La Lega nella prospettiva della politica italiana

 

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di Angelo Ruggeri

 

L’ esaltazione spesso acritica dell’ individualismo radicale nell’economia e conseguentemente nella società da cui trae profitto il movimento leghista, non si può dire sia stato antagonisticamente contrastato. La “lepre” comune da inseguire e il “topo” da acchiappare, sono stati e continuano ad essere per tutti quelli di un “adeguamento” sociale e istituzionale alla competizione mercantile e alla “efficienza” d’impresa che, si sostiene, deve vedere impegnato l’intero sistema-paese alla cui efficienza e competitività, capitanata dall’impresa, devono essere finalizzati tutti gli sforzi e i comportamenti sia individuali che collettivi e per ciò la stessa organizzazione istituzionale dello stato.

La motivazione posta a base di ciò, continua ad essere considerata la avvenuta “costruzione di una unica economia mondiale” che, in verità, già “era stato un risultato notevole del capitalismo liberale ottocentesco” (), tanto che nel secolo scorso si osservava che “il bisogno di sbocchi sempre più estesi per i suoi prodotti spinge la borghesia per tutto il globo terrestre …, sfruttando il mercato mondiale la borghesia ha reso cosmopolita la produzione e il consumo di tutti i paesi e con grande dispiacere dei reazionari ha tolto all’industria la base nazionale” () .

 

In questo continua a mantenere grande rilievo un certo uso strumentale della contraddittoriamente alimentata tesi del superamento dello stato-nazione, di cui artatamente si confonde la fine di una sua esclusività e sovranità con la fine della sua stessa esistenza, con un “nuovismo” escatologico che porta a guardare al “nuovo”, in tutti i campi, come se il “vecchio” non esistesse più, anche quando continua ad essere una componente della realtà, come continua ad essere una realtà sia lo stato-nazione che la classe operaia.

La tesi secondo cui il mercato porta al superamento degli stati nazionali, è tanto dubbia da continuare ad essere propugnata : sia per giustificare il superamento di certi stati nazionali quando, al centro dell’Europa, non solo è andata organizzandosi l’unificazione, in un unico e gigantesco stato nazionale tedesco, della Germania occidentale con i territori della Repubblica democratica tedesca; sia da essersi tradotta in una moltiplicazione di vecchi e nuovi nazionalismi e nella creazione e moltiplicazione di nuovi stati-nazionali. Come hanno fatto alcune regioni che hanno preteso e alcune già ottenuto per sé, lo status giuridico di stati nazionali sia pure in miniatura. In tal modo quasi ripercorrendo, mutatis mutandis, la stessa strada seguita alla prima grande guerra, che portò ad una riorganizzazione europea fondata sulla creazione di nuovi stati nazionali a base etnico-linguistica, secondo l’idea dell’autodeterminazione mutuata dai movimenti nazionalistici che, rivelatasi disastrosa, alimenta da allora continui conflitti nazionali.

 

Ancor più che negli anni del “leghismo” nascente, tutto continua in oltre ad essere ideologicamente sovrinteso da una cultura d’impresa che produce un generale auspicio e una ostentata adesione al riconoscimento dei dominanti “valori di un individualismo asociale assoluto”(), nonostante siano sempre più evidenti i fenomeni di caduta ideale e del vivere alla giornata, di estraniazione sociale e di separazione negli e tra gli individui e dell’individuo dalla sua comunità e di questa dalle altre.

Non si può infatti non osservare che, ipocritamente deplorato dai suoi stessi sostenitori per le sue conseguenze sociali, l’ individualismo narcisista risulta dominante in tutte le ideologie ufficiali e non ufficiali, soprattutto in ragione di quella che viene definita una comune visione “moderna” della società. Per questo da intendere non più come un insieme di relazioni tra gruppi e classi sociali, ma come un “assemblaggio di individui egocentrici tra loro separati, dediti al perseguimento della loro gratificazione (sia essa definita come profitto, come piacere, o con qualunque altro modo individuale)…da sempre implicita nella teoria dell’economia capitalistica”(). Un esito, per inciso, non sorprendente e predetto fin dall’inizio da vari osservatori e dal Manifesto dei comunisti del 1848, che non solo aveva proclamato che “gli operai non hanno patria” ed eloquentemente argomentato che il socialismo non poteva che avere base mondiale, proprio in virtù della mondializzazione dei rapporti di produzione e di scambio capitalistici, ma aveva bensì riconosciuto che il capitalismo stesso è una forza rivoluzionaria permanente, perché : “la borghesia non può esistere senza rivoluzionare di continuo gli strumenti di produzione, quindi i rapporti di produzione, quindi tutto l’insieme dei rapporti sociali ” (). Cosa questa che, quanto meno, non avrebbe dovuto sorprendere né continuare a far gridare di rassegnato stupore di fronte alle “innovazioni tecnologiche”, o quanto meno mettere al riparo dall’uso “terroristico” che di queste è stato fatto e si fa, almeno coloro che a tale analisi del capitalismo si sono a lungo rifatti e ispirati .

 

La decadenza dei valori ispirati al pubblico e la loro sostituzione con quelli orientati al privato, sono la conseguenza inevitabile di un potere d’impresa che è stato e continua ad essere sempre meno attaccato e criticato, mentre appare generalmente condiviso persino il fatto che il ruolo dell’ impresa oltrepassi l’ambito meramente economico, per arrivare ad essere riconosciuta come una “istituzione” (a cui partecipare come fosse una istituzione democratica “di tutti” e non una “proprietà privata”), anzi come l’istituzione centrale. Questo non può non contribuire, anche agli occhi dei ceti popolari, alla legittimazione di ogni progetto che si rifaccia direttamente all’impresa e alle regole promanate direttamente da essa e dal mercato – ancorché sostitutive di quelle stesse della democrazia – rispetto a cui i progetti della Lega non sono secondi a nessuno.

 

Nella cultura d’impresa come cultura generale e nell’ individualismo economico, poste dalla Lega come Alfa e Omega dei suoi progetti, essa trova la più forte legittimazione, tale da permetterle di essere giustificata e “perdonata” dopo ogni suo eccesso, ma soprattutto di non venire identificata e denunciata come “pericolosa” per i contenuti della sua azione e dei suoi progetti di de-strutturazione istituzionale e di “riforma istituzionale”, a cui hanno tutti contribuito e continuano ad essere più o meno interessati.

 

Risulta evidente il fatto che, in tali condizioni, la pericolosità della Lega risultasse e risulti persino arduo riconoscerla e capirla, da parte di coloro che, in qualche modo, si sono trovati ad essere impegnati, seppure da sponde e con approcci diversi, ad operare su uno stesso o contiguo terreno, contribuendo a delegittimare persino gli aspetti più vitali e connaturati alle caratteristiche sociali della democrazia e dello stato posti a base della Costituzione italiana, come ad esempio l’antifascismo e le coppie : sciopero e proporzionale; organizzazione della democrazia di base e assemblee elettive; programmazione democratica dell’economia e controllo sociale dell’impresa; diritti sociali e organizzazione di diritto pubblico nella scuola, nella sanità, nella previdenza, nella informazione, ecc., per realizzare un regime governativistico ad immagine e somiglianza dell’impresa che, a torto o a ragione, viene ritenuto più adatto per un Paese che si usa persino nominalmente definire “azienda Italia”.

 

l’attacco federalista alla prima parte della Costituzione

 

La “cultura” della centralità dell’impresa e la mentalità aziendalista, hanno insomma predisposto e ora contribuiscono alla ricezione di una idea del Paese inteso come una sola, unica e grande “azienda”, favorendo una concezione aziendalistica dello stato, delle regioni e dei comuni, quale è quella “federalista” che è stata ispirata ed avanzata, non a caso, dalla Lega. Perché il problema era e rimane quello della socializzazione del potere, per una dialettica istituzionalmente assicurata tra forze, movimenti, bisogni sociali e organizzazioni sindacali anche con i centri finanziari e di potere, per con questa via rimettere in discussione la stessa questione delle società finanziarie e delle aziende regionali che, pur diventando sempre più il vero governo della regione, sono centri di potere separato e incontrollato dalla società come dalle assemblee elettive.

Con il federalismo invece, la Lega ha rovesciato quello che era il problema della democratizzazione dello stato, in una burocratizzazione esasperata dello stesso, in una tale gerarchia di poteri di vertice rispetto a cui, il cittadino, non potrà più nemmeno arrivare a prendersela con lo stato. Per questo, nella relazioni Onofri della “bicamerale”, lo stato non compare nemmeno più come parola. Perché il federalismo cambia la concezione stessa dello stato nel rapporto con la società. Anche per questo è da considerarsi anticostituzionale, al di là della falsificazione su cui si è retta la “commissione bicamerale” (Legge costituzionale 24 gennaio 97, n. 1), che ha preteso di sostenere che la “seconda parte” della Costituzione fosse scindibile dalla “prima”, solo per attaccare la “prima” senza manifestarlo esplicitamente. Perché il federalismo, come la Costituzione, è una unità concettuale ed esaltazione di centri di potere di vertice “nuovi” di uno stato che si deconcentra, accentrandosi. Così che partendo dalla “seconda” si attacca in realtà anche la “prima parte” della Costituzione.

 

Non c’è dunque davvero di che stupirsi del fatto che i progetti federalisti proposti e approvati in “bicamerale” prevedano, da un lato, il presidenzialismo e dall’altro deleghe e rapporti privilegiati delle regioni con le imprese private, in una aziendalizzazione generalizzata delle funzioni pubbliche come dei servizi sia sociali che economici. Se l’efficienza non è più un mezzo per dare efficacia democratica e sociale alle decisioni, ma è un fine in sé, separato dai bisogni e dai diritti sociali, e se l’Italia è una azienda, allora anche la sanità deve diventare l’industria della salute e dell’assistenza, come anche l’istruzione che deve avere le sue aziende autonome, senza più nemmeno la ragione di distinguere le scuole private da quelle pubbliche. Tanto più poi questo non può non valere per i servizi sociali economici come trasporti, telecomunicazioni, energia, ecc. in cui, dove ancora non si sono introdotti, devono introdurre forme presidenzialistiche come il manager, come nei comuni, nelle regioni e nello stato centrale si sono introdotti o si devono introdurre i “manager delle istituzioni”, i sindaci e i presidenti elettivi.

 

Non c’è più bisogno di funzioni pubbliche obbligatorie per la garanzia dei diritti sociali, né istituzioni sociali. Gli ospedali, le Ussl, le scuole, ecc., sono delle aziende di quel settore industriale, mentre i comuni, le provincie, le regioni sono aziende di uno stato chiamato a gestire l’azienda Italia. Perciò servono dei manager che le facciano funzionare come si fa in una fabbrica produttrice di prodotti di consumi. Ecco quindi il manager degli ospedali e delle Ussl, il sindaco elettivo, il presidente della provincia e della regione elettivi e, davvero, non c’è più motivo per sostenere che non debba essere elettivo o indicato dagli elettori, il capo dello stato o il presidente del consiglio. E la stessa opposizione nel mentre si separa e compete, finisce in un “consociativismo” molto più vero di quello che, strumentalmente, indicava per il passato e finisce con il sembrare un’azionista di minoranza che si rapporta con l’azionista di maggioranza chiamato governo, come sempre più appare essere ().

Ecco quindi come, ragionando su un terreno e con una cultura e scopi sostanzialmente comuni a tutte le forze e tutti gli schieramenti, si sono prodotti non progetti alternativi e diversi, ma variabili di una uguale concezione aziendalista e manageriale, quindi presidenzialista, dello stato e delle istituzioni. Una concezione trasposta dai o nei propri stessi partiti, dove ormai un segretario-capo, autentico manager, con pochi membri del suo management-segreteria decidono, ad esempio, che Di Pietro è il candidato del Mugello ed altri segretari-capo decidono di opporgli Curzi, ma tutti e sempre al di sopra della base, dei militanti e della gente di quel territorio, con una pratica che scandalizzava solo all’epoca di Craxi e in cui uno comanda e gli altri seguono.

 

“nuovi bocconiani” e legittimazione della critica liberista

 

In fondo le pomposamente chiamate “nuove teorie organizzative” della Bocconi, a cui si sono abbeverati intellettuali e dirigenti sindacali e politici della sinistra, ma a cui si è rifatta coerentemente la Lega, si riassumono nella teoria che ciò che serve, per far funzionare le cose, è mettere un “padrone” ovunque non c’era : padroni e sottoposti, chi comanda e chi ubbidisce. Tutto con un assenso non formale ma attivo e persino diretto delle sinistre che, dopo aver avuto un ruolo progettuale e attivo nella attuazione di protezioni e ammortizzatori “aventi il merito incomparabile di aver evitato che i conflitti scatenati dalla modernizzazione industriale divenissero un fattore certo di dissoluzione della società interessate”, sono ora impegnate in “tutti i Paesi avanzati”, in “una riprogettazione snellitrice dello stato sociale e, per molti aspetti, a un suo parziale smantellamento” nonché “a gestire tale doloroso processo”, anche perché “è meglio che a fare riforme recanti gravi sacrifici alle grandi masse del lavoro dipendente siano le sinistre, verso cui queste hanno maggiore fiducia (Agnelli)”().

 

In tal contesto la critica liberal-liberista allo stato assistenziale fatta proprio dalla Lega, trova le sue stesse radici e origini nei limiti della assunzione della concezione keinesiana e socialdemocratica dello “stato sociale”, cioè come settore separato dall’economia e dallo stato nel suo complesso e nell’abbandono della concezione costituzionale dei diritti sociali garantiti, ben oltre lo “stato sociale” e i compiti di assistenza sanitari e previdenziali, come diritti assoluti e della produzione e del lavoro e non come possibilità di soddisfacimento assistenziale dei bisogni dei cittadini fuori della produzione. Perché se i diritti diventano erogazione di prestazioni e i lavoratori-cittadini diventano cittadini-utenti, allora si possono davvero contabilizzare secondo la logica aziendalista dei costi e dei ricavi dell’impresa. Ma così i costi di gestione, innegabilmente e incontestabilmente crescenti, portano a porsi il problema di come contenerli o ridurli tagliando le prestazioni – con discussioni solo su quanto e quando farlo – piuttosto che a porsi il problema di come reperire obbligatoriamente anche nella produzione le risorse necessarie per garantire diritti universali. E portano anche ad interrogarsi se tale sistema assistenziale mantiene le sue promesse e se dunque valga la pena di essere mantenuto, quando e tanto più di fronte al fatto che non risolve i problemi e non rimuove le loro cause.

 

Ecco quindi data legittimità e pertinenza alle critiche liberiste e alle soluzioni aziendaliste nella gestione dello stato e della pubblica amministrazione, di cui si fa interprete e portatrice la Lega, ma che sono state precorse e avvallate dalla sinistra con privatizzazioni dei rapporti di lavoro del pubblico impiego, nelle ferrovie, nelle Ussl con i manager, ecc. Ecco in tal modo aperte le strade ad altre soluzioni assistenziali privatistiche, perché posto che nessuno vuole abolire l’assistenzialismo e la solidarietà, ciò che il comando capitalistico veramente vuole, è sostituire l’assistenza pubblica con quella privata, il diritto pubblico con il diritto privato, la Costituzione con il Codice civile. Ed in effetti, trovandoci spostati dal terreno della garanzia dei diritti universali collettivi e individuali, su quello della tutela e della erogazione di prestazioni da parte dello “stato sociale”, diventa credibile che in tale logica di erogazione possano intervenire e funzionare anche forme private che, prima, non avevano mai avuto nessuna credibilità e legittimatà ad operare nel campo delle funzioni pubbliche .

 

legittimazione federalista del mercato e legittimazione di mercato della secessione

 

In uno stato dunque di generale adesione alla cultura interclassista e ai valori dell’impresa e dell’individualismo, diventa anche difficile per molti strati, anche popolari, giudicare come eversivi e reazionari, persino tout-court fascista, progetti pur scritti e dichiarati, come quelli della Lega, di Miglio e altri, di voler dare un fondamento opposto alla Repubblica attuale, costituzionalizzando l’impresa e il denaro in sostituzione del lavoro e il federalismo in sostituzione delle autonomie.

In tali condizioni e senza un rovesciamento strategico rispetto a tutto ciò, che nessuno sembra disposto a compiere, non è da sottovalutare il rischio che persino il parlare di secessionismo appaia, anche ai più che in maggioranza non lo condividono, null’altro che una proposta e una soluzione tra le tante. Comunque comprensibile e affatto illegittimo, anche quando non condivisibile, anche alla luce di una molteplicità di analisi, della Fondazione Agnelli piuttosto che di altri, che dipingono ormai da tempo la disparità tra i confini geopolitici dello stato nazionale e quelli geoeconomici delle imprese e del mercato, come motivo e supporto dell’invito di tutti ad adeguare in fretta le istituzioni: forse che qualcuno si definisce meno che federalista e liberale ?

 

Anche il secessionismo può quindi apparire a molti, niente altro che una più o meno discutibile proposta, come altre, di adeguamento dello stato alle imprese e al mercato. Perché una volta che si è contribuito ad affermare, come senso comune ideologico, un ruolo del mercato come regolatore sociale e dell’impresa come la istituzione centrale, diventa difficile denunciare chi parrebbe soltanto voler portare tali convincimenti un po’ più in là, a conseguenze più estreme, quand’anche questo dovesse comportare il sovvertimento dell’ordinamento dello stato. Anche se venisse considerato disdicevole, che a questo si voglia arrivare solo per assicurare una capacità concorrenziale al sistema d’impresa di alcune parti del Paese e solo per assicurare un livello di benessere, pari a quello delle regioni europee più ricche, ad alcune aree e comunità del territorio nazionale, agli occhi di chi a livello di massa è stato indotto a ritenere che il mercato è un regolatore sociale e istituzionale, anche il progetto leghista di secessione potrebbe non apparire come illegittimo e non impercorribile in assoluto, giusto o sbagliato che per ora lo si ritenga.

 

Pur se dunque non si può prevedere, se il secessionismo potrà alla fine essere condiviso o meno da una maggioranza della popolazione, non si può non considerare fin da ora, che quanto più l’ideologia d’impresa continuerà ad alimentare concezioni individualistiche di relazione e di vita, tanto più questo potrebbe diventare possibile.

 

la falsa separazione tra sviluppo storico dell’economia e forme istituzionali nella fase del “capitalismo organizzato”

 

Quella ossessione della felicità individuale che spinge alla ricerca di gratificazioni personali di varia natura e verso una sorta di presente permanente, è infatti anche la conseguenza di una disintegrazione dei modelli di relazione sociale e umana che alimentano la memoria e il rapporto delle generazioni con la storia. Tutto questo , abbiamo visto, ha già permesso la riproposizione di ciò che sembrava e doveva essere improponibile, come le vecchie teorie del libero mercato e dello stato liberale, senza che soccorresse la memoria storica del perché sono state abbandonate. E cioè del fatto che erano fallite nella prova della “grande crisi” della prima metà del secolo e che erano state abbandonate dopo il, da allora imprescindibile, rapporto tra stato ed economia, che è venuto storicamente determinandosi dagli anni ’30 in poi, con il cosiddetto “capitalismo organizzato” o “regolato dallo stato”, corrispondente ad uno stadio avanzato del processo di accumulazione, ultima fase successiva alla prima fase precapitalistica e alla seconda fase corrispondente al capitalismo liberale, dalla quale si è passati, appunto, alla terza fase, del “capitalismo organizzato”, rispetto a cui non è possibile nessun ritorno indietro.

 

La cancellazione della memoria, ha invece reso possibile far credere ciò che invece non è vero affatto, anche in conseguenza della separazione che è stata introdotta a livello pratico e concettuale, tra lo sviluppo storico del processo di accumulazione economica e le forme politiche, istituzionali e di organizzazione sociale, che corrispondono a ciascuna di tali fasi dello sviluppo. Così che si è reso possibile far credere, che un modello sociale e politico avanzato come quello della Costituzione italiana – che esprime il tentativo di sostituire la “moderna” risposta reazionaria nella fase del cosiddetto “capitalismo organizzato” con una “moderna” risposta democratica-sociale -, potesse essere sostituito “all’indietro”, con forme istituzionali e politiche corrispondenti ad una fase liberale dell’economia.

 

La rottura dei meccanismi sociali e culturali che connettono il rapporto delle generazioni con la memoria, nel rendere possibile far credere che, nella fase dello “stato economico”, ci si trovi addirittura in una fase liberista – che d’altra parte anch’essa vedeva già un ruolo centrale dello stato nel campo della economia con le politiche della moneta e dei dazi -, ha anche rivelato e indotto una tendenziale rottura del legame con tutto quanto della storia collettiva di una comunità nazionale, è ancora e continua ad essere parte di un presente che, invece, è stato offerto come fosse un libro bianco, alla riscrittura persino di vecchie e sconfitte ipotesi risorgimentali liberali, federaliste e separatiste.

 

la democrazia come convivenza delle differenze, la competizione come separazione narcisistica di “sé” dall’ “altro”.

 

Tutto ciò che accomuna le varie e diverse conseguenze di questa perdita di coscienza storica, è un convincimento diffuso – figlio della “fine” delle “ideologie” e della “lotta di classe” conclamato dalle culture settoriali e del “privato sociale” e “individuale” nel decennio della nascita delle Leghe -, che non sia cioè più possibile definire nessuna identità di gruppo (o anche personale) se non separandosi e distinguendosi. Rispetto a chi è cioè considerato estraneo o portatore di diversità di varia natura : in quanto non appartenente ai propri ambiti territoriali o etnici, oppure ai propri ambiti di gruppo, o di sesso, o di interesse tematico, sia nel sociale che nel privato, “perché l’identità dell’individuo si stabilisce come diversità rispetto all’altro”() anche nel rapporto di coppia. Il contrario quindi della democrazia che è convivenza delle diversità e della convivenza che non richiede l’identità ma la diversità.

E’ la logica della competizione d’impresa e dell’individualismo economico che esaltato dalle culture del “privato” si fa senso comune e porta, nei processi di identificazione, a far prevalere l’estraniazione e la competizione sulla comprensione, la separazione sul dialogo, il narcisismo sull’ accettazione del diverso da sé, di cui si possono trovare conferme ad esempio : nel “pubblico”, con la volontà di separarsi da scuole di tutti per chiudersi nelle scuole private dei socialmente e ideologicamente uguali a se stessi; nel “privato” con l’esponenziale crescita delle separazioni coniugali.

 

Addirittura, recentissimi dati del settembre ’97 della rivista “Anna”, indicherebbero che una donna sposata su due, se potesse tornare indietro non lo rifarebbe e vivrebbe da sola. Come ha osservato un critico, l’intuizione strategica del fatto che le donne devono conquistarsi i propri diritti senza aspettare che siano gli uomini a concederglieli, è degenerata nel segno di un mondo senza uomini, dove anche “l’apparente vitalità dei movimenti delle donne si esaurisce in attività fatte di compiti che si autoriproducono continuamente: buona parte di questi servono, in tempi brevi, a procurare alle sue rappresentanti più intraprendenti prestigio, contratti con gli editori e borse di studio e forniscono alle idealiste un’illusoria utopia di matriarcato” ().

 

“forza” diversa e valori uguali

 

Ma nel predominio delle culture individualiste riconducibili ad una ideologia cosiddetta “post-moderna”, si può anche trovare la ragione di una battaglia politica sempre più ridotta a scontro tra partiti-poteri, che si separano e competono tra loro non perché “diversi” ma proprio perché “uguali” (come aziende ferocemente concorrenti perché produttrici dello stesso prodotto), che giudicano diversamente le proprie stesse azioni quando vengono compiute da altri: non la diversità, ma la similitudine di valori nella diversità di forza hanno portato alla separazione tra Lega e Polo, così come non è per valori diversi ma uguali e di mercato che ci si scontra per “separarsi” con la secessione o “unirsi” con il federalismo. E’ la “forza” che fa la differenza più degli obbiettivi e dei valori, in cui chi prevale è per fare le stesse cose con modi e soggetti diversi.

 

In tal modo il conflitto del cosiddetto “post-moderno” tende sempre più ad assomigliare a quello del “pre-moderno”, quando il più forte dei poteri feudali sconfiggeva il feudalesimo di quelli più deboli, riprecipitandoci in un orizzonte culturale da cui l’Europa era uscita alla fine del secolo di Luigi XIV. Orizzonti che vengono confermati persino dal ritorno a vecchi regimi politici oligarchici come il maggioritario, non meno che da rivendicazioni etniche e territoriali pre-novecentesche e, persino, dalla divisione tra poteri e movimenti filo-tedeschi o filo anglo-francofoni, quando nelle “moderne” sedi delle istituzioni monetarie e politiche sovranazionali, si assiste agli scontri diplomatici orientati dalle rispettive sfere di influenza, specie nelle zone centro-orientale dell’Europa da cui, con l’annessione della Slovenia e della Croazia alla zona di influenza tedesca, ha tratto origine la tragedia dello smembramento e della guerra civile della Jugoslavia.

Né si può davvero pensare che la forza centripeta dei nazionalismi messa in moto dal vortice di tali annessioni si fermi da sé, sulle soglie dei confini e delle barriere doganali dell’Italia. Anche perché in Italia, non sono solo la Lega di Bossi e il sempre più ricco, incolto e descolarizzato Nordest, ad essere impegnati a fornirgli legalmente il passaporto: sia con ipotesi “separatiste”, sia con un “federalismo” in cui il mercato sia libero di unificare tra loro le regioni più ricche dell’Europa, in esclusione delle altre, attraverso ciò che in buona sostanza si propone come una generalizzazione di regioni a statuto speciale come l’Alto Adige e come la Provincia di Trento. Studiando la quale per altro, molti di coloro che credono che il federalismo sia sinonimo di autonomia delle comunità locali, potrebbero trovare una possibilità di ricredersi scoprendo su quale sistema di potere centralistico-mafioso, è ad esempio retta una provincia come quella di Trento e vedendo a quale cancellazione totale dell’autonomia comunale si è giunti in un regime a statuto speciale.

 

cancellazione dell’antifascismo e rilancio dell’interclassismo nazionalista

e antioperaio

 

La reazione liberista passa ancora una volta attraverso la secessione delle regioni a maggior sviluppo e, come sempre, maschera il conflitto sociale e di classe dietro la forma del conflitto nazionale. Anche per questo è estremamente pericoloso, oltre che debole e vantaggioso per la Lega, difendere l’unità del Paese in termini nazionalistici e sventolando solo la bandiera tricolore e i palloncini bianchi, rossi e verdi, accompagnati dall’inno di Mameli. Significa ignorare che, contro la Lega, la bandiera rossa non unisce di meno ma di più che non il solo tricolore. Significa non rimuovere la cancellazione già operata, e di cui la Lega si è avvantaggiata, di quelli che sono i tratti caratteristici di una unità nazionale e repubblicana rifondata, con la Resistenza e la Costituzione, sui valori dell’antifascismo e del lavoro. Cioè di una unità nazionale fondata sui valori sociali del lavoro e dei lavoratori, diversa e contrapposta a quella delle forze nazionaliste che, anche simbolicamente, veniva espresso nelle manifestazioni del Pci e del movimento sindacale, attraverso la bandiera nazionale sempre accanto alla bandiera rossa.

Viceversa si favorisce la dimenticanza sfruttata e alimentata dalla Lega, che l’unità nazionale del paese non è una unità nazionalista, ma si fonda sull’unità di classe del lavoro e che la Lega intende rompere tanto o solo la nazione ma la classe in quanto tale, per una unità interclassista del Nord contro il resto.

 

Tutti sappiamo cosa è successo quando il socialista Mussolini ha abbandonato la bandiera rossa e impugnato il tricolore e quando il fascismo ha assunto come soggetto la nazione al posto della classe operaia, che è ciò che vorrebbe fare la destra nazionale italiana e come fa già la Lega assumendo, come soggetto politico, la “nazione padana” come soggetto politico. Non è dunque con il nazionalismo italiano che si può sconfiggere il nazionalismo padano e insidiare le basi del consenso popolare e operaio della Lega, ma svelando la natura di classe del liberismo nazionalista e interclassista della Lega rilanciando l’antifascismo e l’irriducibilità dei soggetti sociali e di classe ad una indistinta unità nazionale che rischia solo di dare il senso di uno spaesamento della sinistra (che esprime anche chi marcia in manifestazioni sindacali contro la Lega cantando ” Mia bella madunina”) e di accreditare gli uguali valori nazionalistici, liberisti e antioperai, che sono sia della vecchia destra italiana nazionalista, come della nuova destra nazional-leghista.

 

 

 

conflitti nazionali di classe

 

In tal modo diventa pure evidente quanto si sia mirato e prodotto un ritorno a vecchie ideologie, piuttosto che un impossibile superamento dell’ideologia stessa, a cui forse ha creduto solo un ceto politico di “sinistra”, abbagliato dalla possibilità di perseguire una cooptazione nel sistema consumistico e narcisistico, liberandosi da impegnative eredità e “scelta di vita” fatte di un faticoso rigore intellettuale e morale, che lo escludeva dal circuito individuale del “piacere” e della “felicità” di un “moderno” modo di “vivere consumando”.

Difficile quindi non ammettere il merito di chi, come Occhetto nel ’86 e D’Alema nel 1996, nel dare ragione a Craxi nella lotta che lo contrappose al Pci di Enrico Berlinguer, hanno saputo riconoscere a Craxi di aver saputo anticipare, vedere e capire la strada del “cambiamento” della politica e delle istituzioni, mettendo le proprie vele sul filo del vento ben prima di ciò che, “a causa” del togliattiano Berlinguer, ha potuto fare la “sinistra democratica” “post-comunista”.

 

E’ in tale contesto che una Lega, presentatasi e autoproclamatasi “forza rivoluzionaria” (ovviamente nei limiti del rivoluzionamento che opera il capitalismo, vale a dire innovazioni di superficie indispensabili per conservare in profondità i rapporti di proprietà e di produzione), può mietere consensi . Come in un certo senso fece un altro movimento di piccola e media borghesia, interclassista e reazionario di massa, di “sinistra” nel sociale e di “destra” nel politico come il fascismo che, proclamando l’avversità alla grande impresa capitalistica e al Papa, attrasse a sé anche lavoratori e intellettuali. Fino a quando, nella sua subalternità politica all’ideologia d’impresa, dopo aver virulentemente proclamato il proprio odio per lo statalismo, il Vaticano e la grande impresa, firmò il Concordato e finì con il servire egregiamente i progetti sociali e statalistici di istituzionalizzazione di quest’ultima.

 

gli esiti antisociali della “bicamerale”

 

Una Lega “rivoluzionaria” che per ciò, al di là dei contenuti della sua rivoluzione, ha potuto apparire come “di sinistra” al sociale, nel mentre era “di destra nel politico”, continuando a raccogliere consensi e simpatie anche in settori popolari “orfani” di altre forze “rivoluzionarie”, dando conferma di tale immagine con idee-forza e progetti capaci di alimentare l’impressione di essere una forza antisistema, ma solo perché favorita dalla confusione indotta da tesi neo-conservatrici, che hanno trasposto il concetto di sistema e di conservazione dal sistema sociale al sistema politico, spacciando per “conservatore” non il mantenimento del sistema economico-sociale capitalistico, ma la salvaguardia della Costituzione democratica, della sua ideologia e del suo modello sociale di “Repubblica fondata sul lavoro”.

 

Sicché non solo così si è accreditata l’idea leghista di “rivoluzione” intesa come “cambiamento” del sistema politico per una più sostanziale conservazione del sistema economico-sociale, ma si è fornito alla Lega la credibilità di forza democratica e riformatrice “moderna”. Legittimando altresì, in un sol colpo, tutti i suoi progetti, anche quelli più palesemente anticostituzionali come il “federalismo”, non meno che tutte le sue proposte di “riforma istituzionale” e sociale. Contemporaneamente avvallando come democraticamente legittimi, tutti i progetti di “seconda repubblica” governativistica e autoritaria – elaborati dalle forze, palesi ed occulte, collegate al grande capitale – come quelli del “Gruppo di Milano” del professor Miglio, del “gruppo” di Firenze dei Marabini e dei Sartori, del “gruppo” P2 di Gelli con il suo affiliato Berlusconi, nonché dei vari Craxi, Amato, Segni, Fini, ecc. : tutti progetti che infatti, sono stati considerati degni di essere valutati, anche nella cosiddetta “bicamerale”, esclusivamente sotto il profilo della loro valenza tecnica in rapporto agli interessi politici contingenti degli schieramenti, ma senza alcun tipo di pregiudizialità democratica o sociale.

 

Le vicende e gli esiti autoritari e antisociali a cui è pervenuta la “bicamerale”, erano quindi già segnati “dal fatto che nessuna forza politica in Parlamento ha osteggiato la proposta di istituire la cosiddetta commissione bicamerale per le riforme istituzionali. Intese poi come “riforme costituzionali”, a causa del contesto delle “falsificazioni sistematiche operate da quella politica dell’immagine che è propria dei sistemi politici e costituzionali delle cosiddette grandi democrazie occidentali fondate sul bipartitismo, in cui la politica di gestione dello stato e la politica costituzionale sono deliberatamente poste sullo stesso crinale”(). Da tale concezione sono derivate anche una serie di proposte di costituzionalizzare Maastricht e il ruolo della Banca centrale come soggetto autonomo da chicchessia, Parlamento compreso, e persino aspetti attinenti agli interessi contingenti e tattici delle forze politiche e alla politica di gestione quotidiana, come ad esempio ma non solo, alcune delle proposte sulla giustizia volte a costituzionalizzare aspetti più confacenti alle semplici norme di legge.

 

L’ambivalenza politica di una Lega ideologicamente e socialmente reazionaria e antidemocratica, trova in tutto ciò una forza tale da rendere non solo difficilmente percepibile e credibile ogni tentativo di demistificazione, ma da consentirle di esercitare la sua ambivalenza facendola percepire come ulteriore conferma del suo carattere di forza “popolare” e “democratica”, “anti-sistema” e di “contro-sistema”. E’ ciò che è accaduto anche in “bicamerale” quando, grazie ad una sostanzialmente comune logica presidenzialista sottesa in entrambi le proposte dei due schieramenti, la scelta presidenzialista della Lega non è stata nemmeno per un attimo percepita e giudicata come espressione conseguente della sua natura antidemocratica, autoritaria e reazionaria, ma solo per la “forza” che dava ad uno dei due schieramenti, impegnati ad affermare non valori diversi ma chi era che doveva attuarli a suo modo. In tal modo la Lega è finita persino acclamata come forza “furba” e capace di porsi contro il “sistema politico” dei partiti “romani” e di rompere i “pateracchi” di potere dei vertici politici, tanto più meritoriamente in quanto concordati in forma conviviale in case private.

 

Nessuno ha potuto esprimere un giudizio di valore sulla Lega per la sua adesione ad un progetto di “costituzione autoritaria”, perché per i più si trattava di una scelta politica tra progetti di “ingegneria istituzionale” solo tecnicamente diversi, espressioni di una possibile varietà di “tecniche” e di soluzioni “tecniche”, tutte in funzione di una soluzione comunque univoca che muove in una sola direzione : quella del governo monocratico dall’alto e del predominio degli esecutivi sulle assemblee elette dal popolo, sia che si esplichi con il premierato piuttosto che con un presidenzialismo alla francese o all’argentina. In ogni caso, dentro e fuori la “bicamerale”, non erano state poste pregiudiziali di legittimità costituzionale democratica o sociale, rispetto al presidenzialismo come rispetto alle varie forme di “ducismo” proposte, vagliate e assunte dagli uni o dagli altri dentro la “bicamerale”.

 

il “federalismo di sinistra” come teorizzazione del separatismo

 

Così la Lega, che pure è stato soggetto anticipatore di soluzioni “ducistiche” di potere monocratico, nonché federaliste e anticostituzionali (non si dimentichi il “governatorato”), che è sempre stata propugnatrice di un potere dall’alto sempre più forte e autoritario, non è stata percepita per questa sua natura autoritaria, perché confusa nel mazzo dei tanti progetti di “modernizzazione” costituzionale e istituzionale.

 

Ma è anche a causa di tanta e tale omologazione che, onde evitare la perdita di senso in questa indistinguibilità istituzionale divenuta sempre più marcata mano a mano che la Lega venivano inseguita e le sue posizioni raggiunte dagli altri , la Lega ha trovato motivo e giustificazione per un suo ulteriore e progressivo spostamento verso opzioni più radicali, tanto più per essa vitali quanto più caratterizzanti e irriducibili a quelle altrui. Pertanto la Lega, a motivo della sua irrinunciabile “diversità”, ha in un certo senso “dovuto” arrivare al separatismo, tanto più quanto le si offriva una totale adesione ai suoi primogeniti progetti federalisti, da essa sventolati come un vessillo, sino a quando questo vessillo rappresentava manifestazione sufficiente della propria radicale “diversità”.

 

Ma tali progetti federalisti racchiudevano programma e idealità che per la Lega, già esprimevano prevalentemente un progetto separatista. Tanto che Bossi, dopo molto parlare di riforma federalista come riforma e controllo della finanza regionale, ha capito o gli hanno fatto capire, quello che avevano compreso persino in Russia dove, per il controllo della Banca centrale, è finita a cannonate sul Parlamento, ma che continuano a non capire i seguaci del “federalismo di sinistra”. Ossia che ciò che è decisivo è il controllo della moneta e della Banca centrale che, viceversa, il federalismo rende più solidamente controllato dal centro nazionale, escludendo le autonomie locali da ogni possibilità di intervento e controllo e delegando ad esse competenze solo nella altre materie (che a quel punto possono essere poche o anche tante senza che questo infici minimamente il rafforzamento del centralismo dato da un più completo controllo della moneta e della Banca centrale). Così che a un certo punto, la Lega continuava a parlare di federalismo, ma tra i poteri dello stato-membro del Nord includeva anche il controllo della moneta e arrivava a simboleggiare questo con la stampa fuori corso delle banconote padane. Il federalismo è però tale proprio perché assicura un controllo esclusivo del centro sull’economia e l’emissione di moneta e non può per ciò essere altro che la forma di un potenziamento del centralismo dello stato nazionale (a cui poi vengono fatti corrispondere anche poteri presidenziali). Quindi se include la moneta – su cui sono nati e formati gli stati nazionali – è secessione rispetto allo stato nazionale e il federalismo diventa la forma organizzativa riferibile solo al sistema interno di uno stato, che non è più quello nazionale attuale ma un nuovo “mini-stato”.

 

il “decentramento dimenticato” della Banca d’Italia

 

In ogni caso, sia che si applichi alla nazione italiana o nell’ipotetica nazione secessionistica padana, il federalismo non può che annullare le autonomie locali attraverso un proprio esclusivo controllo della moneta e dell’economia e teorizzare che, invece, il federalismo è una forma vera di sovranità autonoma delle comunità locali, equivale a teorizzare il separatismo di queste.

 

Paradossalmente dunque, chi ha sostenuto che ci può essere anche un “federalismo di sinistra” e un “federalismo autonomistico”, cioè capace di realizzare una effettiva autonomia da Roma delle comunità, ha in tal modo di fatto teorizzato il “separatismo”, dopo aver accreditato, di fatto, come quasi di sinistra il “federalismo separatista” dei progetti di Bossi.

 

Ma la logica dell’inseguimento della Lega sul terreno del federalismo, ha in tal modo portato anche ad obliterare, quella che era la sola e unica risposta al problema di un controllo dal territorio dell’Istituto di emissione nazionale e del sistema bancario e all’uso separatista del problema : l’attuazione del progetto costituzionale delle autonomie locali con il decentramento della Banca d’Italia, rispetto a cui avrebbe dovuto e potuto soccorrere la memoria storica di una sinistra che, negli anni 70, aveva aperto un confronto sindacale, poi abbandonato, sull’ impegno assunto dalla Banca d’Italia per decentrare l’Istituto di emissione.

 

Il fatto è che il significato diverso che si attribuisce ai concetti in rapporto all’uso diverso che si fa del significato dei processi storici, richiedeva una analisi storico-politica e giuridico-sociale di quella che è essenzialmente, non una teoria del potere, ma una teoria organizzativa funzionale quale è il federalismo. Quindi affatto riferentesi alla forma dello stato, come invece sembra far credere nel dibattito di oggi un certo politicismo e giornalismo a-scientifico d’accatto.

 

Lega e partiti, federalismo e secessionismo: chi ha usato e usa chi?

 

Invece non si è voluto esaminare e analizzare il federalismo sotto l’aspetto delle forme di potere e quindi di stato, da cui esso dipende, per potere usare il federalismo e la Lega di Bossi in funzione di un superamento delle forme di potere democratico dal basso delle autonomie. Per arrivare a cancellare quello che è previsto della forma di stato di democrazia sociale, definito dalla nostra Costituzione attuale e proporre il ritorno alle forme di potere autoritario dello stato liberale, di cui il federalismo è solo una sofisticata variante: la più autoritaria, centralista e verticista, delle varianti forme di potere dello stato liberale.

 

La forma di potere del federalismo non è infatti altro che la forma gerarchica del potere dall’alto tipica di uno stato liberale : un vertice monocratico centrale (che sia elettivo o meno, che si chiami re, o presidente della repubblica o del consiglio o cancelliere o governatore, non cambia la sua natura del suo potere); un governo da esso dipendente e un Parlamento sottoposto al governo. Dunque la stessa gerarchia di poteri dall’alto tipica dello stato liberale che, con l’organizzazione federale, viene riprodotta e moltiplicata in ognuno dei livelli dell’ordinamento istituzionale: regioni o macro regioni, provincie e comuni, gerarchicamente sottordinati e sottoposti al livello superiore, con al loro interno la stessa organizzazione gerarchica dei poteri dell’alto dello stato centrale : un potere monocratico di presidenti e sindaci eletti o indicati direttamente dal voto; giunte ad essi sottoposti e assemblee ovunque collocate all’ultimo posto dell’ordinamento.

 

la moltiplicazione federalista della distanza tra stato e società

 

Quanti passaggi e gradini deve superare, e in quanti punti di questi momenti gerarchici (i più dei quali nemmeno democratici ma monocratici), può essere fermata, svuotata o cancellata, una istanza politica o sociale di una comunità territoriale, di un quartiere, di una fabbrica, o anche di una assemblea comunale, lo si può facilmente vedere : 12 contro i 4 delle assemblee elettive definite dall’ordinamento costituzionale della attuale Repubblica. L’impedimento ad una rappresentazione istituzionale del pluralismo degli interessi e della dialettica e conflittualità sociale del territorio, già alterata e svuotata dal sistema elettorale maggioritario, sarebbe ancor più completa. Con in più i reciproci adeguamenti tra organizzazioni di partito e di sindacato a un tale ordinamento gerarchico che, anziché favorire la partecipazione dei cittadini alla determinazione della politica nazionale anche attraverso le loro associazioni, la ostacolerebbe e impedirebbe, in ogni caso limitandola all’ambito delle questioni “locali” attribuite alla competenza delle regioni o stati-membri.

Con in più lo sparpagliamento dei poteri e delle competenze, in una miriade di agenzie e organismi privati di organizzazione degli interventi nei vari livelli.

 

La risposta alla distanza crescente apertasi tra cittadini-lavoratori del territorio e istituzioni e partiti – determinato non dal sistema previsto dalla “Costituzione formale” ma dal suo snaturamento operato dalla “costituzione materiale” del sistema di potere democristiano -, viene quindi cercata in direzioni volte ad affermare il carattere assolutamente distaccato delle istituzioni dalla società, allargando la forbice con le modalità istituzionali tipiche della forme di stato liberale, potenziate all’ennesima potenza da quelle di uno stato liberale a base federalista, che rende tale divario pressoché incolmabile, al punto da aver inciso sulla stessa credibilità del suffragio universale, in quei paesi che come gli Stati Uniti lo hanno adottato. Ma il passaggio che si vuole operare da una forma di stato ad un’altra, non è data dal federalismo ma dal passaggio dallo forma di stato di democrazia sociale della attuale Costituzione allo forma di stato liberale. Non è il federalismo che determina la forma di stato, ma è la forma di stato che determina le condizioni del potere centralistico e di vertice necessarie per il federalismo.

 

Non si è fatta alcuna analisi né alcun dibattito sulla forma e la natura del potere nel federalismo, per non demistificare il concetto leghista di federalismo e non rivelare così la natura centralista e autoritaria del federalismo, onde mascherare, dietro il federalismo e dietro l’immagine anticentralista che ne aveva dato la Lega, il passaggio dall’ ordinamento democratico della nostra Costituzione alle vecchie forme autoritarie del potere liberale.

 

la ricerca leghista di una storia preunitaria

 

Si è sottovalutato, al solito, l’importanza ideologica che per la Lega aveva il federalismo, il rispolverare o il riecheggiare il Cattaneo o il scimmiottare altri Paesi, dimenticando la valenza ideologica che esse assumevano come affermazione di riferimenti diversi da quelli della storia del Paese, come contributo alla ricerca delle proprie origini in una storia e in storie diverse da quella che hanno portato all’unità nazionale storicamente data, come il rifiuto di una storia che è stata ma che poteva anche non essere e che potrebbe essere anche diversa, tanto da poter fare riferimento ad una storia diversa come quella di “prima” dell’Italia e quella di altri paesi, come in tanti fanno.

 

In tal modo l’inseguimento della Lega sul terreno del federalismo ha significato, agli occhi delle genti, l’accreditamento di una possibile storia diversa del paese e della mistificazione di un progetto “federalista” che era già prevalentemente “separatista”, tanto che la Lega ha sempre irriso e rifiutato di riconoscere lo status di federalista a tutti gli altri progetti.

Né si può ignorare che l’adesione al progetto federalista che la Lega sventolava come un vessillo di protesta verso l’ordine statuale centralizzato, deve aver dato ancor più forza ad una protesta che era già forte di per sé, perché avente un retroterra non solo di tipo culturale, ma anche e soprattutto economico, concernente l’opportunità di determinati soggetti sociali, singoli e collettivi, di trarre benefici da un “federalismo” che si riferisce direttamente alla possibilità di acquistare nuovo benessere individuale attraverso un controllo del sistema politico e territoriale proprio.

 

il possibile uso gollista del separatismo

 

A fronte di una comunità leghista in cui l’agire secondo l’interesse personale, é da sempre considerato il modo migliore per ottenere risultati per una intera comunità, intesa come quella composta dagli aventi un pari livello economico, tutto questo non può non aver rafforzato il convincimento che il federalismo fosse da intendersi come una forma di “separatismo”, in cui cioè soddisfare da sé i propri interessi, nel contempo evidenziando come a questa idea mistificata non vi corrispondevano i progetti federalisti veri che venivano rivelandosi nazionalmente accentratori. Portando a maturazione una convergenza tra gli interessi materiali della gente leghista, volta ad esplicare una concezione separatista del federalismo e la necessità dei dirigenti di rendere più distinta e marcata la identità della Lega, rispetto a tutti coloro che erano venuti affollandosi sul suo terreno “federalista”, connotando nuovamente la propria “diversità” anche ideologica con la bandiera del separatismo.

 

Il separatismo che ha per la Lega un significato anche araldico, di identità e distinzione da tutti (quasi quanto per i comunisti emiliani era indispensabile professare il proprio “filosovietismo” e portare il distintivo dell’Urss per potersi identificare e distinguere dai tanto a lungo disprezzati socialdemocratici a cui assomigliavano tanto), è però anche diventato per altri, una insperata occasione per poter sbandierare una propria “Algeria domestica”, di cui approfittare per invocare uno stato di emergenza nazionale e, quindi, come fece De Gaulle in Francia con la vera Algeria, invocare la definitiva abrogazione della Repubblica democratica parlamentare e delle autonomie e la costituzionalizzazione della “nuova Repubblica federale”, antiparlamentare e autoritaria, delineata dalla “commissione bicamerale.

 

Uno dei rischi possibili è per ciò che come per il federalismo, anche questa volta altri pensino prima ad usarlo che a contrastarlo, più o meno volutamente e più o meno consapevolmente. Come pare si è già iniziato a fare non solo con la esplicita invocazione ad approvare i progetti di riforma costituzionale in nome dell’emergenza nazionale, ma anche con la enorme cassa di risonanza e contemporanea sottovalutazione, che continuano a godere quelle che appaiono le giravolte politiche di Bossi e i “riti” del leghismo, quasi fossero manifestazioni stravaganti di poco valore, in conferma della scarsa importanza che si continua ad attribuire alla valenza ideologica di tale movimento, forse anche a causa di una ormai consolidata mancanza di dimestichezza con i movimenti sociali di massa e della perduta memoria storica di cosa essi siano realmente, che ostacola la capacità di contrastare Leghe e leghismo.

 

 




E.J.Hobsbawm, Il secolo breve, pag.19, Rizzoli, Milano 1995. Vedi anche dello stesso autore, Il Trionfo della borghesia 1848/1875, Laterza, Bari 1976.

K. Marx F. Engels, Il manifesto del partito comunista, pag. 58, Ed Riuniti, Roma 1983.

Hobsbawm, idem.

Hobsbawm, idem.

“La borghesia…ha lacerato spietatamente i variopinti legami feudali che avvincevano l’uomo al suo “superiore naturale”, e non ha lasciato fra uomo e uomo altro vincolo che il nudo interesse, lo spietato “pagamento in contanti”. Ha affogato nell’acqua gelida del calcolo egoistico i santi fremiti dell’esalatazione devota, dell’entusiasmo cavalleresco, della sentimentalità piccolo-borghese. Ha fatto della dignità personale un semplice valore di scambio…(Karl Marx, F. Engels, Manifesto del partito comunista, pag. 56-57, Ed Riuniti, Roma) 1983

Addirittura uno dei disegni più accreditati e credibile appare essere quello che prevede

” una intesa di Berlusconi con il Pds sulle riforme costituzionali; elezioni politiche; vittoria dell’Ulivo; D’Alema a palazzo Chigi e il Cavaliere al Quirinale” (Carlo Fusi, Il Messaggero, 9 settembre 1997), in un rapporto di dare ed avere tra azionisti di maggioranza e di minoranza ormai in corso da tempo.

Giuseppe Are, Sinistre europee alla prova Welfare, Il sole -24 ore del 19/8/97. Il quale Are, oltre a rilevare l’aspetto paradossale del fatto che a fare questo sono state chiamate al governo un po’ ovunque le sinistre, evidenzia che una delle ragione di ciò è la “possibile convergenza pragmatica di motivazioni e intenzioni di voto alla Agnelli, alla Prodi e addirittura con quelle alla Bertinotti” e dopo la citata frase di Agnelli riporta quelle di Prodi e Bertinotti, notando i punti di convergenza: “Non possiamo portare a termine le riforme di cui abbiamo bisogno prendendo di petto le organizzazioni dei lavoratori (Prodi). Terremo in piedi questa maggioranza solo finché la sua politica e i suoi interventi sullo Stato sociale non colpiranno il tenore di vita e le difese così faticosamente conquistate dai ceti più deboli(Bertinotti)…Questi giudizi – prosegue Are – danno tutti per scontato che la sostanza delle nuove politiche di ridimensionamento del Welfare debba coincidere con una maggiore libertà di movimento e di azione del fattore impresa e del fattore capitale.” Ed anche se tale processo “produrrà decurtazione dei redditi del lavoro dipendente…tali giudizi implicano che la fase e le modalità delle ricontrattazioni saranno i passaggi vitali del processo. Per ciascuna di queste ottiche è intuitiva la convergenza verso l’obbiettivo : non essere tagliati fuori dalla ricontrattazione”.

Donata Francescato, Quando l’amore finisce, Il Mulino, Bologna, 1992.

V. Geng, Requiem per il movimento delle donne, cit. da Lasch, idem.

Salvatore d’Albergo, La foglia di fico della sinistra..., idem.

 

La Lega nella prospettiva della politica italianaultima modifica: 2011-03-25T00:43:00+01:00da iskra2010
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