Critica marxista e afasia comunista. Aspettando Catone, per un punto di vista plebeo-globale

 

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di Angelo Ruggeri

 

Per il PCI, l’URSS era una realtà oggettiva, non un modello

 

Critica marxista e afasia comunista.

PER  UN PUNTO DI VISTA PLEBEO, CIOE’ DAL BASSO, CIOE’ VERAMENTE MARXISTA, PER UNA NUOVA TEORIA DEL POTERE . PUNTO DI VISTA PLEBEO  CHE OSSERVA LA SOCIETA DAL BASSO GLOBALMENTE, SU TUTTO E IN OGNI CAMPO DELLA STORIA E DELLA CIVILTA CONTADINA E INDUSTRIALE E DELLE FORME DEL DIRITTO E DEL POTERE.

Perchè non basta più dirsi comunisti ed occorre dirsi ed essere marxisti nella prassi politica: anziché scambiare per intelligenza la furbizia di un tatticismo privo di strategia che invece di attuare i principi ne fa dei “cacciocavallo appisi”  in un quadretto.

La metodologia marxista, come critica della contraddizione della realtà si è imposto nella cultura persino al di là dell’insuperabile contrasto tra gli interessi del capitalsimo e l’interesse della società, sicchè anche le forze culturali piu vive del mondo conservatore sanno arricchire il loro brutale “realismo” con l’acquisizione di alcune rilevanti risultanze della critica “materialistica” dei rapporti tra società civile e società politica. a cui hanno invece rinunciato le pseudo sinistre di oggi, riunite nella “Federazione di sinistra” o nell’ecologica e libertaria “sinistra e libertà” vendoliana. Avendo tutte come comune unico denominatore la negazione del marxismo.

 

Lo spirito del marxismo è critica a tutto ciò che è dato, e solo uno spirito anticipatore e critico può legittimare come marxisti. Il sogno precede sempre la realtà, il pensiero l’azione.  Marxianamente una coscienza comunista supera tanto la limitatezza quanto l’obbiettivo del movimento storico, invece la coscienza di quelli che oggi si dicono e si mistificano come comunisti, non supera neanche la limitatezza e l’obbiettico della prossima scadenza elettorale e del governo.                                                                                                 Altro che la limitatezza del movimento storico di una coscienza che riconosce che nemmeno il comunismo è una situazione finale, ma un momento di uno sviluppo in linea di principio infinito; e che in partenza sa comunque denunciare e attaccare il potere d’impresa, la proprietà privata dei mezzi di produzione e i Partiti di destra e di sinistra che li sostengono, anzichè come rinunciarvi e legittimarli come fa l’attuale psudo-sinistra pronta ad allearsi elettoralisticamente con tali partiti in funzione non delle idee ma delle sedie. In tale limitatezza di obbietivi elettoralistici e di governo ci SI DIMENTICA  LA MARXIANA DIFFERENZA TRA DIVISIONE DEL LAVORO SOCIALE E DIVISIONE DEL LAVORO SPECIALE: ossia tra la divisione del lavoro nella società e quella all’interno del processo di lavoro, laddove queste due categorie si intersecano una nell’altro. Con ciò favorendo se non anche lasciando mano libera al marchionismo capitalistico e coprendosi e coprendo il tutto dietro l’enfatico personalismo antiberlusconismo da cui origina anche il vendolismo e tutto l’anticomunismo democratico (come tale non democratico)  della pseudo sinistra di Terza via in sfacelo e debaclè in Italia e in tutta Europa.

 

Il modello della via italiana al socialismo era iscritto nella strategia della transizione e rivoluzione democratica e nel modello di democrazia sociale della Costituzione italiana elaborata dalla Assemblea costituente che fu una idea di Gramsci e non di Togliatti, e che Togliatti portò a compimento in una convergenza tra forze e teorie marxiste e forze e teorie del cattolicesmo sociale. Eppure per un ventennio come quello del fascismo, dal Manifesto a Liberazione, alll’Unità (che almeno era in funzione di un rovesciamnteo culturale e storico totale come quello del PDS), tellettual-in e politici della pseudo sinistra di ogni tipo (anche quella c.d. “radicale” e quella c.d. “comunista”) , impegnati a dimostrare – ai gestori del potere finanziario industruiale che ritenevano fossero i vincitori – la loro sincerità e credibilità come soggetti che ancor prima dell’89 hanno deciso di passare dall’essere “antisitema” all’essere  di “sistema”, non hanno fatto altro che appiattire la filosofia politica sulla congiuntura, occultando la “concezione del mondo” marxista(Gramsci) e che il comunismo è abolizione della proprietà privata dei mezzi di produzione, dietro la ipostatizzazione degli eventi ruotanti attorno al 1989 e alla crisi del c.d. “socialismo reale”. Solo già per questo meritano di seguire la strada indicatagli dal grande e perspicace Monicelli: perseguire la rivoluzione democratico-sociale riprendendo il filo del comunismo gramsciano-togliattiano da la dove è stato interrotto, spezzato e abbandonato con la soppressione del PCI e la nascita di quello che ora è il PD e le pseudo sinistre di ogni tipo; oppure gettarsi dal balcome.

 

Da sempre e progressivamente ancor più con Berlinguer che fu dall’inizio alla fine stretto collaboratore di Togliatti e poi un suo coriaceo e tenace prosecutore che proprio per il suo insistere sulla pluralità dell’esperienze del comunismo e quindi sulla diversità tra l’URSS e i Paesi Occidentali di capitalismo avanzato e quindi la strategia – indicata da Gramsci e proseguita da Togliatti – per pervenire attraverso il consenso, l’egemonia e la democrazia a una trasformazione, ha reso inviso il PCI togliattiano di Berlinguer sia alla destra filo socialista e filo americana di Chiaromonet e Napolitano sia alla destra di potere cossuttiana (che mistificava come socialismo la politica di potenza dell’URSS) e quindi ai poteri palesi ed occulti sia dell’URSS e dei Paesi dell’Est sia degli USA e dei Paesi dell’Ovest (ed in particolare del Mossad di Israele vero e proprio bastone dell’area mediterranea e medio orientale) delle forze e dei poteri nazionali e internazionali del capitalismo guidato da quello più forte e cioè da quello americano.

Donde le chiare affermazioni sia americane come quelle di Kissinger: : “Berlinguer è il comunista  più pericoloso del mondo“; o dell’ambasciatore Gaderner: “Il pericolo rosso: fermare Berlinguer e l’avanzata dei comunisti in italia“, quasi riecchieggiante la nota motivazione pideuista con cui Gelli spiegò il perchè dell’eversivo “Piano di Rinascita democratica”: perchè i comunisti in Italia stanno vincendo con la democrazia“.             Tutto questo faceva del piu grande partito comunista del mondo un partito estremamemte pericoloso sia per gli USA e i Paesi capitalistici occidentali che non potevano denigrarlo equiparandolo ai regimi dell’Est Europa, sia per l’URSS e i regimi dell’Est che vedevano nel PCI un esempio per tutto il Mondo e specialmente per i popoli dei Paesi che si richiamavano al comunismo sulla possibilità perseguire una trasformazione socialista attraverso un processo sociale e politico e non con le baionette e un assalto ad un Palazzo d’Inverno (palazzo che nel capitalismo avanzato neanche esiste ed è sostituito da tante casematte” – Gramsci),  e che non potevano neanche denigrarlo assimilandolo alle socialdemocrazia o ad un partito di “sistema” essendo evidente che il PCI, da sempre ma ancor più dopo la svolta del ’79 ( quando per altro la moglie di Moro , profeticamente, mise in guardia Berlinguer dicendogli: “stai attento perchè dopo mio marito ora pensano e vogliono che tocchi a te”) era impegnato in una delle più vaste lotte e mobilitazioni di massa delle masse popolari e lavoratrici contro l’imperialismo e il neocolonialismo occidentale e contro il sistema e il potere d’impresa del capitalismo “forte” e privato e i sui gruppi e forze organizzate occulte e palesi operanti sia sul piano parlamentare che extraparlamentare. E invece da destra e da sinistra l’hanno accomunato alla crisi e al crollo del “socialismo reale” a cui è stato assimilato il comunismo e il marxismo anche da parte di coloro che si erano scissi dal PCI attaccando e critcando i regimi dell’Est europeo come “non comunisti” e “non socialisti”  o anche come regimi autoritari e di “capitalismo di stato”.

 

Qualche errata corrige di:

PER  UN PUNTO DI VISTA PLEBEO, CIOE’ DAL BASSO, CIOE’ VERAMENTE MARXISTA, PER UNA NUOVA TEORIA DEL POTERE  . OSSERVANDO LA SOCIEA’ DAL BASSO, UN PUNTO DI VISTA PLEBEO E’  GLOBALE, DALLA GASTRONOMIA, ALLA LETTERATURA ALLE FORME DEL DIRITTO E DEL POTERE

 

La cultura non è vuota erudizione e significa saper dire “dove vanno le anatre?” che è una domanda sulla giustizia sociale a cui – in tutto il libro – nessuno sa rispondere al Giovane Holden. E’ notoria che caratteristica del comunista militante del PCI era quello di saper risalire alla questione del potere e del diritto, anche partendo da una discussione sui tombini in un consiglio comuale qualsiasi,  perchè occuparsi della questione del potere che riguarda la democrazia è nella natura della politica e della res-pubblica, all’opposto di oggi che delle forme del potere e del diritto  “sinistri” tellettual-in e “politici” non si occupano nemmeno quando la posta in gioco è la democrazia stessa e la Costituzione che è il fatto più politico che esista.

 

PER FORMARE E DARE UNA CULTURA DE ACTU ET DE VISU ET DEMOCRATICA A TELLETTUL-IN DELLA “SINISTRA” DI OGNI SPECIE, ANCHE QUELLA C.D. RADICALE E C.D. COMUNISTA, dalla gastronomica, alla letteratura, alla cultura rivoluzionaria del diritto e del potere dal basso nel partito e nello stato, contro le forme del potere dall’alto occorre assumere e rivendicare il punto di vista plebeo dal basso, contro il punto di vista borghese dall’alto di tellettual-in e politici della pseuod sinistra anche pseudo comunista.

Oggi non basta dirsi comunisti, occorre dirsi marxisti, ma ciò che conta non è solo dirsi marxisti ma come si è marxisti. E non c’è nulla di più lontano dal punto di vista plebeo, cioè veramente marxista di chi osserva la società dal basso, di coloro che anche con pagine a pagamento sul Manifesto testimoniano di guardare e di muoversi nell’ambito del punto di vista dall’alto delle varie formazioni della “sinistra” di ogni tipo e colore: della c.d. Federazione di sinistra in generale della “sinistra” di ogni tipo, anche di quella c.d. “radicale” e ancor più grave di quella c.d. “comunista”, dal Pcdi dilibertinista ad RC, tutte gestite autoritariamente dall’alto e in senso opposto al partito gramsciano, intellettuale collettivo, sociale e di massa dove le masse e la base “esercitano una funzione direttiva e quindi educativa”.

 

Contro il punto di vista dall’alto dei tellettual-in e politici della “sinistra” di ogni tipo che nell’ultimo ventennio si sono macchiati di “crimini contro l’umanità”: spezzando l’unità del pensiero e quindi la vera cultura; che sull’onda di una apodittica declinazione della modernità in post-modernità;  hanno riflesso forme della realtà eminentemente congiunturaliste incapaci di valutarle superando i limiti del sociologismo e facendo rifluire tali limiti dal piano sociologico a quello politologico o meglio della politologia con cui hanno impedito di cogliere il senso della evoluzione dei fatti nel tempo, ovvero il senso diacronico e non solo sincronico dei procesi in atto.                             Con ciò promuovendo sociologisticamente e ampliando politologicamente l’appiattimento della filosofia sulla scienza tecnica, avendo promosso la frammentazione e la separazione delle scienze e delle conoscenze, separando scienze umane e sociali dalle scienze naturali e tecniche e considerando “scienza” solo queste; in tal modo hanno separato e contrapposto la scienza e la democrazia che è il prodotto  delle scienze sociali e umane e dalla grande rivoluzione ottocentesca di queste scienze.

Attardandosi sulla contemporaneità hanno impedito di cogliere “la filosofia di un’epoca storica “ come specificato da Gramsci, che è la sola filosofia che esiste veramente, in quanto non esiste  la filosfia in senso generale perchè nel pluralismo culturale si contrastano più “concezioni del mondo”, tra le quali hanno teso ad escludere la concezione del mondo marxiana espellendo dalla prassi politica il marxismo politico (riducendosi al massimo a fare della filologia e o della letteratura marxista, dimenticando che non esiste marxismo senza politica!!!). In tal modo  hanno favorito e accreditato un “pragmatismo” espressivo dell’egemonia culturale di stampo anglosassone occultando dietro gli eventi  congiunturali e la contemporaneità la portata reale del processo storico, il presente storico e i tre tempi gramsciani del presente (presente-passato, presente-presente, presente-futuro)  e AVENDO LORO PER PRIMI I TELLETTUAL-IN DI OGNI TIPO DI “SINISTRA” ANCHE quella c.d. “RADICALE” e quella c.d. “COMUNISTA”, SCONNESSO, SEPARATO, SCISSO E CASSATO IL NESSO IRREFUTABILE TRA FILOSFIA E STORIA, tra storia e filosofia in generale e filosofia politica in particolare; riducendo il comunismo ad unicum, al c.d. “socialismo reale” (e in Italia ai Bertinotti a copie tipo Cossutta-Di Liberto) ignorando la filosofia della prassi del comunismo italiano di Gramsci-Togliati-Longo-Berlinguer  storicamente vincente in Italia. E occultando la concezione marxista del mondo della globalizzazione e della società appiattendosi sulla congiuntura hanno occultato tutta la filosofia politica e quella marxista in particolare, dietro la ipostatizzazione degli eventi ruotanti intorno alla crisi del “socialismo reale”: in tal modo senza mai dire e specificare cosa è veramente comunismo, che è abolizione della proprietà privata dei mezzi di produzione  e non riducibile a violenza sistemica e a regime dispotico, del tipo verso cui sono degenerati i Paesi del c.d. “socialismo reale”   e dell’URSS che il PCI E I COMUNISTI ITALIANI DA ALMENO E OLTRE VENTANNI CONSIDERAVANO UNA REALTA’ OGGETTIVA, NON UN MODELLO.

Contro tutto ciò va affermato e RIVENDICATO il punto di vista plebeo sprezzato da politici e tellettual-in dei pseudi “sinistri” e “comunisti”, proprio come per la borghesia, per la quale “E’ un plebeo” signfica: è una persona incolta e grossolana.Cosa che non vorrebbero mai sentirsi dire  politici e tellettual-in e i “politici” dei Pdci, Rc, ecc. che si sono autodecapitati innanzitutto teoricamente.  Mentre nella terminologia marxista e nell’essere e sentirsi marxisti, l’essere plebeo e comportarsi come un plebeo è inteso come una grande virtù. E come tale è stato considerato virtuoso e come punto di vista e comportamento da assumere e praticare anche nelle forme del potere sia interno al partito che dello Stato e della sociatà, dalla Comune di Parigi da cui è venuta la sola e unica innovazione della forma del potere di sempre con la sperimentazione dell’idea del potere dal basso (che storicamente si chiama democrazia) alla quale l’unica che più di ogni altra vi si avvicina (senza raggiungerla ovviamente) è quella della Costituzione italiana del 1948, anche con la concezione del partito dell’art.49 della C. che esprime da vicino la teoria del partito gramsciano che è teoria del potere dal basso nel Partito e nello Stato, tutte cose che sono state e vengono regolarmente TRADITE dal verticismo centralista e dal centralismo verticisitico di tutti i gruppi di potere personale dei c.d. “dirigenti” della sinistra di ogni tipo e colore. I quali si rifanno, praticano al proprio interno e quindi perseguono anche all’esterno e per lo Stato la forma della direzione, del comando e del potere dall’alto che è l’unica forma del potere sin qui esercitata in ogni epoca storica e in ogni tipo di regime, dell’Est come dell’Ovest  di ieri e di oggi: sempre è stato e continua ad essere esclusivamente praticato ed esistente soltanto ed unicamente la forma del potere dall’alto (che storicamente si chiama oligarchia).

Il punto di vista plebeo, cioè dal basso e veramente marxista è e deve essere un punto di vista globale, totale, riguarda e sa e deve essere, comprendere, comportarsi ed esprimersi complesivamente su tutto: dalla cucina, alla storia nel suo complesso (quindi per esempio anche  quella della gastronomia e comunque anche del folklore come ricorda Gramsci) ),  alle forme del potere. Lo ritroviamo nella cinematografia dell’Alexsanderplatz di Fassbinder e nel teatro di Brecht, ma serve anche per rispondere alla domanda del Giovane Holden a cui per tutto il libro nessuno mai risponde: “dove vanno le anatre?”. Nessuno risponde perchè a nessuno importa niente delle anatre così come non gli importa niente dei bambini nel mondo e di dove vanno ieri come oggi in Afganistan o in Irak. Ma che è anche una domanda a cui non può essere data una risposta fino a quando il mondo rimane così preda del punto di vista dall’alto di chi sta sugli spalti di destra e sinistra  e guarda giù, dall’alto in basso tutti coloro che invece guardano l’erba dalla parte delle radici. Perchè “dove vanno le anatre” è una domanda sull’ingiustizia sociale che si aggrava in mondo dove i bambini vanno a finire nello stesso posto delle anatre: nella padella dell’ingiustizia, dello sfruttamento, della discriminazione, della schiavizzazione, dell’indiferenza e mancanza di potere e diritti sociali dei bambini non meno che delle anatre e dei plebei. Domanda a cui non sanno rispondere nemmeno tellettual-in e “sinistre” che in massima parte non sanno quello che un plebeo sa di tante cose come sa della storia della civiltà contadina e dei suoi piatti frutto di un’esperienza sofferta e intelligente e di meravigliosa fantasia delle nostre care massaie. Storia di semplici “mangiarini” dimenticati che il plebeo sa riproporli come per rendere un po di giustizia ad un’epoca che con semplicità e genuinità ha fatto la storia non solo della gastronomia ma della cultura plebea. Di chi sa che un piatto tradizionale, specialmente durante le trebbiature sull’aia oppure nei periodi più freddi, quando era usanza gustare piatti robusti, compariva l’anatra. E non è un controsenso come potrebbe pensare qualche tellettual-in che come non praticano e non parlano più da lustri di fabbrica, lavoro, organizzzazione del lavoro, sistema di produzione, contratti e riforma, diritti di informazione in fabbrica e controllo sociale del processo produttivo, ecc, così non sanno che PER LA TREBBIATURA, NONOSTANTE IL CALDO, GLI UOMINI AFFATICATI CHE DOVEVANO PASSARE ALLA TREBBIATRICE I COVONI DI GRANO, LEVARE LA PULA E LA PAGLIA DA SOTTO LA SCALA, FARE IL PAGLIAIO (tutte energie che si perdevano sotto il sole cocente, il sudore a rivoli) avevano bisogno di un piato che rifornisse energie. Dunque una cipolla, 100 gr. di pancetta, due spicchi d’aglio, un peperoncino, due chiodi di garofano, sale, un bicchiere di vino bianco. succo di due limoni e una beòlla anatra  pronta per la cottura e tagliata in ottavi con trio di quanto sopra, con salsetta finale utilizzabile anche per condire piatti di pasta.

 

Ma il punto di vista plebeo ha una idea opposta di tellettual-in, giornalisti e politici che fanno racconti invece di dire, dove dire non è raccontare (come, citiamo per tutti, il Vendola)   e come DANTE PER TUTTI I PRIMI 12 VERSI non parla di raccontare ma di dire PERCHE’ IL COMPITO E’ DI DIRE LA VERITA’. BASTA FARE LETTERATURAED ESERCIZI DI BELLA SCRITTURA VUOTA E DI ERUDIZIONE CHE E’ ALTRA E DIVERSA COSA DA CULTURA: ad es. Sereni era considerato una biblioteca ambulante, il più erudito d’Italia e anche di Togliatti che però gli era superior ein cultura. CULTURA NON VUOL DIRE CONSUMISMO CULTURALE COME TANTI CHE NON HANNO APPETITO MA MANGIANO (E LEGGONO). non e’ feticismo del leggere ne quanto si legge MA E’ COME SI LEGGE E CON QUALE PUNTO DI VISTA LO SI INTERPRETA, dove non per tutti ma specialemente PER IL PLEBEO LEGGERE E’ PER UNA DOMANDA DI VITA, PER INCONTRARE LEGGENDO DEI LIBRI IN CUI INCONTRARE QUALCOSA CHE CAMBIA LA VITA: anche pe caso come è capitato anche a noi, trovando per caso in un ripostiglio vecchie riviste  e libretti con saggi di Marx, ecc. editi da organizazione del movimento operaio  di vario genere, che ci hanno trasformato la vita chiarendo con la luce della teoria tutto quello che si viveva praticamente IN FABBRICA, DE ACTU ET DE VISU.

E dopo avervi acculturati su cucina, gastronomia e folkore (componenti fondamentali della cultura, ci dice gramsci) speriamo almeno di erudirvi essendo difficile propriamente acculturarvi, in poco tempo, in materia di forme storiche del potere e del diritto, erudizione che, forse, POTREBBE ALMENO AIUTARVI A DECIDERE LA STRADA PER L’ITALIA CHE CON INTELLIGENZA E ONESTA CONSAPEVOLEZZA STORICA E CULTURALE MONICELLI DE ACTU ET DE VISU HA SAPUTO INDICARE A TUTTI I TELLETTUAL-IN E POLITICI DELLA PSEUDO SINISTRA: PERSEGUIRE LA RIVOLUZIONE CHE L’ITALIA NON HA MAI AVUTO oppure E’ MEGLIO CHE VI GETTIATE DAL BALCONE.

 

L”idea dominante che perviene alla conseguenza di fare dei governi, degli esecutivi, delle variabili indipendenti dalla società, finendo per omologare nei momenti di crisi o di emergenza, i regimi di tipo autoritario e reazionario con i regimi di tipo democratico, è quella secondo cui il nucleo di fondo del potere di governare, come potere di “direzione” o di determinare “l’indirizzo politico”, è il potere di “iniziativa”, termine con il quale si intende legittimare o l’esclusiva nei regimi autoritari) o la preminenza relativa o assoluta (nei regimi di democrazia formale) del potere governativo (vedi allegato)

 

 

Per una nuova teoria del potere ()

 

Da una parte, in nome della democrazia sostanziale non hanno edificato una democrazia formale e, dall’altra parte, in nome della democrazia formale hanno edificato un sistema che ha solo l’apparenza della democrazia e formale e sostanziale,

 

Il referendum come ogni strumento istituzionale non è neutro: un conto sono i referendum dall’alto anche quando mascherati cvome popolari ma sono promossi dai vertici e dagli apparati di partito o di stato e da lobbies, un’altra cosa sono quelli promossi dal basso.

non e’ democrazia diretta del popolo se lascia intatte le forme di stato e di governo autoritarie che esercitano un potere dall’alto sul parlamento e sul popolo.

Si tratta di rovesciare l’idea dominante anche nella cultura democratica e di sinistra – anche di «iper» sinistra – che la direzione dello Stato spetti, comunque, in ogni tipo di Stato e di regime politico-istituzionale, al potere esecutivo. per questo occorre sottoporre a referendum di tipo deliberativo gli atti del governo.

 

I modo con cui si susseguono le manife­stazioni più varie della crisi sociale, in un rincorrersi ormai irrefrenabile tra fenomeno di degrado e lacerazione indotti dall’ind­ustrialismo e dai tentativi arroganti e pateti­ci di porvi rimedio da parte di governi e apparati ostentatamente lontani dalla società, ripropongono con urgenza vieppiù drammatica problemi di intervento sociale, armato di po­tere reale, che comportano riflessioni teori­che di tipo nuovo nella prospettiva ormai chiaramente aperta dell’insufficienza, oltre che dell’estraneità dei governi, verso i valori della convivenza civile.

Il dibattito avviato su queste pagine da Vla­dimiro Scatturin intorno alle questioni istitu­zionali e sui rapporti tra democrazia e nuclea­re, documenta ampiamente una situazione contrassegnata da un avanzamento – venti anni fa imprevedibile – della cultura di massa e degli scienziati delle «due» culture, così che oggi può essere indifferentemente un fisico, un chimico, un medico, un ingegnere in grado di proporre trasformazioni, anche puntuali, del sistema di potere. Si vede inoltre un attar­darsi degli scienziati sociali nonché dei filoso­fi, su schemi vecchi riguardanti le teorie sociali e le forme concrete dell’organizzazione ri­chieste dalla società di oggi e dai drammi sconvolgenti che la percorrono così rapidamente

Si rende pertanto indispensabile l’appro­fondimento di una discussione che, partendo dalle connessioni tra valori sociali, sviluppo produttivo, salvaguardia dell’ambiente e del territorio, individui le responsabilità oltre che dei gruppi di potere monopolistico e della scienza legata ai problemi della rivoluzione tecnologica anche della filosofia e delle scien­ze sociali, il cui ruolo determinante si manifesta, infatti, in quelli che, con acuta formula allusiva si sono chiamati gli «apparati ideolo­gici di Stato», capaci di condizionare dalla cultura l’esercizio del potere, contrastando il dominio dall’alto non solo nelle organizzazio­ni autoritarie di stampo conservatore e reazionario, ma anche nelle organizzazioni di de­mocrazia «formale».

Al punto in cui sono giunte le cose, e pro­prio perché si tende ad affermare, sia pure con una studiata genericità, che non “tiene” più nessun modello istituzionale, occorre ri­conoscere che la situazione richiede un tipo di impegno teorico, rivolto a individuare il senso di un orientamento incline a spostare l’asse del potere verso la società civile, per fare sem­pre più coincidere società civile e società poli­tica, dando alfine atto che tutte le forme or­ganizzate di potere – in qualunque emisfero e qualunque tradizione sociale rifletta – presen­tano in forma diversa un’identica inidoneità a governare, proprio perché il governare è ovunque inteso come funzione sostitutiva di pochi a molti, come restringimento anziché allargamento della società, come arroccamento di grandi centrali di potere «dietro» le forme apparenti della democrazia.

Il fatto che il mondo sia stato segnato da in bi­polarismo che governa con il terrore nuclea­re, e che i protagonisti del bipolarismo, da una parte, in nome della democrazia sostanziale non abbiano edificato una democrazia formale e, dall’altra parte, in nome della democrazia formale abbiano edificato un sistema che ha solo l’apparenza della democrazia e formale e sostanziale, comporta una ricerca, che par­tendo dai dati della contraddizione alimenta­ta dall’affermarsi in concreto di strumenti di «democrazia diretta» come quelli referenda­ri, risalga sino alla individuazione degli ele­menti teorici che contestino gli ascendenti ideologici dell’attuale situazione, allo scopo di dare alla crisi un orientamento capace di pervenire a un nuovo tipo di sintesi.

Si tratta in concreto di domandarsi come le tendenze referendarie si sono lentamente ma decisamente fatte strada, in un tipo di situa­zione sociale diversa da quella che aveva ca­ratterizzato la previsione del referendum in Paesi come la repubblica elvetica, tenuto con­to che anche il referendum, come ogni stru­mento istituzionale, non è neutro, e che per­ciò altro è il referendum di iniziativa presi­denziale e governativa, altro il referendum di iniziativa popolare; nel senso cioè che senza una valutazione del tipo di forma di stato e di forma di governo nel cui ambito sia previsto lo strumento, non è possibile dare spiegazione coerente a quella che si chiama un po’ affrettatamente ”democrazia diretta”.

Ma se è decisivo tenere conto del sistema di governo cui il referendum inerisce, mentre è pseudo-democratico il referendum che con iniziativa dall’alto consolida il primato dell’esecutivo, si tratta di vedere come il referendum promovibile dal basso, si rapporti con una prospettiva di democrazia diretta, che in quanto tale è incompatibile con l’ideologia della «governabilità», che è il punto teorico di omologazione di tutte le forme storiche di organizzazione del potere, comprese quella di democrazia «formale».

Esso non può essere facilmente assimilato a livello di massa – però – se non spiega che nell’ideologia giuridica dominante, la forma di governo riguarda solo i luoghi del potere cen­trale e, quindi, essenzialmente i rapporti tra governo e parlamento e non anche le forme del potere decentrato e locale. Sicché per tale via, si finisce per occultare un’operazione ideologica che accomuna le assemblee parla­mentari – ma anche quelle regionali, provin­ciali, comunali, circoscrizionali -, in una istitu­zionale subalternità ai rispettivi esecutivi, go­verno e giunte, ma sottacendo quel dato teorico che, in concreto, manifesta i suoi effetti pii devastanti proprio al livello territoriale, in cui sarebbe possibile conferire un effettivo primato istituzionale alle assemblee elettive, e dove quindi la contraddizione è più acuta tra do­manda sociale e disponibilità delle istituzioni.

Ora, l’idea dominante che perviene alla conseguenza di fare dei governi, degli esecu­tivi, delle variabili indipendenti dalla società, finendo per omologare nei momenti di crisi o di emergenza, i regimi di tipo autoritario e reazionario con i regimi di tipo democratico, è quella secondo cui il nucleo di fondo del potere di governare, come potere di «direzio­ne» o di determinare «l’indirizzo politico», è il potere di «iniziativa», termine con il quale si intende legittimare o l’esclusiva nei regimi autoritari) o la preminenza relativa o assoluta (nei regimi di democrazia formale) del potere governativo. Tanto che non si esita ad affer­mare addirittura che il potere di indirizzo po­litico si riassume nel potere di direzione e di iniziativa dell’esecutivo. Ma se in base a tale assunto ideologico, che trascende le stesse for­me differenziali delle forme di Stato e di go­verno, si arriva a mistificare con tanta grossolanità la cosiddetta teoria della «divisione dei poteri», perché il potere «esecutivo» in verità è il potere «dominante» delle istituzioni stata­li di qualunque forma di governo – presiden­ziale o parlamentare, pluripartitico, bipartiti­co o a partito unico -, si comprenderà meglio come occorra affiancare l’analisi della forme di governo parlamentare, in cui si possono ann­idare gli equivoci più stravolgenti a comin­ciare da quelli concernenti il tipo di «rappresentatività» realizzata con la legge elettorale (proporzionale o maggioritaria). Ed è proprio con riferimento a tale questione che, in Italia, l’affermazione dell’istituto referendario ha acquistato un senso meritevole di grande attenzione, se si vuole che se ne traggano lezioni positive non tanto per il destino del referendum in se stesso considerato, quanto piut­tosto per la costruzione di una forma di governo che faccia della sovranità popolare l’effettivo baricentro del rapporti tra società e istituzioni.

Va cioè considerato che il referendum è stato introdotto nel nostro sistema istituzio­nale, nella stessa fase di sviluppo sociale e de­mocratico nella quale sono state istituite con­cretamente le Regioni a statuto ordinario – fa­cendo prendere corpo effettivo alla riforma «politica» dello Stato – e con la riforma dei regolamenti parlamentari si e avviata un’esperienza di «centralità» del parlamento, superando i principi che regolavano, dal l922, il sistema parlamentare proprio dello Stato «li­berale» e non, come quello odierno, «democratico-sociale». Dato che la natura specifica del referendum previsto dalla Costituzione è, al tempo stesso, di iniziativa popolare quanto alla legittimazione e di natura abrogativa quanto all’efficacia, ne è derivato che dopo un avvio di tipo contraddittorio – nel senso che, come per il divorzio, risultava coerente con i principi una vittoria dei «no» contro le iniziative per abrogare importanti istituti conquistati con le lotte sociali tramite il ruolo preminente del parlamento sul governo -, ora siamo pervenuti ad una fase nella quale si tende a far prevalere sotto il segno dei «sì», proposte di iniziativa popolare rivolte a spianare la strada legislativa nella quale di recente – si veda il caso particolare del nucleare – si sono sparse norme che rendono subalterno tutto l’assetto istituzionale, centrale e decentrato, a scelte governative che mettono in pericolo il rapporto tra sviluppo, energia e ambiente.

Ora – come Scatturin ha sottolineato richiamando i primi accenni alle questioni generali che i referendum sul nucleare sollecitano nelle masse dei cittadini e dei lavoratori -, deve penetrare più profondamente la consapevolezza che coi referendum nucleari, si sono colti problemi la cui essenzialità si connette al nucleare, ma riguarda in verità la concezione stessa del potere e quindi dei rapporto tra Stato e diritto, tra potere popolare e potere istituzionale dello Stato. Sicché occorre evitare che l’auspicata vittoria dei «si» venga rias­sorbita immediatamente dal potere dominan­te, che si riassume nel connubio tra potere degli esecutivi di governo e degli enti pubbli­ci nazionali, avendo una precisa consapevo­lezza dei limiti invalicabili di un referendum inteso solo come «contropotere», come ag­giunta estrinseca di uno strumento di demo­crazia «diretta» alla prevalente democrazia «delegata», per operare quindi un’ulteriore salto qualitativo dilatando il potere che è inerente al potere di iniziativa referendaria popolare.

Precisamente, si tratta di rovesciare l’idea dominante anche nella cultura democratica e di sinistra – anche di «iper» sinistra – che la direzione dello Stato spetti, comunque, in ogni tipo di Stato e di regime politico-istituzionale, al potere esecutivo. Potere esecutivo che, oltretutto, ha escogi­tato strumenti sempre pii sofisticati di gover­no dall’alto, mediante il trasferimento illegit­timo del potere di governo a «consigli di gabi­netto», a «comitati interministeriali» irre­sponsabili verso il parlamento; mediante l’e­sclusione del primato della legge con l’espe­diente della «delegificazione»; mediante il rafforzamento del primato governativo ormai incontrollatamente scatenato con i decreti ­legge e così consolidando il primato dell’iniziativa legislativa governativa a danno di quella par­lamentare, occultata anche mediante l’appro­vazione delle leggi non più prevalentemente in assemblea ma nel chiuso delle commissioni parlamentari. Battiamoci quindi, impostando un organico collegamento tra le iniziative re­ferendarie e lo sviluppo di una nuova teoria del potere, che tolga progressivamente il po­tere di iniziativa legislativa agli esecutivi, as­segnandola al popolo in raccordo e non isola­tamente dalle forze politiche rappresentate nelle assemblee elettive locali regionali e par­lamentari; liberando a loro volta queste dalla loro attuale subalternità istituzionale.

 

Angelo Ruggeri

 

 

La forma di potere dello Stato tra le forme verticistiche e centralistiche del federalismo e la forma di potere dal basso della democrazia sociale di base e dello Stato delle autononomie

 

Seminario regionale di Essere Sindacato, Milano, C.d.L.-Cgil, 19 marzo 93

 

 

Regione, forze sociali, contrattazione, autonomie locali e governo politico e sociale dell’economia e dei servizi.

Quale regione in quale Europa: per un territorio del sociale o del capitale?

 

 

L’anticostituzionale espediente “classista” del federalismo.

 

 

Relazione introduttiva di Angelo Ruggeri

(trascritta dalla registrazione – Testo non riletto e da correggere)

 

 

Come mai, in un sindacato che non ha mai discusso ed anzi ha sempre sistematicamente ignorato le questioni istituzionali, ci troviamo ora addirittura ad una rincorsa, in una chiave pero tutta tecnica che abbiamo sempre denunciato e disprezzato come ‘”ingegneria istituzionale”?

 

Per capire come ci troviamo a tutto questo bisogna andare al fondo del significato che per un sindacato ha e deve avere la cultura istituzionale.

 

Perchè se invece si resta nell’ambito di una accettazione acritica della cultura istituzionale come si stà facendo attualmente, si resta irrimediabilmente ingabbiati in una matri­ce che in quanto tale, è sempre di destra.

 

E” sempre di destra perché come ben sappiamo, lo Stato come lo conosciamo l’ha costrui­to la borghesia e questa cultura istituzionale e una cultura conserva­trice dei rapporti sociali e di produzione esistenti.

 

Proprio per ques­to, la cosidetta cultura istituzionale non è altro che una cultura “descrittiva” delle soluzioni istituzionali date sin quì solo ed esclusivamente in funzione dei rapporti e delle condizioni so­ciali esistenti e non anche in funzione di altre forme di rapporti sociali.

 

Quindi il cosidetto statalismo, che passa per essere una for­ma culturale imputata della sinistra, in realtà è una forma culturale della destra, perché lo Stato con le sue forme di potere dall’alto è nato, è stato fondato ed è cresciuto dentro una cultura di destra, dentro la cultura della borghesia dominante e possidente.

 

Ecco perché non é possibile per il sindacato intervenire su tali ques­tioni assumendo il terreno delle varianti istituzionale e giuridico di questa cultura che ripeto non ha saputo ne potutto esprimere altro che forme di potere dall’alto, di comando e dominio gerarchico, anzichè partire dalla propria natura e dalla propria teoria sociale e politica e quindi, come si è fatto alla Costituente per definire la nostra Costituzione, da va­lutazioni sociali e non giuridiche come sono quelle dei “tecnici” preposti all’ingegneria istituzionali per l’identificazione di varianti di una stessa forma di potere quale è appunto anche il federalismo, e a cui invece sempre più spesso anche il sindacato si affida.

 

Perchè a secondo di come ci si colloca, cambia radicalmente il segno delle questioni cosiddette

istituzionali” e, per fare un esempio di attualità, una questione come quella dei referendum sulla

proporzionale, se ci si colloca nell’ambito della tradizionale cultura istituzionale diventa anche nel migliore dei casi, solo una questione di difesa del pluralismo politico, quindi che riguarda prevalentemente i partiti e non invece anzitutto una questione di difesa del pluralismo sociale e della conflit­tualità di classe quale invece è e di cui la la proporzionale é il pluralismo politico e partitico sono solo gli strumenti.

 

Se si parte invece da un approccio sociale, teorico e pratico, la difesa della proporzionale diventa una questione propria non già soltanto delle forze politiche in quanto tali, come si è fatto sin quì, ma una questione di chi vuole difendere l’antagonismo sociale e un ruolo di un sindacato fondato sull”au­tonomia e il pluralismo, speculare é opposto a quello di chi, avendo scelto di abbandonare l’autonomia della lotta sociale e di classe del sindacato, ha sposato il terreno delle cosidette “riforme istituzionali'” e quindi in tal senso coerentemente dell”abbandono della

proporzionale.

 

Questo perche senza la proporzionale, che quanto più pura è tanto più favorisce questo, non trovano espressione coerente nelle assemblee elettive (che devono essere specchio della società come diceva Togliatti nell’illustrare la natura della Costituzione italiana) il conflitto di classe e il pluralis­mo degli interessi che vengono mortificati da una rappresentanza unica e non plurima e pluralistica di ogni territorio, cancellando così la natura sociale della rappresentanza e la forma pubblico-sociale delle istituzioni” a tutto vantaggio dello “statalismo” e dell’interclassismo aziendalista.

 

Sistema maggioritario e uninominale, elezione diretta del capo dello stato o del capo del governo o del sindaco, come pure l’introduzione del manager, la privatizza­zione del rapporto di lavoro pubblico, la nomina di ministri non parlamentari, il federalismo, la “concertazione” e la “democrazia economica”, ecc., sono tutte una varietà di formule e di soluzioni istituzionali “tecniche” e giuridiche che vanno in un unica e sola direzione univo­ca: quella della aziendalizzazione dello stato, del governo dall”alto sempre e comunque, che cancellano il sociale-territoriale, quindi anche il ruolo sociale del sindacato, sopratutto di quello di base.

 

Questo é tanto vero che gli “altri” queste cose le propongono tutte assieme.

 

Anche la modifica fatta del rapporto di lavoro nel pubblico impiego, non cambia solo il rapporto di lavoro, ma cambia la natura dello stato perchè sostituisce il diritto pubblico con quello privato, sostiuisce la Costituzione con il Codice civile, cioè con un testo giuridico che è quello a cui, ignorando il più possibile la Costituzione, fanno riferimento la Confindustria e le impresa e che proviene dalla Carta del lavoro del 1927: e allora ai voglia a rivendicare poi come lavoratori e come sindacato, che i servizi debbono rispondere ai finl sociali anziché alle logiche finanziarie ed economocistiche dei costi e dei ricavi.

 

Sono questioni vitali che riguardano, prima di tutto, il tipo di sinda­cato e di lotta sociale, prima ancora che i partiti che d’altra parte si collegano in modo diretto anche alla battaglia contro il ‘”sistema maggioritario” dei sindacati “maggiormen­te rappresentativi”.

 

Ecco quindi che diversamente dalla Confindustria e dalla borghesia che affida­no ai ‘”tecnici'” e ai giuristi il compito di individuare una varietà di soluzioni all’interno di una soluzione di potere univoca che é quella del governo dall’alto, per il sindacato si dovrebbe trattare di partire invece dalla natura sociale dei suoi scopi e dalle teorie sociali e politiche di trasformazione per identificare le strategie istituzionali più adeguate al loro conseguimento e per motivare la ragione di solu­zioni istituzionali che rispondano a motivazioni, scopi e obbiettivi di natura sociale e non tutte interne ad una natura giuridico-istituzionale.

 

Per identificare soluzioni che non siano tanto o solo di ricambio del personale politico, come si sente dire in modo persino patetico quando a dirlo sono dirigenti sindacali, ma di mutazione dei rapporti sociali, per averere non solo più partiti, ma per socializza­re il potere politico e le istituzioni statali, regionali e comunali che siano.

 

Si tratta dunque di definire prima di tutto la forma dello stato e la forma di potere e non di partire dalla forma di governo per moltiplicare la forma di governa fondata sul predominio dell’esecutivo sulle assemblee in tutti gli enti e organismi, ridistribuendo centralismo e verticismo anzichè democrazia e socialità delle istituzioni.

Questo, come dicono i francesi, è deconcentramento non decentramento e tanto meno è autonomia dei poteri. E il federalismo è, al massimo, proprio ciò: deconcentramento.

 

Perchè se lo Stato deve essere non già il cosidetto “Stato di diritto” liberale ne il cosidetto “Stato sociale” libral-democratico, ma bensì lo “Stato di democrazia sociale” definito e voluto dalla Costituzione antifascista, fondato sul lavoro, la giustizia sociale e l’uguaglianza, la forma del governo non può che essere quella fondata sulla democrazia consensuale e quindi sulla centralità del Parlamento e delle assemblee eletti­ve e perc ciò sul pluralismo sociale garantito dalla proporzionale.

 

Tutte cose queste che ovviamente stanno e vanno viste assieme senza pensare che si possa garantire il pluralismo sociale e la socialità delle istituzioni regionali o locali mantenendo delle forme elettorali proporzionali, ma cancellandone subito dopo la valenza sociale pluralistica della proporzionale con soglie di sbarramento eletttorale, con premi di maggioranza o forme dirette di elezione dei sindaci o del presidente della Regione. Oltre che di rinnegamento delle garanzie di pluralismo sociale e socialità delle istituzioni tali soluzioni potrebbero alla fine essere persino pericolose se non dimentichiamo che quella che era la Costituzione di Weimar a cui falsamente e strumentalmente viene associata la Costituzione italiana, ha fatto la fine che ha fatto non già perchè era troppo parlamentare e assembleare come si dice, ma perchè al contrario associava la forma proporzionale della rappresentanza con la forma di stato e di governopresidenziale, perchè la Repubblica di Weimar era appunto una Repubblica presidenziale e non parlamentare.

 

Perchè l’avanzato costituzionalismo contemporaneo della Costituente non assunse ne il presidenzialismo ne il federalismo.

 

Certo se invece non si vuole avere uno stato non di democrazia sociale, ma di tipo liberale e quindi autoritario, allora si può e si deve tornare ad avere, come nello Stato assoluto o nella Monarchia costituzionale, un Parlamanto e delle assemblee elettive che dipendano dagli esecutivi, che a loro volta dipenderanno da un “dictator“, cioè da un Presidente di Regione o da un Sindaco elettivo, o da un manager, che sono tutte forme presidenzialistiche, rispetto a cui il federalismo non è altro che una delle forme tecniche e funzionali a tale forma di potere autoritaria, che non è meno verticistica e centralistica se anzichè solo che nello stato centrale si attua anche nelle Regioni e nei Comuni, non meno che nei Lander o negli Stati federati.

 

Il federalismo, allora, non meno del presidenzialismo, è sempre stato respinto o non assunto dalla Costituente, nonostante che – il primo per bocca di Bobbio che già nel 44 propose gli Stati Uniti d’Italia e il secondo per bocca di Calamandrei – entrambi venissero proposti dall’interno del partito d’Azione, non solo perchè storicamente per il liberale Cattaneo il traguardo non era l’indipendenza ma bensi la rivoluzione capitalistica con provincie italiane autonome sotto l’impero degli Asburgo, ma perché non corrispon­dente e opposto ad uno stato di democrazia sociale, in cui il compito dei governi non deve essere quello di comandare ma di bensì servire gli interessi sociali.

 

Di piu. Il federalismo e incompatibile non solo con uno “Stato di democrazia sociale”, ma anche con uno Stato solo “assistenziale” altrimenti detto “Stato sociale”, come dimostra l”esempio degli USA, che non è certo uno “stato di democrazia sociale” come quello italiano, ma dove non c’e nemmeno il cosidetto “stato sociale'”, proprio perché il federa­lismo “rompe”, “divide”, “separa” i bisogno e gli interessi sociali – con forme apparenti di autonomia che sono in realtà autentica sudditanza al governo centrale dominato dagli interessi capitalistici unificati dei poteri economici – ognuno nel proprio ambito, in con­trasto con i principi di universalità e di uaglianza dei diritti e impossibilitati dal farsi valere sul governo centrale che controlla la formazione delle risorse e le scelte economiche determinanti.

 

Non a caso tutti i modelli sanitari e sociali piu avanzati hanno potuto affermarsi dove lo stato non era federale, come la Svezia e l’Italia.

 

Per tutte queste ragioni tutto cio che il sindacato stà dicendo sul terreno istituzionale, appare molto povero, debole, scarsamente motivato, oltre che sbagliato, come ciò che e stato detto a Genova alla riunio­ne dei direttivi regionali della CGIL del Piemonte, della Lombardia e della Liguria appositamente convocati non più per una connessione internodale delle lotte come si faceva una volta, ma per proporre una ipotesi organizzative federalistiche del sindacato, subalternamente modellate sulle forme istituzionali di uno Stato federale. Povero, debole e caratterizzato da autentiche forme di ripensamento-arretramento.

 

E che siano davvero ipotesi e progetti subalterni mi sembra chiaramente dimostrato dal fatto che ad esempio, mentre ancora solo pochi mesi fà in un precedente documento préparatorio dell’incon­tro di Genova, pubblicato anche su “Nota”, si parlava ancora ad immagine e somiglianza del Pds di cosidetto regionalismo forte, ora nelle relazioni presentate a Genova e senza che sia stata data alcuna spiegazione e motivazione, si è passati passati a pro­porre il federalismo, in coincidenza e sempre ad immagine e somiglianza del passaggio operato dal Pds verso il federalismo.

 

Difficile non pensare che tutto questo denunci un preciso limite di mancanza di autonomia dalle istituzioni e dai partiti e di subalterintà alla cultura istituzionalista dominante dei dirigenti sindacali.

 

Se ciò avviene è perchè in fondo, nonostante la diversa valenza sociale che dovrebbe caratterizzare il sindacato rispetto agli altri, si stà in realtà nella stessa logica istituzionalista ed affatto sociale e così, in nome di una idea giusta come quella di chi pensa che bisogna essere “propositivi” in mancanza di una capacità di proposte autonome pensate in relazione alla propria specificità sociale, questa giusta esigenza diventa accettazione e proposta di cose d’altri, diventa una propositività che stà tutta sul terreno della cultura istituzionalista e non della cultura sociale del movimento operaio e sindacale.

 

Ciò che manca è proprio ciò che più servirebbe, ossia l’autonomia di un approccio sociale del sindacato sulle questioni delle istituzioni, come è facilmente documentabile se si analizzano i testi dei progetti costituzionali presentati in Parlamento per un cosidetto nuovo rapporto tra Stato e Regioni.

 

Da questo esame diventa facile capire quanto lo stato federale sia la struttura più centralis­tica

che si possa immaginare : sia perché centralizza verso il nazio­nale tutti i poteri reali, sia perché centralizza nel neo-verticismo regionale poteri e competenze dei Comuni e,dunque, anche delle organiz­zazioni sociali di base (Consigli di Fabbrica, organismi di zona, ecc.), cioé di tutte quelle cellule di base che stanno alla democrazia come la scuola di base sta all’istruzione.

 

Nel mentre ci si preoccupa giustamente, del superamento del centralismo nazionale, mostrando di non sapere bene comprendere che cosa è realmente il federalismo e di non saper bene dominare e capire le questioni istituzionali, si imbocca una strada ancor piu centralistica.

 

Questo è anzitutto conseguenza del limite culturale di chi non vuole usare o non sa usare – come é accaduto per tutti gli anni 80 – il potere locale. E infatti nello stato federale il potere locale non c’e se non inteso come terminale residuale di poteri veri che stanno altrove: nel mentre quindi proprio in nome del carattere terminale che hanno i poteri locali si motiva – come ha fatto ad esempio la relazione di Terzi – la necessità di passare ad uno stato federalista, si propone il federalismo che per sua natura determina il carattere residuale del potere locale.

 

Al contrario senza una centralità effettiva dei poteri locali non si puo riformare nessun potere centrale sia

nazionale che regionale. Questo è’ sempre stato l’aspetto fondamentale di decennali battaglie per la riforma delle autonomie locali e dello Stato tradita dalle legge di “riforma” delle autonomie del ’90.

 

Se infatti il locale viene inteso solo come territorio e non anche come poteri, allora il sociale non c’è, scompare e viene meno la natura sociale delle istituzioni e anche del sindacato che per definizione non puo che essere sociale.

 

Proprio grazie a questo grave limite culturale, proprio nel giorno del seminario di Genova, D’Antoni su “Il Giorno” ha potutto assimilare quello che è un Paese, una società e una nazione ad una “azienda Italia”. Non diversamente però da quello che Sabbatini proponeva nel suo documento, a Genova, esattamente all’ultima pagina: perchè suporre come fà in quel documento Sabbatini, che una struttura sindacale debba avere l’utile, indi­ca chiaramente che non si pensa più al sindacato come ad un soggetto sociale, ma bensì come ad una azienda.

 

Il locale, diversamente da ciò che avviene, è insomma il punto da cui si deve partire per fare una battaglia che voglia veramente trasformare, superandolo, il Centro regionale. Perche la Regione é territorialità essa stessa e senza il Comune non c’e nemmeno la Regione.

 

Ma se così è, allora non basta, anzi e sbagliato concepi­re, come si fà con i progetti federalistici, la Regione come un territorio, come una gigantografia sostitutiva dei Comuni pensando così di essere come Regione più forte. Si e invece piu deboli.

 

Per essere più forti non basta rivendicare di rappresentare un terri­torio, ma bisogna mettere dentro e riconoscere in quel territorio i poteri territoriali istituzionali, sociali, politici, le strutture di democrazia di base, di partecipazione dal basso, i distretti, ecc.

 

Al contrario è proprio dalla negazione del riconoscimento dei poteri territoriali – negati dal verticismo della Regione e dalla sua incapacita di rappre­sentare in sede nazionale gli interessi sociali nazionali delle comunità locali – che esplode il medioevo comunale, di cui il federalismo rappresenta una risposta falsa e demagogica.

 

Falsa e demagogica in quanto il problema di quello che una volta si chiamava anche “campanilismo“, che era tipico del sitema di potere democristiano, non é risolvibile sostituendo un Centro con un altro Centro, o facendo più centralismi, ma è risolvi­bile solo rompendo tutti i centralismi (anche quelli di un Comune o se vogliamo anche di un Consiglio di fabbrica, perchè la natura del centralismo non e data dal livello in cui si colloca, ma dalla natura del rapporto con la base sociale che si determina) con la democratizzazione e la socializzazione di tutti i poteri, da quelli comunali, a quelli regionali e statali centrali (nonchè dei partitti e dei sindacati)

 

Anche per questo non ci può essere ne un Centro-regionale ne un Centro-nazionale, capaci di corrispondere alle comunità locali, se le comunità locali e sociali non possono concorrere alla formazio­ne di un nuovo centro, con un potere che abbia delle freccie direzionali che vanno dal basso verso l’alto e non solo dall’alto verso il basso.

 

Nel federalismo le freccie vanno tutte e solo dall’alto verso il basso, anzi, é la forma piu compiuta e sofisticata di un vero potere dall’alto. E lo si può vedere immediatamente.

 

La vera garanzia è l’autonomia nell’unità della Repubblica non il deconcentramento federalista del potere centralistico

 

Si e detto che con il federalismo si decentrano i poteri : é un falso.

Al di là del senso comune ideologico accettato anche a sinistra, il federalismo non è una forma di decentramernto ma una forma di verticismo e di centralizzazione dei poteri

 

Per vedere questo bisogna prendere in mano, leggere e analizzare i progetti per vedere in specifico quali sono le forme effettive dei poteri istituzionali di uno stato- federalie.

 

Basta andare a vedere ad esempio che cosa si dice, dal punto di vis­ta dell”organizzazione dei poteri, in merito alla riforma” in senso federale dello Stato nelle proposte di Legge costituzio­nale presentate in Parlamento ed in discussione alla “Commissione Bicamerale” per le riforme istituzionali.

 

Le dettagliate forme di potere centralistico e verticistico delle proposte costituzionali di “riforma” dello Stato in senso federale.

 

All’articolo 3, la revisione dell’articolo 70 della C., prevede che “politica estera, commercio con l’estero, relazioni internazionali e della Comunità europea” restano tutte e solo competenze dello stato-centrale, quindi anche tutta l’economia perchè tutto quanto si rife­risce a Commercio estero e alla CEE è parte centrale della economia.

 

E infatti, nei punti successivi si dice che tra tutto il resto, “resta­no allo stato-centrale, bilanci di previsione e consuntivi; contabili­ta di stato; moneta, attivita finanziaria e credito sovraregionale; tri­buti statali; politiche energetiche e industriali”, quindi si dice che tutto quello che – oltre al Bilancio centrale – VINCOLA TUTTI GLI ALTRI SOGGETTI REGIONALI, E’ COMPETENZA ESCLUSIVA dello STATO CENTRALE .

 

Addirittura le politiche energetiche che sono state oggetto di tante lotte e iniziative per fare avere ai territori comunali e regionali i po­teri di elaborazione e proposta per Piani energetici territoriali, vengono sancite come esclusiva competenze nazionale, del resto in conformità a quella visio­ne delle materie di “interesse nazionale” che già all”epoca di Cernobyl, contrappose al Centro nazionale gli enti locali sulla questione delle Centrali nucleari, contro l’articolo 8 della Legge sull’energia: articolo che difeso dalla lobby nucleare, non poté però impedire l’opposizione delle comunita locali perché palesemente l’ordinamento costituzionale non federale dell’Italia, prevede la sog­gettivita dei poteri locali anche nelle materie d’interesse nazionale tramite la programmazione economica democratica perchè in uno stato autonomistico e non federalistico come quello della nostra Costituzione i poteri locali sono Stato essi stessi, senza quindi con ciò cadere nello statalismo.

 

Viceversa l’Italia in questa revisione federalista si omologherebbe alla Francia e anche i poteri e le popolazioni locali del nostro Paese, una volta che si è deciso al Centro, non potrebbero fare altro che uniformarsi e subire.

 

Ancora, nello stesso articolo 3, si prevede che ricerca scientifica e tecnologica, istruzione universitaria, e così via sono solo di competenza nazionale.

 

Quando poi, una volta tolto tutto quanto sopra, si arriva dire che “La Regione ha competenza 1egislative in ogni altra materia” ci si riferisce appunto nient’altro che al contorno residuo.

 

Ma anche per il contorno residuo – coerentemente con la divisione tra questioni locali e questioni nazionali tipica dello stato federale e quindi la loro identificazione secondo un ordine di importanza gerarchica che non può non vedere le questioni nazionali e generali al di sopra di quelle locali -, si dice che però “Lo stato, anche nelle materie di competenza delle Regioni, puo fissare con leggi organiche i “principi fondamentali delle funzioni che attengono alle esigenze di carattere unitario“.

 

INSOMMA IN UNA RIFORMA FEDERALISTA DELLO STATO, LA CENTRALITA’ DEL POTERE NAZIONALE VIENE CONSOLIDATA E IN PIU’ LO STATO, ANCHE NELLE MATERIE DI COMPETENZA DELLE REGIONI, PUO’ FISSARE TUTTI I VINCOLI CHE VUOLE.

 

All’articolo 11 in materia “di revisione dell’articolo 117 della C.” tante volte sbandierato come fulcro del centralismo antiregionalista, ecco cosa si dice:

 

La Regione emana le leggi nelle materie che non sono riservate alla competenza legislativa dello Stato. La leg­ge regiona1e (però,n.d.r.) rispetta i principi fissati dalle leggi organiche. Le leggi organiché vincolano le Regioni…

 

E affichè tutta sia ancor più forte e chiara la subalternità della Regione allo stato-centrale si aggiunge

Le norme della legge regionale non devono essere in contrasto con l’interesse nazionale o con quello delle altre Regioni“.

 

Insomma, in questo articolo ciò che si rafforza non è altro che il concetto che la Regione, anche in materie in cui può emanare delle Leggi DEVE “rispettare” il “Centro” e si vincolano le Regioni e TUTTE le nor­me regionali, che non possono mai essere in contrasto con il “Centro”.

 

Proseguendo, all’articolo 12, in materia di revisione dell’articolo 118 della C. ,

si può vedere che il carattere centralistico del federalismo si riproduce a tutti i livelli.

 

Infatti all’articolo 12, in materia di competenze non riservate allo Stato e che spettano a Regioni, Provincie e Comuni, si dice che :

La legge regionale attribuisce alla Regioni le funzioni amministrative di indirizzo, di coordinamento e di intervento che attengono alle esigenze di carattere unitario re­gionale; attribuisce alle Provincie, ai Comuni o ad altri Enti locali le funzioni amministrative di interesse locale“.

 

Nel rapporto tra Regione ed Enti locali si ripete insomma lo stesso schema “sovraordinato” che lo Stato si attribuisce rispetto alle Regioni, attribuendo alle Regioni un ruolo “sovraordinato” rispetto agli enti locali comunali e provinciali.

 

Lo schema centralistico del federalismo, viene quindi duplicemente affermato:

1) dal primato del nazionale sul regionale;

2) dal primato che dal nazionale viene poi riportato anche in capo alle Regioni sugli Enti Locali.

 

E’ insomma il nuovo centralismo regionale, centralismo di cui ci siamo la­mentati fin qui e che fa dipendere gli enti locali (e con essi il sociale territoriale) dai poteri centrali.

 

Enti locali che cosi non sarebbero piu dei “soggetti generali”, come vuole la nostra Costituzione, in grado di fare valere le esigenze e i diritti sociali delle proprie comunità, come era ad esempio è stato fatto nel caso delle cen­trali nucleari, ma che “amministrano” sul proprio territorio quanto deciso dalle Regioni con il loro potere d’indirizzo, Regioni che a loro volta decidono sulla base di quanto determinato con il suo potere d’indirizzo dallo Stato-nazionale inteso come governo-centrale: insomma un vero e proprio e autentico statalismo, la forma più esasperata cioè di centralismo.

 

Quindi il federalismo non solo “esalta” apparentemente le Regioni solo sulle questioni “non centrali” – mentre le questioni centrali che sono le più importanti, viceversa, gli restano tutte sottrate –

ma centralizza tutto anche nel proprio ambito regionale a danno del sociale territoriale ed in ogni caso, impedisce che ci sia una effettiva funzione di governo della Regione.

 

Perche anche l’illusione che il dare alle Regioni solo delle competenze nel campo del lavoro, possa rafforzare un ruolo della Regione e del sindacato in materia è destinata a cadere subito, una volta che si vede che, ad esempio, l’art. 39 della Costituzione sul sindacato resta e rimane in capo allo stato-centrale come prevede anche l’articolo 11 della Legge costituzionale e che per di più ci resta assieme a tutti i “diritti pubbli­ci soggettivi” previsti dagli articolo che vanno dal 13 al 21 e dal 39, 40 e 51 della Costitutzione, è evidente che anche dare delle competenze alla regione nel campo del lavoro non conta più nulla.

 

Quindi si deve dire e sapere che tutte le questioni più strettamente del sindacato restano allo Stato centrale e affermare che con le proposte federaliste si danno delle competenze alla Regione nel campo del lavoro è cosa che a questo punto non conta quasi piu niente.

 

E questo oltretutto, è in più e và aggiunto al fatto che il lavoro, e la possibilità di un ruolo in materia, è in ogni caso comunque cancellato, una volta che l”economia, tutta l’economia resta al Cen­tro come è ovvio e inevitabile che sia anche e sopratuto in uno Stato-federale che distingue tra quelli che sono interessi locali,cioè di serie B e interessi nazionali, cioè di serie A.

 

Il concetto di cosidetta “autonomia” dello Stato federale – che in realtà è solo DECONCENTRAZIONE DELLA FORMA DI GOVERNO DALL’ALTO – è infatti corrisponden­te a quello storicamente datato dall’ideologia liberale del dicianno­vesimo secolo e vigente anche negli Stati Uniti, secondo cui lo Sta­to tiene al compimento delle funzioni nazionali e divide il potere pubblico con autorità locali in base alla definizione e alla antitesi fra interessi nazionali e interessi locali, in cui la logica del decentramento federale (cioè di un Centro che continua a restare tale ma si decentra sul territorio: decentramento sono anche le Prefetture e tutte le miriadi di Enti centrali decentrati sui territori che da decenni si chiede di abolire per fare una rifoma democratica dei poteri dello Stato) è quello della limitazione e delimitazione del ruolo del governo locale secondo i bisogni dello Stato.

 

E’ appunto quello statalismo-federalista che è l’opposto di un potere affetivo delle autonomie. E’ quello statalismo che invece veniva rovesciato e cancellatto dalla prima, unica e soppressa Riforma amministrativa dello Stato italiano, la Riforma della Sanità in cui il Servizio Sanitario pur essendo Nazionale non era “statale” ma bensi “comunale”, come deve essere un veramente riformato potere nazionale e regionale dello stato, cioè in cui i poteri locali cambiano il potere nazionale e regionale portando a livello nazionale le istanze e i bisogni sociali del proprio territorio e concorrendo a determinare dal basso tutte le scelte e le decisioni nazionali, in tutti i campi ed in particolare in quello dell’economia, senza che gli vengano sottratte le questioni cosidette di interesse nazionale per essere relegati in quelle di cosidetto interesse locale (come se le questioni di interesse nazionali non interessano e non ricadono sulle comunità locali) e quindi senza venire confinati in riserve indiane comunali, provinciali o regionali: proprio per combattere il paradigma di una nuova forma di potere nazionale fondato sul potere dal basso delle autonomie locali che era in essa contenuta la Riforma sanitaria è stata sabotata dai suoi avversari e subito abbandonata dai partiti di sinistra e dai sindacati fino al punto che alla Riforma è stato praticamente persino impedito di entrare in funzione: segreterie di partito e di sindacato non meno che le oligarchie del potere economico e istituzionale non potevano evidentemente non temere una legge che istitiuzionalizzava una forma di potere che metteva in discussione il predominio degli esecutivi sulla base sociale.

 

Insomma per tornare al punto, la logica del decentramento federale prevede un “Centro” che si nutre della disocciazione delle Regioni e in cui, quindi, il governo-regionale non è altro che l’iterfaccia funzionale del centralismo ed è centralismo esso stesso.

 

Il federalismo risulta cosi essere quella cosa per cui ti si dice che formalmente nella tua “stanza”, ben delimitata, puoi fare quello che vuoi (sei autonomo diceva Sabatini nella sua relazione a Genova) ma, intanto, puoi solo dedicarti all’arredo e ai giardinetti del territorio regionale e locale e prenderti cura – ma solo in qualche caso e in modo subalterno al Centro – dei servizi ma assolutamente mai dell”economia.

 

Ma poi non se guardi bene ti accorgi che non puoi fare nemmeno quello per cui ti si dice che puoi fare come vuoi, perche non hai i soldi per comperare i “mobili” ne per fare i giardinetti, perché appunto con l’economia tu non centri niente e quindi non controlli ne la forma­zione delle risorse, ne gli investimenti e non puoi fare niente.

 

Abbiamo visto del resto tutti il paradosso di un anno fà quando la California, lo Stato più ricco dello Stato foderale americano, era paralizzata dalla mancanza di risorsé e sul punto di chiudere tutti i suoi uffici pubblici e strutture di governo.

 

Cosi come ad esempio vediamo tutti che nell’ex Urss, lo scontro tra Parlamento e governo è su chi deve controllare la Banca Centrale. Perchè tutti sanno che già solo il controllo della moneta è decisivo del controllo su tutto, fuguriamoci poi il controllo di tutta l’economia, della politica industriale, del credito e della finanza. Eppure i cosidetti sostenitori del rafforzamento del federalismo dicono che rinunciando a tutto questo e regalandolo come competenza esclusiva dello stato-centrale, sarà più forte il ruolo di governo-regionale: in pratica solo perchè anche la dirigenza regionale potrà disporre più ampiamente e liberamente di macchine blù e intrattenere qualche rapporto diplomatico di piacere con la Comunità Europea, mentre le politiche di governo vere, comprese quelle europee, verranno ancor più di oggi concentrate nelle mani del governo centrale, senza dover più sopportare che come qualche volta in passato le Regioni e il “Fronte dei Comuni” possano metterci il becco.

 

D’altra parte, forse che l’integrazione europea non viene giocata e costruita sul potere della Banca Centrale Europea ? Come si fà quindi a dire che si rafforza il ruolo di governo della Regione quando si sancisce istituzionalmente che tutto quanto è moneta, finanza ed economia è, come non può non essere, competenza esclusiva del Centro con tutte le restanti istituzioni zitte e buone, ?

 

Banca centrale, che tra l’altro Mastricht prevede non debba rispondere a nessuno per agire, come è


nella natura del capitale, fuori da ogni criterio di socialità, in tal modo rendendo residuali, marginali e subalterni la cosidetta ­”Carta sociale europea” e tutti coloro che come sindacato e i partiti di sinistra si “rin­chiudono” nella limitatezza della sua rivendicazione.

 

I testi di legge che abbiamo qui esaminati, sono un esempio incontrovertibile di ciò che è stato discus­so alla Camera e di come è centralista una impostazione federalista dello Stato fuori dalla propaganda degli uni e dall’ignoranza degli altri che ritengono che il federalismo rafforzi l’autonomia e i poteri delle autonomie.

 

Viceversa, quando si passa ad esaminare in concreto le forme isttiuzionali e di potere del federalismo si può ben vedere che quelli che hanno in mente lo Stato federalista hanno una linea in cui si dice e si specifica più volte che: – le Regioni stan­no nei limiti delle Leggi organiche dello Stato nazionalmente decise;

i diritti pubblici e soggettivi previsti dagli articoli che vanno dal 13 al 21, 39, 49, 51, della Costitutzione (tutte cose che riguardano anche la contrattazione) stanno tutti al Centro e alla sua competenza, anche perché, in realtà, si vuole che a disciplinare la contrattazione e i diritti, sia in realtà le CEE. Altro che ruolo di governo delle Regioni nello stato federalista!

– la previdenza sociale, la tutela e sicurezza del lavoro stanno tutti al Centro nazionale.

 

ll che significa pratica­mente – quando si parla di tutela – che tutto il “lavoro” è, al di la delle apparenze, sottratto alle Regioni.e che quindi, oltre al 39 – es­plicitamente proclamamato – anche le materie degli art. 35, 36, 37, 38 che sono i diritti alla retribuzione, quelli della donna, degli ina­bili e marginalizzati sono tutti di competenza centrale-nazionale.

 

Si puo sfidare quindi ogni dirigente sindacale a chiedersi che cosa e quanto del lavoro possa restare in uno stato federale alla competen­za della Regione, oltre al fatto che gia di per sé, separato dall’eco­nomia, il lavoro é comunque negato.

 

Tutto questo meccanismo centralistico e di ripartizione sovraordina­ta delle competenze,

si riproduce parimenti, come in un gioco di spec­chi, nella definizione dei poteri ai vari livelli del sindacato.

 

Il documento presentato a Genova da Sabattini, riproduce e recepisce sostanzialmente, appunto, lo schema dello stato federale presentato alla Camera dal Presidente della Commissione affari costituzionali, Labriola, ripresentato all”inizio di questa legislatura e ora in­corporato nel Disegno di legge della Commissione Bicamerale.

 

Lo si riporta nel sindacato proprio la dove si parla – nel documento di Sabattini – delle “Competenze e poteri della CGIL” ( pag. 5,6,7 ) ma che in realtà altro non sono che le competeuze dello stato federale.

 

In quelle pagine si dice infatti che la politica fiscale, quella monetaria e industriale (cioé tutta l”economia), è competenza del sin­dacato centrale-nazionale, mentre tutti i poteri residui della CGIL regionale devono, comunque, stare dentro a quanto definito a livello nazionale, mentre a loro volta quelli delle CGIL territoriali devono stare dentro le compatibilita e gli indirizzi del centro regionale, in una strut­tura piramidale in cui i poteri funzionano e vanno solo dall’alto al basso.

 

Diventa così equivoca tutta la contrattazione decentrata, anche quan­do si prevde che, anche per la sanità ecc., è il livello nazionale il solo competenté a negoziare parametri, criteri, standard, rimettendo agli organismin decentratt’, solo la gestione dell’applicazione per ottene­re “migliori condizioni”(?) che, a quel punto, non si possono piu otte­nere.

 

Anche per cio che concerne i diritti sindacali, ecc., stà scritto che tutto deve essere stabilito a livello nazionale, lasciando al “locale” la possiblità, si dice, di “evoluzioni positive” che sono invece impossibili per i vincoli che vengono predeterminati nazionalmente.

 

Addirittura viene prevista una prassi che é tradizionale di ogni for­ma autoritaria e di potere dall’alto, quando si garantisce la riserva “al livello superiore” del sindacato di intervenire su “quello infe­riore” che dovesse “sbavare”. Altro che autonomia di ogni livello.

 

Il meccanismo che quindi si pone in essere con la logica delle propos­te federaliste, si coniuga e spinge a sua volta, sotto il profilo contrattuale, nella direzione della vecchia proposta della Cisl, che insieme alla istituzionalizzazione centralista e di un sindacato dei soci che “concerta” triangolarmente con governo e confinduntria sta­bilendo “tetti”, “compatibilita’” e ‘”vincoli” nazionali, prevede due livelli di contrattazione : uno a livello “macro” del contratto confederale e nazionale, e l’altro, a livello “micro”, del contratto d’impresa.

Dove però quello d’impresa permette solo di dire che da una politica del reddito altamente centralizzata, si passa ad una politica del reddito aziendalista. In cui pero, oviamente, quella aziendale stà tutta dentro quella centrale, perché una é il progetto generale e l’altra è al massimo, puro e semplice scambio con la produttivita.

 

In tutto questo quadro, come si vede, cio che risalta sono solo i vincoli che impediscono sia alle istituzioni che alle organizzazioni sindacali non centrali, la possiblità di esprimere una effettiva soggettività e rappresentanza sociale che, dal basso verso l’alto, possa determinare scelte nazionali che democraticamente partano dai biso­gni e non coercitivamente dall’alto dai vincoli, di bilancio e di spesa.

 

Quello che torna in questo modo a riproporsi con grande attualita non é quindi il tema del fe­deralismo o della codificazioné di modalita sperimentate anche con l’accordo del 31 Luglio (e in questo quadro di proposte si vede che l’abolizione della contrattazione articolata firmata in quell’accordo perde i connotati di un “incidente'” che taluni hanno cercato di dargli), ma è viceversa il tema urgente di riformare democraticamente lo stato, a partire dalla riforma democratica del sindacato e dei partiti con l’abolizione del centra­lismo e del verticismo di tutti gli esecutivi, per rilanciare finalmente la democrazia di base.

 

In ogni caso, se al di la delle modalita di cui parliamo, vi è un comune e sincero interesse ad affermare, realmente, una rottura dei meccanismi centralistici dello Stato per rilanciare i poteri auto­nomi e territoriali locali e regionali, basterebbe indicare che sono le Regioni che si riuniscono tra loro e fanno un Piano che comprenda le questioni della moneta, del credito e del fisco nel quadro europeo e fanno la programmazione economica.

Gia questo sarebbe un segno effettivo di una volontà per rovesciare gli indirizzi centralistici della gestione delle politiche economiche che invece nel quadro delle indicazioni federaliste verrebbero definitivamente sanzionate e legittimate

 

Insomma, per rilanciare la riforma democratica dello stato, al contrario delle “riforme istituzionali”, si deve rilanciare la questione dell’economia e dei sistemi di controllo sociale e politico.

 

Trattasi di cosa opposta a quella di chi come Terzi, nella sua relazione a Ge­nova, ha posto il problema della Regione e dei comuni (che sarebbero troppo piccoli, mentre al contrario il vero ostacolo alla programmazione e alla democrazia sono i Comuni troppo grandi) nei termini di una ricerca di una dimensione ottimale. Il punto é: ottimali per che cosa?

 

Se la dimensione ottimale è quella gigantografica, non è certo per farne dei soggetti della programmazione economica ge­nerale come dovrebbe essere. Perchè se davvero si pensasse ad un processo programmatorio, allora la questione della dimensione non si porrebbe perchè questa viene superata dalla partecipazione di tutti alla definizione della programmazioné nazionale, rispetto a cui la piccola dimensione, lungi dall’essere un ostacolo, diventa un vantaggio per favorire il coinvolgimento delle popolazioni nel censimento dei bisogni, nell’esercizio da parte di tutti del potere di proposta e nella verifica del rapporto tra uso delle risorse e bisogni sociali.

Viceversa la dimensione ottimale viene citata come necessaria perchè non si pensa di intervenire sull’economia, ma solo “per esercitare davvero le funzioni amminis­trative e dei servizi fondamentali”.

 

L‘arretramento-ripensamento della posizione sindacale è vista dunque esclusivamente in rapporto alla gestione dei servizi, dando per scontato che l’economia é materia dello stato centrale, rispetto a cui non si dovrebbe intervenire nell’unico modo che è possibile: con sistemi di programmazione che dal territorio e dai Comuni, attraverso Province e Regione, arrivino a determinare le scelte economiche nazionali e poi anche quelle europee e internazionali, in base alle valutazioni dei bisogni del territorio-sociale locale.

 

Non é un caso che in tutto il quadro di queste proposte federaliste che sono state avanzate non si parla mai dell”Europa.

 

E non si parla dell’Europa perché se si richiama il carattere di integrazione dei sistemi economici e poi politici, sia europei che mondiali, non si puo fare a meno di valutare come la dimensione locale e ambientale delle politiche economiche, di quelle industria­li, di quelle agricole, di quelle sociali, non si fermano e non possono essere affrontate in una dimensione regionale, ma bensi solo in un contesto statal-nazionale, che è però a sua volta condizionato dal carattere extranazionale e sovra­nazionale del sistema di relazioni.

 

Proprio la dimensione europea e internazionale dei problemi che porta ad escludere il “separa­tismo” federalista o regionalistico e ad esigere il rilancio e la piena attuazione di uno “stato delle autonamie” come è previsto dal­l’ordinamento costituzionale, perchè solo in tale sistema è possibile non escludere le comunità e i poteri locali da una partecipazione piena ed effettiva alla determinazioni delle scelte nazionali ed internazionali sia nelle sue sedi centrali che nelle sue proiezioni sovranazionali.

 

Le autonomie locali costituiscono il filo rosso che sottende tutta la forma istituzionale post-fascista e proprio il non aver riconosciuto ad esse il ruolo di soggetti della programmazione nazionale stà li a ricordarci che le Regioni non sono decollate non solo e non tanto perché sono state concepite come un’articolazione subalterna allo stato centrale, ma perche le Regioni stesse, di loro iniziativa, hanno tradito un loro ruolo effettivamente avanzato, nel momento stesso in cui hanno rinunciato ad esprimere la propria soggettivita nella “programmazione nazionale”, rinunciando a rappresentare presso lo stato centrale gli interessi e la volontà dei poteri e delle comunità locali e finendo invece con il gestire sul proprio territorio gli interessi e i poteri del governo nazionale.

 

In quanto che i Comuni, in una “Repubblica delle autonomie”, sono “Stato” essi stessi e come tale devono concorrere alla determinazione delle politiche generali del Paese e non subirle come è avvenuto e come avverrebbe ancora di più se da soggetto generale della programmazione nazionale, come costituzionalmente sono, venissero ridotti al rango di soggetto interessati solo a questioni di carattere locale gerarchicamente e inevitabilmente subalterni a chi detiene invece tutti i poteri nelle scelte relative alle questioni di carattere nazionale, scelte che potrebbero solo subire senza poter far valere ne la propria voce ne quella delle comunità sociale.

 

Viceversa solo dando effettiva attuazione alla forma costituzionale – che è anti-federalista e di “Repubblica delle autonomie” è possibile concepire un ruolo dei Comuni e delle Regioni anche nel-campo delle politiche economiche altrimenti esclusivamente delegate al del governo centrale, cioè allo statalismo.

 

Una unità nazionale non centralistica a statalista ma dal basso, articolata ma non separata, é la sola possiblita che si offre per poter far pesare e contare, per il tramite dei poteri comunali, provinciali e regionali, il sociale-territoriale nelle decisio­ni economiche, monetarie, creditizie, finanziarie, industriali e di commercio internazionale che, necessariamente, non possono essere che nazionali prima e sovranazionali poi e non certo regionali: ragion per cui la Regione autonoma sarebbe una gabbia che escluderebbe le comunità locali dalle scelte che più contano.

 

Questo ancor più oggi e proprio perchè il carattere extranazionale delle relazioni – che invece si invocano per giustificare forti poteri di decisione centrali e nazionali – sollecita a per­correre politiche di programmazione democratica e a realizzare sistemi programmatori che dal territorio-sociale devono arrivare agli enti locali, da questi alle Regioni e dalle Regioni agli organismi nazionali e poi alle loro proiezioni internazionali, che permettano di fare rientrare tutte le esigenze, quelle economiche come quelle sociali e ambientali del territorio (che é “luogo di vita e di produzione”), come parte costitutiva delle politiche economiche e di sviluppo che vengono decise nelle sedi

nazionali e interna­zionali.

 

Altrimenti, all’opposto, verrà legittimato ciò che contro la Costituzione avviene oggi, con scelte che vengono determinate dai centri bancari, finanziari e in­dustriali del capitalismo internazionale, e che poi vengono calate sul governo nazionale (che è così in realtà pure lui ‘”dipendente” come dimostra palesemente il fatto che va a farsi legittimare i suoi provvedimenti dagli orga­nismi internazionali (siano essi il G7, le Commissioni e le Banchs europee, il F.M.I.,la Banca Mondiale), da questo sulle Regioni e infine dalle Regioni sui Comuni e sul territorio. Da qui le esigenze della governabilità, della stabilità e del rafforzamento dell’esecutivo di governo di cui abbisognano i centri di potere e i mercati del capitale finanziario che non sono a caso, per l’appunto, sono per il federalismo.

 

E’ in questo modo si determina la dipendenza dei territori e dei bisogni sociali che in essi vivo­no, dal carattere aprioristico del sistema di profitto, del sistema di intermediazione finanziaria e dagli interessi privati capitalis­ici che, oltre a tutto, possono persino non essere produttivi ma solo speculativi.

 

Se quindi si parte dalle questioni dell”economia e non dai servizi – dal carattere pubblico del sistema di accumulazione e di risparmio e dall’intervento dello stato nell’economia e nella produzione e non solo nello “stato sociale” e nella riproduzione – il problema diventa subito di come si fa a intervenire sulle grandi imprese, sul sistema finanziario e bancario, sulle politiche monetarie e indus­triali e si vede immediatamente che ciò non é risolvibile nell’ambito della legislazione regionale. Con questa infatti si puo intervenire al massimo con politiche di supporto alla piccola e media impresa.

 

Tenendo invece conto dei processi produttivi si capisce come non è possibile pensare che ogni Regione regoli da sola tali questioni e possa ritagliare porzio­ni del sistema produttivo, assumendo la territorialità come un criterio per avere una ‘”esclusiva” in materia.

 

Ecco allora che se non si vuole che tale esclusiva economica res­ti solouna questione dello

Stato-centrale e dei poteri economici tutti fortementi accentrati, occorre – non tanto una potestà regionale e un deconcentramento o “autonomismo” regionale – una iniziativa legislativa della Regione non tanto per riformare gli articoli 117 e 118, ecc. della C., ma per riformare e decentrare la Banca d’Italia, le Partecipazioni Statali (che vanno democratiz­zate e non privatizzate) l’Istat e i sistemi informativi.

 

Se davvero si è sinceri nella volontà di rompere con il centralismo statalista, come mai nessuno propone questo uovo di Colombo della rottura del vero fondamento centralista del potere di uno stato: il potere monetario, finanziario e industriale, insomma il potere nell’economia.

 

Tutte cose che invece, quando la contrattazione si richiamava ai “contratti riforma, proprio il sindacato aveva cominciato a strappare con un impegno – poi vanificato perché abbandonato dal sindacato – già assunto dalla Banca d’Italia, per il decentramento dell’Istituto di emissione.

 

E una iniziativa legislativa e contrattuale che oltre alla riforma della Banca d’Italia, delle PPSS e dell’Istat, realizzi la riforma tributaria e della finanza centrale e decentrata nel contesto del sistema autonomistico costituzionale che escIude che si possa concepire il potere impositivo di regione e comuni come tributi aggiuntivi stante, diversamente dal federalismo, il carattere articolato ma unitario del sistema istituzionale dello stato autonomistico e del suo sitema tributario.

 

Chi poi ha davvero un sincero interesse ad una rottura dei meccanismi centralistici dello Stato per realizzare un effettivo potere di intervento e di proposta dei poteri locali e sociali non può non proporsi l’abolizione della legge finanziaria che é la forma centralistica di subbordinazione di tutta la legislazione economica e so­ciale ai tetti di Bilancio e di affermazione di una visione tutta aziendalistica e centralistica dello stato.

 

Riasumendo, le riforme di cui dovrebbe occuparsi un sindacato se si pone davvero il problema di rafforzare i poteri d’intervento dei lavoratori e degli enti locali e regionali nel campo dell’economia e del lavoro e non solo per una gestione residuale e passiva dei servizi, sono:

 

– Riforma, democratizzazione e decentramento delle lstituzioni del sistema bancario, del sistema produttivo e di del sistema informativo pubblico; abrogazione della “dittatura finanziaria” del Centro statale attuata con la legge finanziaria e con il sistema tributario accentrato;

 

– attuazione degli Statuti regionali (e non una loro controriforma in senso federalista e presidenzialista come è stato proposto da una “Commissio­ne di esperti” della Regione Lombardia coordinata da Onida e come ha riproposto Terzi nella sua realzione), per fare della Regione non la sede del decentramento amministrativo del governo nazionale, ma il soggetto che partecipa alla programmazione economica nazionale;

 

– riforma della Legge 142 sulle autonomie locali coerente con quanto sopra;

 

Riallacciandoci con quanto detto all’inizio in merito alla necessità di una analisi di classe delle questioni istituzionali da parte del sindacato, anche questi aspetti non vanno visti come problema istituzionale dei partiti, ma come esigenza di rilanciare il ruolo autonomo e democratico sociale del sindacato di base attraverso il rilancio dei poteri locali territoriali e la riforma dei partiti e del sindacato (anziché la riforma del “sistema politico” ed elettorale) il cui centralismo verticistico è la concausa del fallimento del decentramento.

 

Come già rivendicato negli anni 60, 70 e una parte degli 80, una grande riforma sotto il profilo istituzionale, deve consistere anzitutto nel trasferire dallo Stato alle Regioni e dalle Regio­ni agli Enti locali, tutte le attribuzioni e tutte le risorse che lo Stato deve trasferire alle Regioni e da queste tutte quelle che devono essere trasferite ai Comuni, adeguando sia la legislazione nazionale che regionale alle autonomie secondo un principio che deve essere attuato anche per ogni singola legge che si realizza.

 

Con le proposte federaliste invece si finge di ignorare che la questione vera è quella di una strategia che deve partire da un dato isti­zionale e normativo già sancito formalmente sin dall’epoca dell’ema­nazione dello Statuto regionale e del DPR 616/76 secondo cui la Regione prima che gestire DEVE partecipare alla formazione e poi all’attuazione del programma e delle politche economiche nazionali.

 

In questo quadro il decentramento di tutta l’amministrazione attiva alle Regioni e alle autonomie locali, non deve portare a nessuna cadu­ta di linea strateegica nel rapporto con lo Stato e con il Mezzogiorno come invece accadrebbe con le separatezze del federalismo.

 

Bisogna al contrario uscire da un orizzonte politico e ideologico settecentesco che informa la cultura leghista e separatista del Nord – che risale ai tempi degli ‘”illuminati'” sovrani di casa d”Aus­tria e di casa Savoia – andando oltre il vecchio mito ambrosiano dellla borgesia che spesso porta a chiudersi in sè stessi paghi della propria cosidetta “modernità europeizzante”.

 

Non è in un gioco di “separatezza” contrapposte, ma sempre all’interne a logiche centralistiche uguali,

che si può rispondere agli interrogativi sul mancato superamento del centralismo e declino delle Regioni.

 

Questo rilancio, al contrario, passa attraverso la modifica del sistema di potere anche delle Regioni e non solo dello stato centrale, non da un suo rafforzamento centralist­ico federale, per fare veramente e finalmente della Regione quello snodo effettivo della partecipazione delle comunita locali alle decisioni nazionali.

 

Quelle enunciate sono alcune delle prioritarie modifiche di ri­forma democratica, per conseguire una

incisiva riforma dello Stato e un diverso tipo di sviluppo che interessa prioritariamente i lavora­tori e il sindacato. Per fare si che la programmazione, anche di quella regionale, non sia una regionalizzazione delle leggi nazionali, ma bensì siano le leggi nazionali e di programmazione ad essere la sintesi reale (non la sommatoria) dei programmi regionali.

 

Lo ripetiamo : non é un problema di titolarità speciale.

 

Il sindacato se davvero vuole contribuire a cambiare il rapporto tra Regione e Centro statale, deve battersi per impegnare la Regione (attuando il confronto con essa sul versante politico e sociale di lotta e non sul versante amministrativo di incontro con gli organi burocratici) a dare battaglia coerente al centralismo cominciando con 1’adeguare lei la sua struttura e la sua iniziativa alle responsabilita e ai poteri che si reclamano.

 

Cominciando, per fare ancora un ultimo esempio, a rendere coerenti gli interventi nei vari campi che hanno un rapporto con la politra e conomica e industriale. Esercitando i poteri conte­nuti gia nel DPR 616 (art.67 e 81)e mai attuati, in merito alla possiblita di conoscere i Piani di sviluppo e di inestimento delle grandi imprese. Accorpando assessorati come quelli dell”industria, del lavoro e della formazione professionale; accorpando l’Assistenza con la sanità e in generale superando le separazioni e le scomposizio­ni tra i settori chiave della programmazione regionale.

Eliminando insomma tutte le bardature da ‘”stato centrale” e battendosi per cambiare il potere centrale-statale, organizzando e rappresentando i poteri sociali e istituzionali veri e democratici del proprio territorio.

 

Si tratta di democratizzare e soclalizzare tutti i poteri a tutti i livelli, e non di federare ivari e molteplici centralismi. Per fare questo basta dare attuazione alla Costituzione, attuando lo Stato parlamentare e delle autonomie e non cambiando in modo anticostituzionale la forma dello stato democratico con il verticismo e centralismo federalista non previsto e non consentito dalla nostra Costituzione democratica e antifascista.

 




Angelo Ruggeri, è la versione più sintetica pubblicata su SE Scienza Esperienza, in un dibattito con Scatturin e d’Albergo sulla democrazia e il dimenticato rapporto tra scienza e democrazia

Critica marxista e afasia comunista. Aspettando Catone, per un punto di vista plebeo-globaleultima modifica: 2011-02-21T00:55:00+01:00da iskra2010
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