L’abbandono della democrazia di massa e il leghismo

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di Salvatore d’Albergo*

 

Prefazione

Il fenomeno leghista è stato analizzato con criteri soprattutto “sociologici” – specie all’inizio degli anni novanta -, con gravi rischi di separatezza da quell’indagine di tipo organico che sempre si rende necessaria per interpretare gli aspetti anche più eclatanti di una crisi che, nel paese e nel suo ordinamento, presenta cause generali e complesse.

 

Quello che è di certo mancato – suggerendo ad Angelo Ruggeri un impegno volto a collocare il “leghismo” nella storia sociale, politica e istituzionale degli ultimi venti anni – è un tipo di lettura che non fosse a sua volta espressione di una subalternità culturale, come quella manifestatasi nel periodo in cui il “leghismo” si è affacciato – in termini apparentemente marginali – sulla scena italiana, mentre andava profilandosi una crisi della democrazia di massa determinata, a partire dal 1975 e con contraddizioni generali a carico del sistema democratico, dalle contraddizioni maturate in modo via via sempre più incontrollabile all’interno del Pci e della Cgil, a causa dell’indisponibilità della destra comunista – dapprima i “miglioristi”, poi la maggioranza predispostasi a fondare il Pds – a proseguire le lotte che, in nome della Prima Parte della Costituzione del 1948, avevano segnato specialmente la fase di acuto scontro di classe degli anni 1968-74.

 

L’attardarsi sulla considerazione delle manifestazioni più “esteriori” e più “simboliche” del “leghismo” – localismo, razzismo, antimeridionalismo -, mentre non ha aiutato l’analisi della storica contrapposizione “nord-sud”, già nota nei termini della sempre più aperta e grave “questione meridionale”, nel contesto ha fatto perdere di vista i connotati di una crisi che ha partorito il “leghismo”, perché l’egemonia culturale con cui il Pci si era battuto per attuare in nome dell’unità democratica la “via italiana al socialismo” – con ciò incalzando la Dc e il ceto medio verso una prospettiva sociale e politica incompatibile con il dominio della grande impresa -, si andava trasformando in subalternità culturale, in nome di una adesione all’idea di “modernizzazione” che, come tale, spostava l’asse dei rapporti sociali, politici e istituzionali più a destra della prima tanto deprecata posizione “revisionista” della socialdemocrazia, non solo italiana ma anche europea.

 

E’ così che incubazione, nascita e sviluppo improvviso del “leghismo” – particolarmente della Lega di Bossi, stante l’egemonia lombarda da vedere anche in connessione con il prevalere nel Pci lombardo dei “miglioristi” -, sono databili in stretto collegamento con il progressivo abbandono, da parte sia del Pci che della Cgil, della lotta per le riforme sociali, imperniate sullo stretto raccordo tra strategia di trasformazione in senso sociale dei rapporti economici e convergenza istituzionale sul territorio, in una prospettiva che poneva le piccole imprese in una visione del “lavoro” come motivo di un patto, con un movimento operaio deciso a fare della programmazione democratica dell’economia lo strumento di valorizzazione delle forze richiamantesi ai valori di un nuovo tipo di civiltà, fondata sull’emancipazione e non sul profitto.

 

La spinta alla ribellione che ormai caratterizza a strappi successivi il “leghismo” di Bossi, altro non è che la ritorsione di forze atavicamente portate al populismo, come strumento dell’individualismo più egoistico, contro quelle forze che, a prezzo di lotte ispirate da una grande prospettiva di rinnovamento culturale, avevano saputo incrinare il fronte ideologicamente omogeneo di un capitalismo che, peraltro, nella distinzione tra grande, media, piccola impresa esprime una possibilità di alternativa alla formazione sociale che ha segnato di sé circa due secoli di storia sociale e politica, se riprende vigore la coscienza critica delle forze che ispirantisi al marxismo o ad altre impostazioni teoriche critiche del capitalismo privato, puntano ad una trasformazione degli attuali assetti di potere, che non da oggi sono internazionalmente collegati.

 

Ruggeri ha perciò intrecciato l’analisi puntuale delle connessioni del fenomeno “leghista”, nato per una crisi generale della democrazia di massa, divenuta cronica per ragioni che non prescindono ma non si identificano con la caduta del “socialismo reale”, con la puntuale argomentazione delle ragioni che sostengono il fondamento di un rilancio della democrazia dal basso, in un momento in cui l’equivoco del federalismo, agitato vittoriosamente da Bossi, nasconde il rafforzamento dei poteri istituzionali concentrici nello stato e nelle regioni-stato, per assecondare il primato del sistema delle imprese e cancellare l’autonomia del lavoro e, con essa, di tutte le forze sociali compresi soggetti diversi dal movimento operaio che, fuori dall’egemonia della cultura della democrazia di massa, sono inesorabilmente risucchiate dalle spire dell’ideologismo più conservatore e reazionario, verso una organizzazione del potere che li farebbe complici di una svalorizzazione della civiltà, mantenendola in uno stato di “corporativa” sudditanza verso il grande capitale internazionale. Donde l’egemonia di Bossi nella “commissione bicamerale” di D’Alema, ottenuta agitando lo spauracchio della secessione secondo l’ispirazione di Miglio, secondo cui lo spettro della secessione sarebbe stato e si sta rivelando decisiva, per portare il Pds a rivendicare il merito di stravolgere la Costituzione proprio a partire dal federalismo.

 

Dal momento emblematico del suo insediamento nel cuore dello Stato – ad onta del suo riduttivo “localismo” – per il ruolo decisivo svolto nel proporre la riforma “neo-presidenzialista” della “forma di governo” a supporto della pressione verso il federalismo, la Lega-Nord si è via via consolidata sia mediante il suo incardinamento nelle zone della “Pedemontania”, sia sviluppando l’incidenza che la sua “marginalità” nella percentuale nazionale dei consensi proprio per ciò è riuscita a provocare, incuneandosi nel sistema di alleanze tra Forza Italia e Alleanza nazionale (oltre all’Udc). Mantenendo una costante fibrillazione nel bipolarismo italico, per sua natura reso instabile anche per le latenti commistioni tra il centrodestra e il centrosinistra post-DC, PSI e PCI che, appunto tramite la Lega e il Pds (Ds, e poi PD), sono variamente riapparsi specialmente nel Nord, nel segno sempre più incombente di un equivoco e acritico federalismo, diffusosi nel nome del cosiddetto “regionalismo forte”, accolto nella stessa sinistra “radicale”.

 

E’ così sotto gli occhi di tutti quella forma di estremizzazione a “singhiozzo” (apparentemente circoscritta in ambito “localistico” con proiezione nazionale) di spinte antisociali agitate nella contesa tra centrodestra e centrosinistra per il primato “gestionale”, stante l’omogeneità dei presupposti ideologici del bipolarismo “maggioritario” di cui la Lega di Bossi ostenta di qualificare i contenuti più egoistici, retrivi e demagogici coerenti con il primato del mercato, e quindi di un capitalismo che – dal canto loro – i titolari delle grandi imprese e della finanza cercano di presentare meno emblematicamente aggressivo all’ombra di un europeismo che mistifica i rapporti tra economia, politica e istituzioni.

Aggressività dei piccoli

 

Per comprendere come questo fenomeno abbia potuto allignare, con rischi di progressivo travalicamento dei confini della cosiddetta “Padania”, va quindi tenuto presente che la Lega ha dissimulato la sua intrinseca vocazione a fare da puntello oltranzista dell’ideologia del mercato imposta dalla rete delle imprese transnazionali, dietro la denuncia dei guasti derivati, dopo la metà degli anni ’80, dalla simbiosi tra il “sistema dei partiti nazionali” e il “centralismo burocratico-statale”. Si da occultare dietro alla ventata di un americanismo velato dal vagheggiato europeismo, che il federalismo è portatore di un più “moderno” verticalismo istituzionale, che intorno al suo nucleo centrale – cioè il vero e proprio “stato federale” accentratore dei dominanti poteri economico-finanziari e militari – coopta, sotto il manto della cosiddetta “solidarietà”, i gruppi di potere delle varie frazioni della borghesia “produttiva” anelanti a contrapporre, dalla “Padania”, una questione “settentrionale”. Ovvero questione sostitutiva ideologicamente della questione “meridionale”, destinata a ulteriormente incancrenirsi all’ombra di un nascente “paraleghismo” del Sud inconsapevole della nefasta inclinazione impressa dal “berlusconismo”, al rapporto tra le classi che passa dai territori.

Equiparando la forza istituzionale dei vertici (cosiddetti “regionali”) federati e complici delle scelte di fondo del “governo federale”, ma con ciò gerarchizzando implicitamente e copertamente le parti più deboli delle forze sociali specialmente del Mezzogiorno, l’accoppiata leghismo/federalismo punta, ossessivamente, a trascinare tutto il quadro socio-politico del bipolarismo, in una spirale che annulla le differenze, meramente “parlamentaristiche”, tra centrodestra e centrosinistra. A tal punto che le premesse addirittura “costituzionali” del federalismo, sono state poste nel 2001 (con una forzatura fatta passare con un esangue referendum confermativo) dal centrosinistra, incurante di liquidare, in tal modo, i residui di una contrapposizione di classe, sbiaditasi proprio con il confluire dello stesso voto operaio nelle centrali lombardo-venete. Centrali, ove la Lega riesce a iugulare sia Forza Italia sia AN, estraniandosi provocatoriamente dal tentativo di unificazione del partito della libertà (Pdl), sulla scia di una vocazione alla mobilitazione di massa, volta a garantire spazi di potere dall’alto agli interessi della piccola e media impresa, nella competizione con la grande impresa capitalistica.

 

In tale operazione la Lega si avvale della rottura del ruolo della democrazia di massa, perpetrata dall’introduzione del “presidenzialismo” mediante elezione diretta di sindaci, presidenti di provincia e presidenti di regione – autoproclamatisi pomposamente “governatori – come rete di un potere di vertice, ricompattabile a sistema antitetico al ruolo democratico delle assemblee elettive. Si che l’attacco demagogico a “Roma ladrona”, si configura come disegno volto a rilegittimare un centro nazionale persino più autoritario – nelle forme equivalenti del premierato, del presidenzialismo statunitense, semi presidenzialismo francese, cancellierato tedesco – purché coerente con l’obiettivo dei “leghisti” di installarsi in prima persona ai vertici dei territori in cui organizzare il primato delle imprese private di tutte le dimensioni, contro l’autonomia sociale delle forze del lavoro e contro l’autonomia politica delle istituzioni locali, ridotte dal federalismo al ruolo di ratifica subalterna del neo-corporativismo serpeggiante nei rapporti tra sistema produttivo e istituzioni federate.

 

Le considerazioni di Ruggeri, sono la condizione per comprendere la gravità degli artifici a cui si è dovuto ricorrere, da parte dei giuristi cosiddetti “democratici” e della stessa Corte Costituzionale, per legittimare il rovesciamento che – in nome del federalismo “organico” respinto dal referendum popolare del 2006 – si tende ad imporre, nascondendo dietro l’esotica formula di “devolution” il contrasto che c’è in termini di principio e nella realtà, tra l’unità di uno stato democratico fondato sulla simbiosi fra autonomia sociale e autonomia politica, e l’unità “composta” e accentrata di uno stato federale fondato sulla cancellazione del potere “dal basso” e sulla “concentrazione” verticistica dei poteri degli esecutivi centrale e decentrati, in nome dell’esigenza di coniugare la stabilità degli “interessi” capitalistici e la stabilità del sistema di governo.

 

Rimane così dimostrato che la Lega serve a Berlusconi e Fini per completare il “vulnus” dei Principi Fondamentali della Costituzione che sono stati dichiarati “immodificabili” dalla Corte Costituzionale, ma sul falso presupposto che essi si compendiano solo nei “diritti” con esclusione della “forma di stato” e della “forma di governo” contro, quindi, il nesso esplicito degli artt. da 1 a 5 dei Principi stessi, che sarebbero effimeri se i “diritti” non si reggessero sui poteri.

Sui poteri di istituzioni come tramiti di autonomie sociali e istituzionali, e non già come strumenti di concertazione tra soggetti resi incontrollabili, col passaggio alla simbiosi tra il metodo elettorale maggioritario centrale e presidenzialismi locali.

Milano, 8 settembre 1997/10 maggio 2009

 

* Università di Pisa

Presid. Centro culturale “Il Lavoratore”

 

 

 

L’abbandono della democrazia di massa e il leghismoultima modifica: 2011-03-26T00:54:00+01:00da iskra2010
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