviene con la enfatizzata “Carta dei diritti” europei, che risultano scissi e quindi sostanzialmente negati dalle forme di potere autoritario di tipo verticistico, burocratico, antisociale, e persino monocratico e presidenziale quali il presidente della Commissione e quello del Consiglio e il governatore di BCE). E l’America era pur in guerra contro il Vietnam che nella “sua” costituzione aveva inserito di peso la Dichiarazione d’Indipendenza USA. La Costituzione è però servita e serve a disinnescare ideologicamente la critica e il dissenso – cioè la democrazia – trasformandoli in una forma di consenso più alto la cui forma volgare è: “se protestate è perché la libertà americana vi permette di farlo; perciò perché protestate?”.

Insomma, un procedimento retorico di cui Sacvan Bercovitch (The American Jeremiad) rintraccia le origini in quella forma di predicazione che Perry Miller battezzo, appunto, “jeremiade”, in cui la seconda generazione puritana di fine ‘600, criticando la forma che aveva preso la loro società, indicava come rimedio a tutti i mali il ritorno alle pratiche e ai principi originari dei fondatori; davanti ad ogni crisi, non di innovare si tratta, ma di restaurare; la critica all’America è legittima solo in nome dell’America.

La vetta della “geremiade americana” è Walt Whitman; ma c’è in Dos Passos (restituitemi “la democrazia dei miei libri di scuola”), e in R. Ellison (“riaffermare i principi su cui il paese fu costruito”), e in tante e tante celebrazioni dell’indipendenza.

Il rimedio della cultura americana è sempre la restaurazione, nel tornare indietro, non nell’andare avanti: come tornare indietro più che andare avanti è quello che in Europa propongono banchieri e intellettuali, giuristi, giornalisti e politici “federalisti”.

Negli Usa nessuno si chiede se non sia la Costituzione americana stessa a contenere le matrici degli errori, di quei crimini, di quelle crisi, che lamentano e che fanno oggi additare gli Usa come “fuorilegge” internazionale, come il Paese più brutale della storia e che ci si è presentato col federalismo.

Lo schiavismo che la Costituzione USA sanciva, senza osare nemmeno nominarlo, ma dando una rappresentanza politica privilegiata agli schiavisti (tormentati come Jefferson, imperterriti come Washington), e che fu abolita per vie extra costituzionali, come un proclama presidenziale e una guerra civile.

E gli Indiani? La dichiarazione d’Indipendenza che non portava la firme di pellirossa, e a cui nessuno saltò nemmeno in mente di consultare. Li nomina in tre parole: “merciless Indian Savage”, spietati selvaggi indiani, aizzati dagli inglesi. E la Costituzione Americana che istituiva una nuova realtà statuale sul loro continente e “lo stato di diritto”, non li nomina nemmeno. Una eliminazione politico costituzionale degli indiani, che fu la premessa per la loro eliminazione fisica e dallo spazio referenziale. Così che un secolo dopo F. Jackson Turner, ignorando il genocidio, potrà dire che la democrazia americana si fonda sulla disponibilità di“vaste estensioni di terre libere”: gli indiani non c’erano mai stati, e non c’erano più.

Il preambolo della Costituzione si apre con la fatidica formula “noi ‘people’ degli Stati Uniti”. Ma come già detto non c’è nessuna proclamazione di “sovranità del popolo” ne tanto meno di un “potere popolare”. Così che quel termine “people” è reso e diventa estremamente elastico, da poter essere riferito a “abitanti”, ma anche semplicemente a “gente”, esseri umani, quali gli indiani nemmeno sono stati considerati.

Quel “noi” popolo e gente degli Stati Uniti del preambolo, che presuppone sempre “altri” a cui “la democrazia non si applica nemmeno negli “United States”, resta il marchio originario di un “confine”, di una “democrazia” che nasce e resta un bene limitato ed esclusivo. Dove quel “popolo degli States” diventa un soggetto estraneo alla politica, ma nel cui nome apparati di potere e gruppi d’interesse si arrogano ancora il diritto di definire ideologicamente la “democrazia” e di “concederla” o di “sottrarla” (a “non proprietari”, a “neri”, immigrati”, persino a indiani) non più solo in Centro e Sud America ma in tutto il Mondo, o di imporla militarmente “se” e “dove” conviene.

* Angelo Ruggeri (Centro Il Lavoratore”)

Nascita degli USA, e morte della rivoluzione col federalismoultima modifica: 2011-02-11T02:22:00+01:00da iskra2010
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