Sinistra o sinistra estrema, maggioritario o proporzionale

 

IMG_3289+logo.jpgfoto MOWA

 

di Angelo Ruggeri *

 

Specifichiamo meglio, per chi non conosce o cancella dalla memoria la storia della Repubblica, dell’Italia e della fondazione per la prima volta nella sua storia della democrazia.

Il secolo XX è stato caratterizzato dal passaggio dai “partiti di opinione” (che anche allora, nell’800, non a caso si chiamavano “sinistra”) operanti “come gruppi parlamentari” (similmente a quelli delle c.d. “sinistra” di oggi), a partiti espressivi di “radicali mutazioni” (Gramsci, Q. 15, § 47), si che “le grandi masse si sono staccate dalle ideologie tradizionali” (Gramsci, Q.3, § 34) trovando nei partiti di tipo nuovo come il PCI da Togliatti a Berlinguer, il modo di esprimere “la funzione che è direttiva e organizzativa, cioè educativa, cioè intellettuale” (Gramsci. Q. 12, § 1).

 

L’autoritarismo tedesco delle forme di potere con varietà di forme tecniche è senza soluzione di continuità.

Il “riformista” Friedrich Ebert, della SPD, fu il primo presidente del Reich durante la Repubblica di Weimar. Di Ebert, durante l’emigrazione, Brecht abbozzò il seguente ritratto da includere nell’’Abicì della guerra:



Io sono il sellaio che la genia degli junker /

aiutò di nuovo a montare in sella. Io, carogna, /

mi lasciai comprare da loro avendo ancora in tasca /

i soldi del povero. Non c’era una fune per me?”



“Revisionismo storico” della cultura borghese e “revisionismo

teorico” e “costituzionale” ed “elettorale” della diade

radicale/riformista della c.d. “sinistra” di varia specie.


Il dipanarsi non solo in Italia, ma in tutta l’Europa di una congiuntura politica che è segnata da una “defaillance” cronica delle forze politiche della diade radicale/riformista di c.d. “terza via”, vanamente protese ad una strategia di anticomunismo democratico, impone un tipo di riflessione che non si attardi sull’analisi delle modalità contingenti di una politica internazionale, economica e sociale inidonea a contenere il dilagare delle forze conservatrici e cripto reazionarie, per affrontare con più decisione e con più rigore le questioni teoriche che sono alla base del vero e proprio capovolgimento in corso, grave e rischioso benché non ancora drammatico, riguardante, ben più che l’avvento al governo degli Stati e delle istituzioni sovrannazionali di formazioni politiche neo-conservatrici, il riaffermarsi in modo ancora non organico e lineare ma comunque preoccupante, di valori contrastanti con quelli della Resistenza antifascista che erano stati il fondamento del ritorno alla democrazia dopo la sconfitta del nazi-fascismo.
Il rilievo va fatto rimarcando che, in tale contesto di una tendenza di fondo, il “caso italiano” – ad onta delle “europeizzazione” – mantiene una su peculiarità sia:

a) per la differenza specifica della Costituzione del 1948 ancora formalmente – ma perciò non irrilevantemente in vigore come illustra il “caso della Francia”, dominato anche in sede costituzionale dal ruolo di De Gaulle addirittura dal 1945, dove dal 1948 non vige più la Costituzione simile a quella italiana -; sia:

b) per la residualità di una coscienza democratica di massa in posizione statica e meramente difensiva, che a stento può sfuggire all’omologazione con la ormai diffusa subalternità assunta – all’ombra di un “europeismo” restauratore – dai gruppi dirigenti che si contrastano con la destra per obbiettivi di mera gestione del potere politico, senza la necessaria discriminante sul decisivo terreno sociale.
Sembra quindi non più rinviabile l’apertura di un dibattito teorico che – di fronte al grave rischio di consolidazione nell’avvio del 2000 degli effetti perversi dell’ultimo ventennio del ‘900 – congiunga la critica al “revisionismo storiografico” della cultura borghese, volto a delegittimare e addirittura criminalizzare l’idea stessa della rivoluzione non solo “socialista” ma sinanco “democratica e antifascista”, alla critica del “revisionismo teorico” di “sinistra” che si annida nel primo. Revisionismo teorico che può conseguire risultanti devastanti, se la denuncia del revisionismo storiografico non coglie l’occasione per rafforzare la rivendicazione della legittimità storica della rivoluzione perseguita dal movimento operaio con le sue alleanze sociali, attraverso l’individuazione delle contraddizioni che hanno pesato nelle esperienze di lotta sociale e politica per una transizione dal liberalismo/liberismo al socialismo: senza di che il revisionismo storiografico, nel suo consolidarsi, comporterebbe l’imporsi – prima implicito, e poi anche esplicito – del revanscismo teorico di una destra variegata, volta a riproporre i valori “gerarchici” che qualificano il primato del “privato” e dell’’”economia”, per coniugare autoritarismo “sociale” dell’impresa e autoritarismo “politico” delle istituzioni, senza possibilità quindi di prevenire un nuovo debordo verso il totalitarismo che, storicamente, ha già registrato (nel 900, appunto) l’inidoneità della “democrazia formale” a contenere i conflitti connaturati alle contraddizioni della “complessità sociale”.


Allo scopo di evitare che il dibattito teorico si configuri come “accantonamento” – con astrazione dal reale immediato dell’intervento critico sulla situazione sociale e politica in atto – sembra opportuno prendere le mosse da una discussione che coinvolga non solo la denuncia degli obbiettivi del capitalismo privato e della strategia della destra politica, ma anche i limiti oggettivi e soggettivi di partiti e sindacati che, in qualche modo, tengono ancora rapporti con il movimento operaio, facendo cioè riferimento alla critica dei termini stessi in cui questi ultimi si autodefiniscono e attivano le loro piattaforme programmatiche, con più o meno netto disancoramento dalle tendenze teorico-politiche che in tutto il ‘900 – soprattutto a partire dalla “Rivoluzione d’Ottobre” –, hanno caratterizzato le lotte per la “democrazia sostanziale”, in nome dell’emancipazione e della modifica dei rapporti sociali e di produzione capitalistici.
Su tali premesse, la prima questione che si affaccia e che vale a coinvolgere l’attenzione di massa a problemi teorici che da tempo sono stati abbandonati, concerne la qualifica stessa che le forze politiche eredi del post-fascismo si sono venute attribuendo, in nome di una contrapposizione “destra-sinistra” che cancella, in modo schematico ma esemplare, tutto il tratto di storia sociale e politica che ha caratterizzato i conflitti nella società di massa, segnando di se tutto il ‘900 con il superamento della forma di Stato e della forma di governo cui si era improntato il liberalismo politico che – con le ben note imperfezioni – aveva cercato, nel continente europeo, di imitare il modello britannico.

 

L’inanità della “sinistra parlamentaristica” – peraltro preoccupata soprattutto di conformarsi al pallido ruolo di un c.d. “centrosinistra” – deriva dall’aver decisamente contribuito a mortificare una contraddizione sociale acuitasi rispetto alle vicende del XX secolo, sostituendola con una contesa di gruppi di potere all’esasperata ricerca di conquistare il governo delle istituzioni per cupidigia di spazi gestionali da amministrare secondo principi ispirati alla medesima ideologia, che vuole il mercato internazionale e nazionale come metro di misura dei valori della convivenza sociale, fatti salvi i differenziali che non sono rappresentati da una netta contrapposizione tra “liberisti” puri e “socialdemocratici”, ma da alternative riguardanti soltanto le forme dell’assistenzialismo alle imprese e quelle agli strati più deboli della società, nonché la qualificazione delle rispettive “elemosine” di stato.

Il ricondurre la lotta politica – come scontro di fazioni – al significato reso dall’immagine che viene data dal “luogo” di collocazione parlamentare delle forze che – rispettivamente – attualmente sostengono (destra) o contrastano (sinistra) il governo, assume oggi una portata che è ben più grave e stravolgente del significato attribuibile alle motivazioni che dalla fine del ‘700 in poi, hanno visto combattersi gruppi espressi dalla borghesia sia prima che dopo l’introduzione del suffragio universale “maschile”: e ciò in quanto dopo la svolta storica del nascere e legittimarsi dei partiti di massa (con relativa appendice sindacale), era entrata un crisi la cultura politico-istituzionale costantemente imperniata sul modello inglese – nonché con la variante del presidenzialismo, nordamericano -, modello che vede nel sistema elettorale “uninominale” il cardine della separazione in “destra/sinistra” della cosiddetta “classe politica” ideologicamente omogenea, con posizioni che raffigurano rispettivamente i luoghi di maggioranza/minoranza e governo/opposizione. Ciò con l’obbiettivo di “stabilizzare”, con il governo di legislatura, il partito “unico” al vertice dello Stato – solo formalmente “diviso” in due -, limitabile solo in sede di mero “controllo” ad opera della parte rappresentativa della società posta così in una posizione di statica attesa per il “ricambio” nella cosiddetta alternanza.
Il revisionismo teorico in atto a partire dalla fine degli anni ’80 del secolo XX – revisionismo che nel suo carattere universale ha varie articolazioni di cui qui si valuta la più provocatoria –, ha come suo epicentro mistificante (perché scansa ambiguamente la motivazione “sociale” in nome del principio ideologico della “razionalizzazione” efficientistica) l’abbandono del sistema elettorale “proporzionale” che è stato l’architrave di un processo di democratizzazione, la cui pregiudizialità, in linea di principio, è legata alla connessione tra pluralismo sociale e pluralismo politico ai fini dello sviluppo di una conflittualità non dominata dalla destra sociale e politica, e caratterizzata da un ruolo attivo delle organizzazioni del movimento operaio, si da trasferire nelle assemblee elettive il peso della combattività espressa nei rapporti di lavoro.

 

Il principio maggioritario, infatti, con il ritorno ad una tipologia di rapporti politico-istituzionali, che sotto il segno di “destra/sinistra” si limita a rappresentare la natura dicotomica dei rapporti tutti interni alla classe dirigente della borghesia vecchia e nuova da quando è nato lo Stato di diritto, dietro alla cifra elettorale che segna il limite tra maggioranza e minoranza, cela il dato più essenziale che è rinvenibile nella consegna del conflitto di classe alle sole forze che si suddividono l’arena parlamentare (dalla quale vengono escluse le forze che collidono con il sistema capitalistico), tagliando fuori la classe operaia con il ritorno alle forme politiche di una rappresentanza non più anche sociale e di classe ma solo di “ceto politico”, che si divide solo per la gestione delle “spoglie del potere”, avendo preventivamente tutti optato – come quotidianamente tutti ribadiscono – per i valori del mercato, in sintonia con i potentati economico-finanziari.


La gravità di un tale “revirement” teorico, è misurabile con il fatto che, a distanza di un secolo e mezzo dagli albori dello Stato moderno , si è venuta determinando una situazione che vede sostanziale equivalenza tra gli effetti del suffragio “censitario, che delegittimava dalla titolarità dei diritti politici il proletariato ottocentesco, e gli effetti che in regime di suffragio universale (sinanco esteso alle donne e con un allargamento della fascia d’età prevista per l’esercizio del diritto di voto) conseguono alla progressiva autoesclusione dal voto – con l’astensionismo –, da parte di un elettorato popolare che, escluso dall’arena politico-istituzionale, rifiuta di dare fiducia ad un sistema nel quale i processi di democratizzazione, risultano sviliti da parte dei vertici delle formazioni politiche diventate interpreti di un nuovo tipo di trasformismo. Un trasformismo ravvisabile nel fatto che, comunque, un nucleo ristretto di tali vertici “occupa” un posto di privilegio nel “palazzo”, incurante che la “sconfitta”, in termini reali, sia solo e interamente posta a carico dei gruppi sociali, in nome dei quali solo verbosamente tali vertici dichiarano di partecipare al “gioco” parlamentare.


Non è per caso, ma per l’imporsi di un nuovo tipo di lettura della realtà sociale e politica, che nei momenti di più intensa lotta di classe, non si sia parlato più di “destra/sinistra” ne di “conservatori” e “progressisti” (come oggi si è tornati a fare, oltretutto con una notevole dose di vergogna se si è sentito il bisogno di coprire tali vetuste espressioni con denominazioni prive di senso socio-politico come “ulivo”, “margherita”, “quercia”, “asinello”, “Italia dei valori”) ma di “estrema sinistra“, di “rossi” in antitesi a forze “reazionarie” e “moderate”, proprio per la necessità di riprodurre, in sede di analisi socio-politica-istituzionale, il senso di una dislocazione delle forze contrapposte che diveniva incompatibile con quella nella quale alla lotta per lo Stato – Stato di diritto borghese in nome della libertà economica e della libertà politica della parte aristocratica della società -, si è sostituita la lotta per il superamento dello stato di diritto in nome di parole d’ordine del tutto nuove, come “emancipazione” e “democrazia sostanziale”, la cui portata innovatrice è stata tale da incidere profondamente sulla stessa struttura e funzione dei partiti della classe operaia, attraverso la nota “querelle” dei rapporti tra socialisti e comunisti.

 

Destra/sinistra, soprattutto oggi, è una diade che nasconde un appiattimento omologante, e la stessa discussione se in Italia vi sia una o più “sinistre”, contribuisce ad allontanare nel tempo la possibilità di una nuova presa di coscienza di massa. Presa di coscienza che può passare da un incardinamento dell’opposizione politica su una opposizione sociale che scavalchi la diade “parlamentaristica” destra/sinistra, proprio per fare delle istituzioni rappresentative un passaggio e non un obbiettivo riattribuendo alla società civile il ruolo di formazione e impostazione degli indirizzi politici (confiscato dai vertici partitici e istituzionali), capaci di coniugarsi con lotte volte a trasformare i rapporti sociali e non a registrarli e mantenerli. Tanto più oggi che – ad onta della demonizzazione dei rapporti di classe negli Stati nazionali – le trasformazioni in corso legittimano il rilancio dell’internazionalismo – da sempre bandiera del movimento operaio – come antitesi, resa più matura e potenziata, alla “globalizzazione” dei poteri finanziari, operata sia attraverso le istituzioni nazionali che sovrannazionali.

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Centro Il Lavoratore

 

 

Sinistra o sinistra estrema, maggioritario o proporzionaleultima modifica: 2011-03-17T00:30:00+01:00da iskra2010
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