TRA REVISIONISMO STORICO e REVISIONISMO GIURIDICO LA COSTITUZIONE DEL 1948

 

Costituzione italiana 2.jpgelaborazione MOWA

 

 

di Angelo Ruggeri

1.-Senza sminuire l’incidenza negativa di una tendenziale insensibilità/estraneità dei comunisti (dirigenti di partito e di sindacato, intellettuali “specialisti” come filosofi, storici, sociologi, economisti oltre che, e soprattutto, “giuristi”) ai problemi del rapporto tra lotta di classe e diritto a cominciare dalla “costituzione”, dobbiamo denunciare di fronte all’iter cui è pervenuto il progetto di “revisione della Seconda Parte” della Costituzione italiana del 1948 dopo trentanni di avvio della strategia delle “riforme istituzionali”) la fase che segna pericolosamente sul piano prima della cultura e poi della politica, il prevalere di un revisionismo che accomuna il più visibile tentativo “berlusconiano” di rovesciare la portata degli esiti della sconfitta del nazifascismo, con il più mistificatorio ma operativamente penetrante revisionismo giuridico, la cui specifica portata è quella di omologare con “tecniche” disparate ma univoche persino le più distanti concezioni del potere ispirantisi alle diverse “filosofie politiche”, e relative “teorie politiche” dello stato.

E infatti nel campo marxista se nel periodo 1944-1978 si è molto stentato a riconoscere che la Costituzione entrata in vigore col suo originale modello formale nel 1948 non poteva essere conseguentemente valorizzata confondendo la strategia volta ad un processo di trasformazione sociale e politica della società e dello stato con la versione “tattica” della “democrazia progressiva” cui si è dovuta piegare la metodologia complessiva di Togliatti, oggi si è nella condizione oggettiva di prendere atto della qualità differenziale che tale modello è intervenuto a documentare rispetto non solo ai modelli del costituzionalismo ottocentesco e del primo novecento, ma anche a quelli del secondo novecento (come quello della Germania di Bonn, e della Francia divenuta rapidamente “gollista” nel 1958): e ciò in quanto le une e le altre rientrano negli schemi dottrinari di tipo conservatore o neo conservatore che la dottrina giuridica raffigura come varianti del prototipo combinatorio dell’endiadi capitalismo/autoritarismo, rappresentati – storicamente e convergentemente – dal modello britannico del “premier” e dal modello statunitense c.d. “presidenzialista”.

A diradare le nebbie dai fraintendimenti di chi ha visto il rapporto tra democrazia e socialismo in termini dogmatici, senza valutare sino in fondo le implicazioni istituzionali dell’organizzazione del potere necessario a superare gli istituti politico-economico-sociali del capitalismo privato e del capitalismo di stato, è intervenuta quella tendenza al revisionismo storico le cui linee di indirizzo si articolano su due filoni teorici convergenti: l’uno estraneo al modello della costituzione italiana del 1948 proprio in contrasto con l’antifascismo ha segnato di sé l’ideologia della Costituzione contro il fascismo e il neo-fascismo, e l’altro risalente alla stessa fase elaborativa di tale modello senza tuttavia riuscire a caratterizzarlo, stante la consistenza minoritaria della cultura ispirata all’idea dello “stato moderno” di quel “partito d’azione” che non a caso si è dissolto nel 1947, mentre cioè esplodeva il conflitto ideologico internazionale e veniva approvata tuttavia la nuova costituzione entrata in vigore l’anno dopo.

Infatti se si colloca il lavorìo volto – come incautamente si è detto (e si ripete ) – ad “adattare” la costituzione alle nuove forme della società, ma sfociato nel progressivo maturare dei tentativi reiterati di pervenire alterando il metodo della “revisione” costituzionale ad una “seconda” (o “terza”) repubblica (pur senza ricorrere all’elezione di una assemblea costituente) nel contesto delle vicende internazionali e nazionali che l’hanno accompagnato, si può cogliere la duplice traiettoria che ha segnato con la tradizionale “separatezza” l’intervento “controriformatore” in una realtà che veniva enfatizzata nel segno ideologico della “innovazione” (la rivoluzione tecnologica, con le sue varie implicazioni), per mascherare quel processo involutivo rivelato dalla conversione “ideologica” verso il “primato del capitalismo” proprio di quelle forze che avevano aperto un nuovo orizzonte di lotta sociale e politica negli anni 1944-48, raffigurando nel modello della costituzione il nuovo criterio di legittimazione del potere in nome del primato della democrazia, e quindi dell’utilità sociale sugli interessi organizzati con radicamento sugli istituti della proprietà e dell’impresa.

Il ritorno a quella separatezze che, nel segno del marxismo, la nuova cultura democratica aveva cominciato a superare, si è così delineato a partire dalla fine degli anni ’70, con la rimonta divenuta oggi eclatante di un “giuridicismo” che negli anni ’60-70 era stato confinato negli anfratti di una scienza giuridica costretta finalmente a misurarsi con i nessi tra politica ed economia che l’acuirsi del conflitto di classe esaltava oggettivamente per la forza innovatrice dei principi costituzionali configuranti la legittimazione del “controllo sociale e politico del sistema produttivo”: con tutte le conseguenze che ciò comportava a causa del carattere pervasivo dell’antitesi capitalismo-socialismo, impostata dai comunisti italiani (sulla base di matrici marxiste eterodosse rispetto al “socialismo reale”, con i vari “distinguo” imposti nel tempo dai casi Urss, Cina, Jugoslavia, Cuba), in vista dei processi di transizione prospettati nell’Occidente Europeo ove era ed è rimasto emblematico il “caso italiano” per aspetti che tuttora si segnalano trovando riferimento nella costituzione.

Il procedere “parallelo” del revisionismo storico e del revisionismo giuridico con l’obiettivo di restituire anche l’Italia alle condizioni da cui dipende una costruzione coerente del “sistema-Europa” come preconizzato sin negli anni ’50 dalle classi dirigenti anticomuniste che hanno firmato i primi dei numerosi Trattati succedutisi sin qui, ha accompagnato un’operazione di liquidazione dell’antifascismo in quanto movimento ideologico perché egemonizzato dai comunisti (tramite Resistenza, lotta partigiana e potere dei Cln), nascondendo dietro ai tentativi addirittura di equiparare nazismo e comunismo l’interesse reale e preminente a delegittimare il fondamento della introduzione di forme di potere di controllo del sistema produttivo proprio del capitalismo, da cui solo possono conseguire quei “diritti sociali” che il liberismo rigetta in linea di principio , accettando a malincuore come “compromissoria” la concezione “assistenzialistica” del cosiddetto “stato sociale” di ispirazione corporativa, sia in senso socialdemocratico che in senso fascista.

L’operazione volta a demonizzare, dopo la caduta del 1989, la rivoluzione d’ottobre, viene occultata persino dietro l’alternativa tra “violenza” e “non violenza” oggi inopinatamente riesumata da una sinistra “parlamentarista” piegatasi al rigetto dell’idea stessa di “democrazia sostanziale” perché implica una trasformazione dei rapporti socio-politici assunti in un intreccio tra elementi strutturali ed elementi sovrastrutturali entro un modello di organizzazione dei rapporti tra società e stato incompatibile con il costituzionalismo “liberal-liberista”, nella prospettiva del passaggio dal capitalismo ad una transizione socialista: e la novità stava nell’intendere il ruolo “soggettivo” del concorso dei comunisti all’elaborazione di una “costituzione-programma” ben più che come mera predisposizione ad entrare nel governo dello stato (la “stanza dei bottoni” perseguita poi dai socialisti), come impegno a guidare le lotte sociali e politiche conformando “oggettivamente” le istituzioni politiche all’obiettivo di condizionare il potere economico (grandi concentrazioni finanziarie e industriali), facendo prevalere in nome del “lavoro” gli interessi collettivi sul profitto.

Ciò significa, proprio per stare al caso italiano – senza peraltro scinderlo dai processi di sempre maggiore internazionalizzazione del capitalismo già ben delineatosi nel volgere dagli anni ’60 agli anni ’70 (come risalta nella diagnosi di Pala, in L’ultima crisi, del 1982) – che non a caso è fuorviante far risalire le vicende culminanti nell’attacco odierno alla Costituzione solo alla fine degli anni ’80 ed inizi anni ’90: in quanto ciò vale a prendere spunto dalla crisi sovietica per una liquidazione generale e complessiva del comunismo e del marxismo, con l’intento di non dare evidenza al revisionismo giuridico di cui approfitta l’attuale centro-destra, in quanto la sua origine risale già alla metà degli anni ’70, quando si è manifestato nei termini più cruenti lo scontro di classe già alimentato dal movimento operaio e dilatatosi con l’esplodere della “contestazione” dei movimenti muniti di una coscienza anticapitalistica ben più consapevole di quella interna ai movimenti “no-global” odierni.

E la datazione riferibile alle dinamiche conflittuali del caso italiano soccorre l’articolata ricostruzione del procedere in parallelo negli ultimi trentanni del revisionismo storico e del revisionismo giuridico, in quanto in prima battuta si è operato per abbandonare la delegittimazione dei neo-fascisti a opera di un antifascismo ormai privato di ogni funzione militante (quando i soli aderenti all’Anpi sono stati delegati dal Pci a “santificare” il 25 aprile), salvo in seconda battuta profittando della sopravvenuta crisi del “socialismo reale” passare più direttamente a purgare l’antifascismo dall’ascendente politico-culturale del partito comunista: sì da dar luogo ad una ricongiunzione mistificata tra revisionismo storico e revisionismo giuridico quando le ipotesi di stabilizzazione socio-economica e di preminenza dell’esecutivo sulle assemblee elettive – sulla scia delle provocazioni in senso autoritario ispirate dalla destra reazionaria e occulta – vengono assunte gradualmente da tutte le forze politiche del “pentapartito”, coinvolgendo negli anni 1985-88 lo stesso Pci e le forze politiche eredi del Pci trasferitesi nel Pds-DS, negli anni ’90.

Per rendersi meglio conto delle circostanze che hanno congiurato a favore di una progressiva sovrapposizione dei due revisionismi, non va dimenticato che il significato del “pluralismo” (sociale, politico) si inscrive nell’ambito delle diverse impostazioni ideologiche che sono state alla base delle formazioni organizzative nella fase della Resistenza, con mutamenti che sono analiticamente descrivibili identificando nei loro presupposti teorici e nelle loro dinamiche politico-programmatiche le “correnti” che (alla fine coinvolgendo lo stesso Pci, partito tradizionalmente “monolitico” sino alla fine degli anni ’60), grazie al sistema elettorale proporzionale hanno intessuto la complessa e contraddittoria trama della fase successiva all’entrata in vigore della costituzione del 1948.

Sì che mentre sopravvive qualche ricordo che Fini insiste sul “presidenzialismo” perché già nel 1943 il Mussolini della Rsi lanciò la proposta di passare dalla monarchia alla repubblica presidenziale, non molti rammentano che la scelta in sede di assemblea costituente per la repubblica presidenziale venne a sua volta prospettata dal Calamandrei per il partito d’azione, la cui “destra” si era premurata in antitesi ai comunisti a puntare a una visione di “razionalizzazione” dei poteri statali, tramite un esecutivo dotato di “autorità e stabilità” (per una ricostruzione dei termini della questione, vedasi De Luna, Storia del partito d’azione, 1982 pagg. 270-287).

Ed è seguendo le vicende del pluralismo – nel contrasto endemico che negli anni 1948-1978 ha caratterizzato i tre grandi partiti di massa già convergenti nel patto costituente in una strategia non “limitata al mero solidarismo”, ma estesa alla “socializzazione del potere” economico e politico – che si possono enucleare i punti dirimenti di un trentennale contrasto tra le variegate forze centriste e i comunisti, accompagnato dal ricorso sistematico delle forze moderate agli artifici dell’ingegneria “istituzionale” mediante l’adozione cioè di espedienti canonizzati dall’ideologia giuridica, come quello che (ricorrendo ad una arbitraria e maccheronica “conventio ad excludendum”) è valsa a conseguire effetti propri dei sistemi “maggioritari” (con interventi abnormi condivisi dai vari Presidenti della Repubblica) dalla deformazione del sistema elettorale proporzionale: con l’obiettivo di impedire al secondo partito della Repubblica di entrare “a far parte” nonché di essere legittimato “protagonista” della formazione di maggioranze parlamentari necessarie a superare la crisi del “centrismo” e del centro-sinistra: il che era tanto più grave, quando la forza elettorale della Dc era divenuta inferiore al 40%, e ben poteva essere ricusata l’idea che essa a priori e incondizionatamente fosse assunta come asse motore del sistema politico-parlamentare italiano, sotto la etichetta di “partito di maggioranza relativa” entrata nell’uso politico-culturale.

Il fatto, risultato decisivo, che sia pure di stretta misura (e appunto grazie all’estremo pluralismo provocato dalla resistenza alle inaccettabili pretese di “dominio” della “centralità” DC), non abbia potuto operare la famosa “legge-truffa” del 1953 volta a “formalizzare” le distorsioni in senso “maggioritario” del principio proporzionalistico, non toglie che con il concorso della maggioranza dei giuristi in Italia abbia operato quella che è stata chiamata “democrazia bloccata” e quindi “incompiuta”, con il concorso dei “politologi” venuti a consacrare le mistificazioni di una giurisprudenza ancorata alla nefasta teoria della “costituzione materiale”: per cui si è parlato di democrazia resa “difficile” da un “bipartitismo imperfetto”, raffigurato da Sartori (divenuto maestro di dottrina del “centro-sinistra” attuale) con l’immagine del “triciclo”, le cui “ruote estreme” erano identificate e nel Pci e nel Msi: essendo il centro comunque organicamente anticomunista.

La lezione che se ne deve trarre, è che in tutto il periodo che viene simbolicamente indicato come “prima repubblica”, la continuità formale della democrazia – come regime nel quale in base alla Costituzione si puntava non più genericamente a “garantire i diritti” (come si dice ignorandone deliberatamente la Prima Parte, con l’introduzione nel 1993 del principio elettorale “maggioritario” e l’avvento del “bipolarismo” perseguito ciecamente da Ds e Pp) ma a “fondare nuovi diritti” sulla base della modifica degli assetti di potere sociale e politico secondo la strategia incentrata sull’art. 3, secondo comma, dei Principi Fondamentali – non è stata mai esente da insidie, prima palesi (nel periodo 1947-1960) e poi “occulti” (o “sommersi”), con tentativi nei quali è stata presente a sostegno dell’azione “extraistituzionale” quella rivendicazione di tipo teorico sollecitata da destra con l’obiettivo insistito delle “riforme istituzionali”.

Una volta sconfitta sul campo , prima la “legge truffa” e poi la formazione di un governo sostanzialmente “incostituzionale” come quello imperniato sul voto “formale” di fiducia Dc-Msi per il ben noto governo Tambroni (definito mistificatoriamente governo “amministrativo”), di fronte alla crescente capacità di lotta del movimento operaio e dei cittadini democratici divenuti parte di un “blocco storico” antitetico al blocco sociale della Dc e dei suoi alleati visibili e invisibili, le forze dominanti si sono rese conto dell’inevitabilità di ricorrere ad una strategia più subdola, come documentano combinatoriamente i fatti di tipo “golpista” e “terrorista” che hanno accidentato il periodo 1964-1981, in cui comunque la complessa manovra reazionaria non si è sottratta alla tradizione di ricorrere agli strumenti “tecnici” estraibili dal vecchio bagaglio della cultura giuridica.

Si è così passati dagli espliciti richiami al presidenzialismo del repubblicano Pacciardi, alla perorazione della “governabilità” da parte di giuristi della destra DC ispiratori di improvvisati convegni di “dottrina dello stato” a cavallo degli anni ’60-’70, e persino ai preoccupati e tendenziosi dibattiti sollecitati da un giurista accreditato come Mortati che alla Costituente aveva bensì fatto parte della “sinistra dossettiana”, ma sostenendo in contraddizione con l’ispirazione sociale di Dossetti (invocante addirittura “il socialismo”) proposte limitatrici del ruolo del parlamento perciò rimaste estranee al modello di forma di governo entrato in vigore. Tutto ciò in preciso contrasto con la forza di pressione politico-sindacale giunto al suo massimo livello negli anni “68-69” (benché segnato da divisioni tra Pci e Cgil, e le formazioni extraparlamentari) e risultato pericoloso per gli assetti di potere del meccanismo capitalistico “pubblico-privato” posti in discussione in una prospettiva di coerente connessione tra le lotte sociali garantite dal dispiegarsi di un diritto di sciopero costituzionalmente privo di limiti e le lotte politiche trasferite in un parlamento divenuto “centrale” solo nella breve stagione degli anni ’70-75. Giungendosi così ad una recrudescenza della reazione divenuta sempre più attrezzata per il convergere di quelle forze interne-internazionali la cui alleanza era codificata nel Patto Atlantico, già nel 1949 con le clausole incostituzionali usate conseguentemente per obiettivi inconfessabili, secondo una cadenza analizzata solo ”ex post”, quando il revisionismo storico e il revisionismo giuridico hanno finito per convergere operando allo scoperto, venuto meno, con la crisi del “socialismo reale”, lo status internazionale imperniato sulla “guerra fredda” ideologico-militare.

Solo di recente parlandosi della ”Crisi dell’antifascismo” (Luzzatto S., 2004) e riandandosi sinteticamente al “Sommerso della Repubblica” (Biscione F.M., 2002) (anche qui mettendo in relazione la democrazia italiana con “la crisi dell’antifascismo”), si è pervenuti a decifrare la sottovalutazione – che non si sa se dovuta a disattenzione o a dolosa elusione da parte di quella che si è rivelata sempre più nettamente come la “destra comunista”, non organizzata in “corrente” ma proprio perciò oscuramente manipolatrice del “centralismo democratico” – della influenza devastante che il ricorso all’ideologia in forme extraistituzionali ha potuto esercitare riuscendo a penetrare (avvalendosene) persino in ambiti a prima vista immuni da infiltrazioni coinvolgenti: e qui il richiamo va a due documenti che nello stesso tornante degli anni 1973-1975 sono venuti a dar manforte a chi aveva da tempo interesse a destabilizzare la democrazia italiana per delegittimarne la costituzione e passare ad un ordinamento di tipo “autoritario”, come sono tutti gli ordinamenti di c.d. “democrazia classica” predicati dalla cultura giuridica, compresa quella dei “giuristi democratici” dei nostri giorni (eredi di quella dominante nella passività corriva degli anni 1945-1970), dopo che Crisafulli era uscito dal Pci passando a destra, e che il “processualista” Calamandrei (fattosi cultore di diritto costituzionale) negli anni del tentativo della legge truffa era decisamente passato nel campo dei pochi studiosi critici dell’arroganza Dc.

Il primo documento è il “rapporto della Commissione trilaterale” pubblicato nel 1975 ad opera di “un gruppo di privati cittadini” (studiosi, imprenditori, politici e sindacalisti di America del nord, Europa occidentale e Giappone) preoccupati della “crisi della democrazia”, dovuta nei fatti alla “pressione della domanda sociale” sulle istituzioni di governo “mentre le possibilità ristagnano”: sicché nel valutare gli eccessi di “partecipazione”, il documento denunciava che uno spirito di democrazia “troppo diffuso, invadente” può costituire una minaccia intrinseca a insidiare ogni forma di associazione, allentando i vincoli sociali che reggono la famiglia, l’azienda e la comunità: e come “focus” della sopravvenuta insostenibilità del sistema, è stata posta sotto accusa la minaccia che proviene “dagli intellettuali” e gruppi collegati, orientati a smascherare e negare legittimità ai poteri costituiti, mettendo in atto un comportamento che contrasta “con quello del novero pur crescente di intellettuali tecnocratici e orientati dalla politica”.

Il secondo documento – il c.d. “piano di rinascita democratica” della “loggia massonica P2”, pubblicato a cura di Gelli (e poi anche agli Atti della Commissione parlamentare d’inchiesta”) – è intervenuto provocatoriamente a elencare motivatamente tutte le proposte di “riforma istituzionale” che dovevano servire a “rivitalizzare” il sistema inquinato dalla presenza del “partito orientale” e dalla politica compromissoria della Dc, denunciata per essere rimasta comunque nei limiti della legittimità repubblicana.

Tale “piano” non è stato sottoposto a discussione nei partiti e tra le masse, sicché per quanto importante sia stato l’attacco in sede istituzionale alla “P2” come associazione eversiva e nei suoi aspetti “strutturali” per la presenza in essa di soggetti appartenenti alla organizzazione non solo privata ma anche statale della borghesia reazionaria e “golpista” (si veda per tutti il Convegno sulla “Resistibile ascesa della P2. Poteri occulti e stato democratico”, del 1993), rimane assai grave e premonitrice del passaggio al revisionismo giuridico la mancata tempestiva denuncia su scala sociale e politica degli obiettivi sia istituzionali che economico-sociali perseguiti, e chiaramente visibili ora che sono stati progressivamente raggiunti per strappi successivi, tramite la convergenza ideologicamente ispirata sia del centro-sinistra che del centro-destra, al di là delle ostentate contrapposizioni nelle rispettive proposte “tecniche” di ingegneria istituzionale della “casa delle libertà” e “dell’ulivo”.

E infatti oggi possiamo constatare che:

il “piano” si è autodefinito “democratico” per escludere “rovesciamenti” del sistema, come può comprendersi se l’accezione della democrazia come democrazia “formale” ha la sua matrice nei sistemi britannico e statunitense che sono “autoritari” e i più tipici strumenti di consolidamento del capitalismo nelle sue vicende evolutive, compresa quella in corso;

il “piano”, articolato in obiettivi e procedimenti entro programmi “a breve, medio e lungo termine”, prevedeva “ritocchi” alla Costituzione, senza intaccarne “l’armonico disegno originario” per operare in un contesto “ormai molto diverso da quello del 1946”, ciò che collima con lo spirito con cui è stato avviato il processo di “riforme istituzionali” della Commissione De Mita-Jotti e soprattutto della Commissione D’Alema, per quelli che la dottrina costituzionalista corriva al duo Ds-Pp ha chiamato insistendovi persino oggi “adattamenti” costituzionali alla “nuova realtà sociale”;

sul terreno strettamente politico e sociale riguardante il ruolo dei partiti e dei sindacati, il “piano”, in caso di perdita di “credibilità” dei partiti definibili a suo dire come “democratici”, ha proposto l’uso di strumenti finanziari per la nascita “di due movimenti, l’uno sulla sinistra e l’altro sulla destra”; il primo “a cavallo fra Psi, Psdi, Pri, Liberali di sinistra e Dc di sinistra”, e l’altro “ a cavallo tra Dc conservatori, liberali e democratici della Destra Nazionale”: situazione che si è poi venuta a creare, con la sola novità non preventivabile della presenza (significativa del revisionismo sia storico che giuridico) dei Ds e Pp da un lato, e della “berlusconiana” Forza Italia dall’altro lato, mentre per quanto concerne i sindacati si è puntato a un ruolo effettivo di un sindacato “collaboratore del fenomeno produttivo”, ciò che la “concertazione” di Cgil, Cisl, Uil ha perseguito, in una situazione garantita dalla “limitazione del diritto di sciopero” (intervenuta nel 1990 nel settore dei “servizi pubblici essenziali” con “obbligo di preavviso”, per il voto qualificante in commissione di socialisti e comunisti);

sul terreno istituzionale, il “piano” puntava a modifiche “urgenti” dell’ordinamento giudiziario, con la responsabilità civile (per “colpa” dei magistrati) e l’introduzione nella normativa per l’accesso in carriera di “esami psico-attitudinali preliminari”; a modificare l’ordinamento del governo, ciò che è avvenuto con la legge n. 400/88 seguita dalla riforma dell’amministrazione con la “separazione della responsabilità politica da quella amministrativa”, e dalla sostituzione dei principi del “silenzio-rifiuto” con quello del “silenzio-consenso” che sono le enfatizzate “riforme” amministrative imperniate sulla lettura rovesciata dei principi costituzionali operata univocamente dalla cultura giuridica pro-“pentapartito” nel passaggio dagli anni ’80 agli anni ’90;

per quanto concerne il parlamento, il “piano” puntava a esaltare la preminente “funzione politica della Camera” (oggi scelta dal centro-destra), alla modifica dei regolamenti parlamentari per rovesciare la “tendenza assemblearista” dei regolamenti del 1971, e così introdurre le premesse della attuale separazione tra ruolo del governo e della sua maggioranza parlamentare e ruolo dell’opposizione, frattanto introducendo il principio organizzativo delle “sessioni” per garantire l’attuazione del “programma governativo”. Passando alla previsione a “medio e lungo termine”, il “piano” puntava poi alla riforma dell’ordinamento giudiziario “per ristabilire criteri di selezione per merito delle promozioni dei magistrati” e “separare le carriere requirente e giudicante”; alla modifica della costituzione per stabilire che “il presidente del consiglio” è eletto dalla camera all’inizio di ogni legislatura (che è omologo all’ipotesi del “cancellierato” accarezzata persino da Rifondazione comunista), e “può essere rovesciato soltanto attraverso l’elezione del successore”, cioè con la c.d. “sfiducia costruttiva” inserita nella costituzione di Bonn per pressione degli imitatori del sistema britannico, oggi largamente rappresentati nella cultura costituzionalista anche nostrana; per quel che attiene al parlamento, il “piano” prevedeva nuove leggi elettorali “di tipo misto” “uninominale e proporzionale” (con preferenza per il sistema tedesco, ciò che oggi continua a essere al centro della discussione), nonché la conclamata riduzione del numero sia dei deputati (450), e dei senatori (250), e la previsione di “leggi organiche” una volta già ridotta l’area della “riserva di legge”.

Sotto la spinta di tale “piano” – che ha potuto filtrare impunemente all’interno delle iniziative “controriformatrici” delle forze “ex costituenti” votate ormai a rammentare solo strumentalmente l’origine antifascista della Costituzione e soprattutto ad accreditare quella versione (respinta da Togliatti e dai democratici più conseguenti) secondo cui la costituzione del 1948 sarebbe stata un mero “compromesso” (Calamandrei) – ha preso corpo negli anni ’80 quella involuzione democratica che ha visto degradare l’originalità dei Principi Fondamentali e della Prima Parte in nome della mistificatoria teoria del c.d. “bilanciamento” dei principi normativi relativi rispettivamente a quelli “sociali” e a quelli “privati”, il che ha aperto la strada alla legislazione controriformatrice e non più “attuativa” della Costituzione in vista della quale infatti si era lottato tanto aspramente negli anni 60-70 sino al 1978: anno in cui si sono intrecciati e sovrapposti tanti elementi contraddittori, dopo che le elezioni del 1976 – precedute dall’allarme della “P2” (agosto 1975) per l’esito delle elezioni regionali e amministrative del precedente luglio – sembravano aver posto in crisi il blocco sociale imperniato sulla Dc, se non avesse prevalso la singolare interpretazione suggerita da Moro e condivisa dalla destra comunista che però i “vincitori erano due”, Dc e Pci, in quanto ormai ravvicinati nella percentuale del voto elettorale.

E poiché lo scontro era di carattere “sociale” con conseguenti sbocchi politico-istituzionali, gli anticorpi antidemocratici che a sinistra hanno poi aperto la strada al rovesciamento della strategia sanzionata dalla assemblea costituente – sicché per la prima volta si superava il costituzionalismo liberale, facendo precedere i Principi ordinamentali sulla “forma di governo” da quelli sul “conflitto sociale” nella prospettiva del primato della democrazia sul mercato, dei valori sociali su quelli del profitto, così lasciando alle spalle il modello della Costituzione di Weimar (che per il ceto dei giuristi inspiegabilmente rappresenta tuttora il punto più alto del costituzionalismo democratico come proiezione del contrasto tra modello socialdemocratico e modello perseguito dai comunisti occidentali) – si sono materializzati nella biunivoca scelta degli anni 1977-1978 volta da un lato ad isterilire il conflitto sociale degli anni precedenti passando alla deludente strategia sindacale c.d. “dell’Eur”, quando si è rifiutata la concezione del lavoro come variabile “indipendente”; e dall’altro sul terreno dell’azione politico-finanziaria dello stato si è enfatizzata contro la strategia della “programmazione democratica dell’economia” che aveva fatto leva anche sulle alternative tra organizzazione pubblica e organizzazione privata dell’economia, quella del primato dell’equilibrio nel bilancio tra spese ed entrate, per contenere la spesa sociale in nome di una “legge finanziaria” contrastante con la costituzione e introdotta come marchingegno a partire dallo stesso 1978 nel quale era giunta in porto la riforma sanitaria, la prima (rimasta poi unica) riforma sociale e amministrativa, democratica e non tecnocratica, riforma che è stata dal 1979 sino ad oggi sottoposta a una catena di interventi controriformatori di ogni genere sul duplice fronte sociale e amministrativo, con tutto quel che ne è seguito negli altri settori pubblici in nome della “modernizzazione” e della “aziendalizzazione” che è oggi il valore dominante nella cultura economico-giuridica gravitante nei settori del bipolarismo politico-istituzionale, cioè dell’”ulivo” e della “casa delle libertà”.

 

2.-

 

Per capire allora qual è il retroterra della deriva che ha provocato dall’inizio degli anni ’90 l’imporsi incontrollabile della strategia delle “riforme istituzionali” culminate oggi nel profilarsi di un possibile scontro referendario di due progetti tra loro omologhi e contrapposti solo per l’enfatizzazione ad opera del centro-sinistra dell’inaccettabilità di soluzioni “subordinate” della teoria del costituzionalismo liberale dei “checks and balances”, va precisato che il terreno privilegiato dalla borghesia, nello sviluppo delle sue strategie volta a volta di fondazione, conservazione, riconquista del pieno dominio nella società, è sempre identificabile nel modo di concepire il “quadro istituzionale” di uno stato che è frutto delle esigenze di classe di intrecciare “ordine pubblico e ordine sociale” a qualunque costo, persino dando luogo al fascismo e al nazismo, come varianti solo apparentemente antitetiche al liberismo ciò che risalta se non si fa l’errore di ritenere che il liberismo a differenza del corporativismo fascista e di quello democratico non si avvalga dello stato e del diritto, poiché appunto la differenza tra “regolazione” e “gestione” del potere in economia va colta nella diversa qualità del sostegno che il capitalismo cerca e trova nello stato e nel diritto, sostegno che nelle soluzioni di “assunzione in mano pubblica” di settori di economia capitalistica – non a caso avviati e potenziati dal fascismo – si è prestata in un ordinamento di tipo democratico come quello italiano a “incursioni” volte a stravolgere le finalità di soccorso del sistema capitalistico nei settori in cui i privati non hanno convenienze di profitto, “incursioni” democratizzanti tanto più inaccettabili per il sistema se strumentali “ante litteram” a funzioni programmatorie “globali” di tipo democratico-sociale come quelle tentate nella breve ma intensa stagione delle lotte in Italia: in parte sviluppate rivendicandosi il nesso tra diritto di sciopero, proporzionale elettorale, centralità del parlamento nella rete delle assemblee del potere locale e in virtù del condizionamento ad opera del potere politico-sindacale del “calcolo economico” proprio del sistema delle imprese complessivamente inteso; ed in parte invece sulla premessa dell’insufficienza della Costituzione del 1948 a legittimare una conflittualità foriera di una transizione effettiva al socialismo nella versione della formazioni “extra parlamentari”.

La drammatica alternativa giocatasi in quegli anni va inserita in una lettura coerente tra il contenuto della diaspora ideologica est-ovest (con al centro il rapporto Usa-Urss) che ha connotato avanzate e arretramenti del conflitto di classe, tenute o violazioni dall’ “alto” e dal “basso” dell’ordine pubblico, e la trama dello “stragismo” e degli attentati terroristici e/o “di stato” come aspetti di un medesimo disegno: sì che il processo di europeizzazione nel suo procedere non lineare ma in arrestato appare come manifestazione avvolgente di una strategia che vedeva confluire le linee “liberiste” con quelle “socialdemocratiche” nel momento stesso in cui sul piano mondiale si consolidava uno scontro senza esclusione di colpi tra comunismo e anticomunismo che ad una certa fase vede i comunisti occidentali – i francesi ben prima, sotto i colpi di un gollismo subito anche dal Pcf, gli italiani più tardi a causa di un cedimento alle insidie politico-culturali dei socialisti “riformisti” pentiti ormai dell’alleanza unitaria del periodo della Resistenza – scivolare poco per volta a partire dalla fine degli anni ’70 verso una abdicazione consumata interamente dopo la scomparsa di Togliatti e di Berlinguer, quando si sono drammaticamente posti gli interrogativi sul modo di superare la annosa “conventio ad excludendum” con cui i comunisti solo a livello comunale, provinciale e regionale erano stati legittimati a occupare oltre alle assemblee elettive anche i luoghi di vertice del potere istituzionale.

E la drammaticità visibile nell’alternativa tra sviluppo del conflitto e difesa del golpismo, era intrinseca alla lettura di segno del tutto opposto, tra il ritorno ad una “unità democratica” analoga a quella che aveva accompagnato gli anni 1944-47 per fondare la Repubblica e per elaborare una costituzione qualitativamente più avanzata del tradizionale costituzionalismo, e l’avvio di una “alternativa democratica” che non si riducesse – come poi è avvenuto – con la sostituzione della proporzionale e l’abbandono delle lotte sotto gli impulsi revisionisti del Pds, formazione politica “di sistema” e parricida del Pci in quanto partito “antisistema”.

La valutazione della complessità dei termini dell’antitesi tra il Pci e la democrazia “bloccata” – tra aspetti di politica interna e di politica internazionale che hanno alimentato la raffinata analisi dello storico marxista Franco De Felice su “Doppia lealtà e doppio stato” (1989) – non può oscurare gli aspetti dominanti di natura ideologica, poiché isolando l’attribuzione al gruppo dirigente del Pci della responsabilità di non avere sciolto definitivamente i rapporti “internazionalistici” con l’Urss si rischia di fare da copertura della rimozione delle cause profonde della preclusione sopravvenuta contro una formazione politica che sulla base della Costituzione alimentava una strategia di lotta per introdurre “elementi di socialismo” nei rapporti strutturali e sovrastrutturali risalenti in Italia alle fasi prefascista e fascista senza riferimento ad alcuno dei caratteri del “socialismo reale” nei paesi dell’est: sì che la “normalizzazione” perseguita dal variegato fronte anticomunista – palese ed occulto – implicava la cancellazione della presenza attiva di un partito e di un sindacato che puntavano “a rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che limitano di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini”, con l’obiettivo di pervenire “alla effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica economica e sociale del paese”.

E i fatti parlano, appunto, nel senso di attestare come gli sviluppi divenuti palesi dei tentativi prima “occulti” di minare la democrazia italiana siano stati alimentati in un intreccio tra linee strategiche formalmente separate ma funzionali l’una all’altra, come è avvenuto per l’insistita denuncia di una c.d. “crisi del parlamento” per delegittimare le lotte sociali e il loro riverbero istituzionale nella “centralità” del parlamento e di lì respingere il c.d. “assemblearismo” dei movimenti e delle istituzioni per passare ad una revisione della forma di governo per sconfiggere una visione inedita del “governo parlamentare” in quanto estranea ai modelli del costituzionalismo liberale: scoprendo la necessità di ricorrere all’autorità di Bobbio in quanto teorico “liberal-socialista” ed assertore della c.d. “inesistenza” della teoria marxista del diritto e dello stato, per concludere che quindi la teoria del diritto e dello stato o è borghese, o non è.

Le vicende degli anni ’80, fallito il tentativo di assorbire il Pci nell’area governativa nel contesto dell’oscura trama del “sequestro Moro” dopo l’azzardo parlamentarista della “solidarietà nazionale”, delineano chiaramente la connessione tra la svolta a destra del Psi di Craxi-Amato, il contrattacco antioperaio (emblematicamente rimasto legato alla decretazione contro la scala mobile), e l’avvio (con la Commissione-Bozzi) di quella enfatizzazione della “governabilità” e del “primato dell’esecutivo” e per esso del Premier la cui pericolosità è stata avvolta dalle ambiguità con cui la sopravvivenza del ruolo formale del “popolo” – dopo che si è abdicato all’iniziativa dei partiti di massa – è stata evocata nel segno della politica “referendaria” rivelatasi poco per volta come l’altra faccia della strategia istituzionale “antiparlamentare” e contraria alla “democrazia organizzata”: come tipicamente dimostrano le esperienze dei paesi storicamente legati all’uso del referendum, strumento manipolato dai gruppi di potere della “società civile” se non addirittura da dirigenti di partito e di sindacato, per trascinare un elettorato privo di potere politico autonomo e dotato solo del potere di sanzionare con la scheda le strategie prospettate da “promotori” contrari agli interessi reali delle masse sfruttate, per mantenerle subalterne con la rinuncia a organizzarsi con i partiti e i sindacati di classe per far valere quel “potere” che solo vale realmente a garantire i “diritti”.

Per facilitare tale tipo di deviazione, si è contestata la centralità dello stesso conflitto di classe, separando le questioni che riguardano la “persona” da quelle che riguardano la “società”, come le questioni della famiglia e dei sessi, per scindere le questioni stesse rapportabili al ruolo del capitale, facendo dell’ambientalismo un ambito settoriale espunto dal carattere complesso ed organico del sistema di accumulazione della ricchezza e del suo articolato uso sul territorio, sino ad enfatizzare il contrasto dei “cittadini” interessati a tutelare il “territorio”, contro i “lavoratori” ridotti a difendere “corporativamente” il loro ruolo nella produzione.

Così da un lato i radicali seguiti da “democrazia proletaria” hanno posto sempre più l’accento sui “diritti” individuali, e i socialisti e la destra comunista hanno enfatizzato la rivoluzione tecnologica come terreni distinti ma convergenti nel privare sempre più di fondamento l’azione di massa contro le forme di un dominio che nella nuova fase del processo di internazionalizzazione rivelava l’intreccio sempre più perverso tra capitalismo finanziario e capitalismo industriale: accreditandosi così anche a sinistra l’idea che la democrazia diretta è compatibile con il solo modo di governare proprio del costituzionalismo liberale nel quale il popolo non ha sovranità reale ma solo formale, e comunque come tale “funzionale” al governo dall’alto, specialmente con il ricorso all’uso del referendum.

Ne è derivato uno smottamento incontenibile dell’asse teorico e organizzativo della democrazia di massa, una volta rimesso al centro dei rapporti tra società civile e società politica il capitalismo visto ora come “rete” transnazionale, rispetto al quale possono porsi (e solo residualmente) questioni presentate propagandisticamente sotto il simbolo di uno “stato sociale” ormai depotenziato: restando in tale ambito solo da ricostituire le condizioni della efficienza nel funzionamento di istituzioni-azienda, con una rinuncia al conflitto sociale contro il primato dell’economia sulla politica che tra i guasti prodotti ha anche dato la stura ad una inedita richiesta di “federalismo” apparentemente centrifugo, in cui una parte della società mossa da un movente di “egoismo sociale” e territoriale operante tra le pieghe dell’organizzazione capitalistica prendeva visibilità nelle vesti di un “leghismo” che è divenuta parte sempre più provocatoriamente attiva di un capitalismo che nel Lombardo-Veneto trova le sue basi e i suoi intrecci anche con il ricorso al ricatto “secessionista”, per meglio insediare in combinazione con un “centro” liberista quei baluardi a favore dell’impresa che le forze ispirate ai principi della democrazia sociale avevano tentato viceversa di piegare per imporre alla rete delle imprese grandi, medie e piccole i vincoli programmatori a partire dai “distretti industriali” (su di che vedasi, Ruggeri, Leghe e Leghismo – L’ideologia, la politica, l’economia dei “forti” e l’antitesi federalista al potere dal basso, 1997, quaderno n.2 de “Il lavoratore”).

Si sono così venuti mescolando un individualismo assoluto e una reazione di massa che, accentuando la cronica differenza Nord-Sud, sono divenuti strumento di manovra di una estrema destra che – esauritasi la delegittimazione prodotta dall’antifascismo e dalla costituzione vista nello stretto nesso tra la Prima e la Seconda Parte – si è trovata scodellata l’opportunità di caratterizzare una nuova maggioranza socio-politica, sulla scia di un tralignamento inopinatamente favorito proprio dai residui di una sinistra che nel Pci era rimasta ostaggio della destra, divenuta così l’anima del nuovo corso di un Pds alla scoperta di una “normalizzazione” coincidente con l’omologazione ideologica agli interessi del grande capitale internazionale e nazionale: disponendosi con lo slancio tipico del “neofita” a servirne il dominio ormai dilagante senza limiti dopo la crisi del sistema sovietico. Servizio formalizzato con l’assunzione della guida della c.d. “transizione” alla seconda repubblica tramite due “commissioni bicamerali” (De Mita-Jotti, e D’Alema), la seconda delle quali (1997) ha cercato di dare uno sbocco oramai incontenibile alle più timide e ambigue tendenze emerse nella precedente (1993), su un versante configurando un c.d. stato “regionale” spinto (si è detto) “sino ai limiti del federalismo”, e su un altro versante puntandosi a scegliere una delle varianti che la dottrina dominante si compiace di denominare forme di “governo parlamentare” al di là di marginali differenze dal sistema “presidenziale” statunitense imperniato su una più marcata “separazione dei poteri”, ma mettendo in disparte il fatto reale che equipara tutti i sistemi di governo, rispettivamente, affini al premierato britannico e al presidenzialismo nordamericano, nel segno cioè del governo dall’alto in virtù di una manipolazione della c.d. “sovranità popolare” volta a dare legittimità alla “passività” di un ruolo di ratifica con il voto elettorale dei programmi dei gruppi di potere dislocati nel “bipartitismo” o nel “bipolarismo” su un medesimo asse ideologico, soprattutto in politica estera.

Di fronte a ciò si stenterebbe a credere, con una memoria storica fondata su schemi meccanicistici, che il disancoraggio del Pci dalla via seguita con più o meno coerenza in tutto il dopoguerra fino al 1984 (anno dello attacco alla scala mobile, e della morte di Berlinguer), abbia il suo ascendente nella corrente più “critica” delle posizioni moderate di un partito nel quale operavano da tempo “centri studi” tra i quali quello “per la riforma dello stato presieduto da Pietro Ingrao.

Se non si volessero rileggere i documenti che attestano con precisa datazione il canovaccio di una elaborazione sfociata in imprevedibile deviazione nel passaggio tra la fine degli anni ’80 e l’inizio degli anni ’90 proprio con riguardo alla “questione istituzionale” , si rende ora possibile trovare una precisa sintesi – nella diagnosi su” “Pietro Ingrao – Il compagno disarmato”, di A. Galdo 2004 – laddove viene rievocata la “via d’uscita molto radicale” contenuta nella proposta del 1985-1986 di un “governo costituente” munito di un mandato limitato all’approvazione delle riforme istituzionali, per “aprire le porte alla Seconda Repubblica e alla democrazia dell’alternanza: costruita attraverso una nuova legge elettorale che favorisca il giudizio fra due schieramenti alternativi, l’introduzione di maggiori poteri per il capo del governo, l’abolizione di una delle due Camere e la drastica riduzione del numero dei parlamentari”.

Sembra certo incredibile, tenuto conto della complessiva produzione politico-culturale dell’autore di “Masse e potere” (1978), che proprio a lui si debba una proposta “dirompente” anche se formalmente respinta dal Pci poco prima di essere raccolta dal Pds, creando così le premesse culturali della successiva trasformazione dello stesso sistema dei partiti in un pluralismo politico artificioso che mortifica il pluralismo sociale, nel segno di un interclassismo pilotato da organismi divenuti solo “macchine elettorali” per la conquista dei vertici dello stato avvalendosi del principio maggioritario, con il passaggio dalla “democrazia organizzata” alla separazione organizzata tra “burocrazie” incontrollabili e iscritti ed elettorato, estraniati anche dalla sola conoscenza dell’oggetto del contendere sulle “riforme istituzionali” chiuse nelle conventicole degli apparati e degli “accademici” tornati alla cultura delle asettiche“alchimie” di modelli di forma di governo tra loro omologhi.

E’ mancata così la consapevolezza – oltre che nell’elettorato negli stessi ambienti culturali non costituzionalistici – del fatto che il quadro essenziale delle contrapposizioni sulla “revisione della Seconda Parte della Costituzione” ha avuto la sua configurazione anticipatrice della deriva autoritaria “berlusconiana” già all’interno della “Commissione bicamerale” presieduta da D’Alema – di cui si è perduto il ricordo per l’interruzione dei suoi lavori provocata proprio da Berlusconi sotto l’urgere dei suoi ben noti interessi anche non politici – Commissione che nel contempo ha lasciato il segno di due “rotture” costituzionali: l’una, mirante ad assimilare i lavori di tale Commissione a quelli di una “assemblea costituente” di cui si era ritenuta inopportuna l’istituzione, e l’altra mirante a modificare (“una tantum” ovviamente come si fanno le rotture) il procedimento di revisione costituzionale nei termini previsti dall’art. 138 C., per rendere “costitutivo” e “obbligatorio” il referendum popolare stabilito in via “eventuale” (cioè su richiesta) per la conferma o viceversa per il rigetto di un testo di revisione non approvato dai due terzi delle Camere.

Perciò la denuncia solo oggi lanciata contro i rischi che la revisione della Seconda Parte intacchi anche la Prima parte della Costituzione è quindi tardiva e insincera in quel che concerne il nesso tra la forma di governo e la forma di stato, essendo i partiti di centro-sinistra (e i giuristi che ne sono prevalentemente pronubi) mistificatoriamente protesi a omettere che la Prima Parte è stata elaborata in funzione non già di “garantire” il mercato, ma, al contrario, per “condizionarlo”: ecco perché si è modificato lo stesso linguaggio politico-culturale, parlandosi ora di una anodina “democrazia costituzionale” come fondamento dei “diritti fondamentali”, nascondendo che la trama della Prima Parte concerne testualmente i “rapporti” (civili, politici, sociali, edonistici) in funzione dei diritti che vi si innestano; sicché non a caso nella Costituzione si parla di “Principi Fondamentali” volti a modificare rapporti espressivi delle differenze di classe e dei diritti di riferimento.

Si spiega così perché la Commissione D’Alema non ha esitato a proporre la modifica della stessa logica sistematica cui è ordinata la Seconda Parte relativa all’organizzazione dello stato, predisponendo il passaggio al “federalismo” (irrazionalmente avviato poi nella frettolosa legge costituzionale del 2001 con la risicata maggioranza di quattro voti in una frenetica emulazione della Lega Nord rivelatasi peraltro velleitaria) mediante l’anteposizione del “titolo” riguardante l’articolazione della Repubblica in comuni, province e regioni al posto del “titolo” riguardante il ruolo del Parlamento e così inserire un “titolo” sulla “partecipazione dell’Italia all’Unione Europea” in omaggio all’ideologica opzione del centro-sinistra per quella scelta europeistica che implica una concezione “pan-federalistica” – nazionale-sovranazionale – nella prospettiva neo-centralistica che universalmente ha acquisito il federalismo contemporaneo rispetto al federalismo “duale” ottocentesco, prima cioè dell’imporsi del raccordo tra capitalismo e istituzioni.

In tale logica, l’attacco al Parlamento veniva completato, facendolo slittare dopo i “titoli” relativi rispettivamente al Presidente della Repubblica e al Governo, aprendo così la strada alle alternative oggi in discussione sulla forma di governo (premierato, presidenzialisno, semi-presidenzialismo, cancelleriato) che hanno dato la stura alla ricerca da parte di Berlusconi di uno dei vari “bricolage” che la fertile e cointeressata mente di giuristi e politologi (proni agli interessi del capitalismo e oramai nettamente antioperai e antisociali, ad onta di un “welfare” posticcio ed elemosiniere) si può permettere di escogitare fuori da ogni controllo.

Ed una volta imboccata la strada dell’incostituzionalità operata nella inconsapevolezza di massa che regna in materia, la Commissione D’Alema ha imboccato il “tunnel” nel quale oggi si dibatte scompostamente il centrosinistra, senza trovare echi nel centro-destra, optando per l’elezione a suffragio universale del Presidente della Repubblica, per la primazia del Premier, esaltando il ruolo politico della Camera rispetto al Senato, riducendo l’area della “riserva di legge” sino a prevedere la modificabilità di norme di legge con regolamento, e avviando il travagliato percorso dell’attacco alla organizzazione della giustizia con la previsione in seno al CSM di una Sezione per giudici separata dalla Sezione per i pubblici ministeri, attribuendo al CSM il compito di assegnare i magistrati alle funzioni giudicanti ovvero alle funzioni inquirenti e anticipando la trasformazione della Corte Costituzionale nella logica “federalista”, e mediante la previsione dell’elezione di tre giudici dalle “regioni”.

Non si può, quindi, nel chiamare alla lotta contro le proposte del centro-destrra, omettere di sottolineare che il centro-sinistra non ha le carte in regola, e che deve fare completa autocritica sia con riguardo al federalismo sia con riguardo al “premierato assoluto”, perseguito ora da Berlusconi, e ciò per una serie di motivi precisi, documentabili che vanno tutti circostanziati se si vuole vincere utilmente il referendum.

Infatti, oltre a quanto già rilevato, va tenuto presente che il centro-sinistra ha fatto del federalismo il marchingegno per introdurre il principio della c.d. “sussidiarietà” tra autonomia privata e autonomia dei poteri locali nella titolarità delle funzioni, con il riconoscimento costituzionale dell’autonomia dei c.d. “enti funzionali”, ciò che incide testualmente sul raccordo tra Prima e Seconda Parte della Costituzione, dando spunto all’estremismo istituzionale che in termini di “devolution” mira addirittura a spostare tutto l’equilibrio socio-economico-istituzionale.

In tale ottica risalta allora che il federalismo è ben lungi dal riflettere lo slogan sulle istituzioni “più vicine ai cittadini”, in quanto al contrario mira solo a ridistribuire l’organizzazione verticale delle classi dirigenti (nella logica centripeta dei c.d. “governatori”), mentre razionalizza la gerarchia tra gli interessi economico-finanziari-militari di competenza dello stato federale vero e proprio, sugli interessi sociali “devoluti” alle regioni-stato, in simmetria con la ripartizione delle competenze tra gli organi “comunitari” e quelli degli stati/nazione.

Soprattutto, per quel che concerne la forma di governo su cui il centro-sinistra si sta stracciando le vesti, occorre tener presente che l’obiettivo di respingere il progetto del centro-destra va perseguito facendo crescere una coscienza di massa sul fatto che nel contempo si deve far “tabula rasa” di tutto il processo di elaborazione agli atti dal 1993 ad oggi, avendo chiaro che nella “relazione di minoranza” (al Senato) si legge che “noi vogliamo una forte democrazia governante” (espressione già usata dai craxiani sin dal 1979), che “occorre un sistema che consente agli elettori di decidere sul programma”, dovendo in tale percorso “l’ingegneria istituzionale fare i conti con due tendenze sociologiche oggi dominanti, la personalizzazione della politica e la sua spettacolarizzazione mediatica”.

E’ infatti deviante la critica che il solo centro-destra è condannabile per il suo “mescolare” i modelli (girovagando tra premierato britannico, presidenzialismo statunitense, semi-presidenzialismo francese e cancellierato germanico), dando per scontato che ciascuna delle soluzioni cc.dd. “pure” e storicamente varianti dell’autoritarismo sarebbe coerente con la “democraticità del sistema”: tanto che si è persino arrivati a presentare formalmente un emendamento per la soluzione nordamericana, pur di allinearsi ad una delle opzioni consentanee con le classificazioni accademiche di giuristi che peraltro – fuori dalle didascalie manualistiche – si compiacciono di legittimare ogni deviazione dalla c.d. “purezza” dei modelli formali, ricorrendo abusatamente a dare prova di un “realismo congiunturale” rifacendosi ai “rapporti di forza” propri della “politica”, e canonizzati vuoi con il ricorso alle c.d. “consuetudini costituzionali”, vuoi alla mai sufficientemente deprecata teoria della “costituzione materiale” che assolve acriticamente ogni delegittimazione dei modelli formali di costituzione.

Non si può seguire seriamente tale metodo di denuncia, poiché proprio in tema di “bricolage” l’equivoco più insidioso si cela nella conclamata soluzione del cancellierato di Bonn, definito mistificatoriamente come “neo-parlamentare” perchè mescola aspetti “pseudo-parlamentari” – dato che il Parlamento è chiamato a votare una proposta ad esso estranea ma calata dall’alto – e aspetti “presidenzialistici” per la parodia che tale “voto” esprime rispetto al “voto” popolare; così come il c.d. semipresidenzialismo – che in verità è un “duplice” presidenzialismo o presidenzialismo “bicefalo” – è a sua volta una miscela di aspetti del “premierato” e di aspetti del “presidenzialismo”: ma su tali caratteristiche implicazioni domina il silenzio, preferendosi discettare sulle specifiche forme che i differenti “modelli” presentano, nelle rispettive articolazioni dei “segmenti” procedimentali (come a proposito del caso della controfirma, della disciplina dello scioglimento delle camere), che si presentano tradizionalmente come il terreno del più vieto arzigogolare di politici vestiti da tecnici e di tecnici vestiti da politici.

Perciò fa una certa impressione rileggere oggi la posizione ufficiale che nella Commissione D’Alema aveva assunto in tema di forma di governo quel Cesare Salvi che oggi si distingue per una collocazione a sinistra nei Ds, quando cioè, in quel clima già favorevole allo smontamento costituzionale in corso, scrisse testualmente che “la critica all’elezione diretta come portatrice di possibile autoritarismo o plebiscitarismo va certamente ridimensionata, e comunque non si può esorcizzare l’elezione di una carica come antidemocratica”, concludendo che nell’intento di individuare “un modello originale” la scelta “semipresidenziale” va valutata “in controluce” con quella del “premierato” dato che “non esiste un modello semipresidenziale e un modello di governo del premier” ma “diverse varianti dell’uno e dell’altro”.

Ora che si parla senza più un solido presupposto ideologico e teorico di una “riforma sbagliata” (con l’omonima titolazione di disparati interventi di 63 costituzionalisti, a cura di Bassanini, 2004), c’è da stigmatizzare l’incongruenza del riferimento ad un generico “sbagliare”, quando si legge che c’è nel centro-sinistra chi ha a sua volta proposto il “premierato assoluto” e chi il modello westminster “con riferimenti” al cancellierato, mostrandosi persino disponibilità a discutere il modello presidenziale in uso negli Stati Uniti (come da proposta di Bassanini-Manzella), nonché ad attribuire tutti i poteri e le prerogative che hanno a diverso titolo il Primo Ministro inglese e il Cancelliere tedesco: sino al punto che mescolando tatticismo costituzionalistico con opportunismo politico, è stato osservato sia per motivi “di carattere prudenziale” sia per motivi di merito, che siccome la riforma oggi in parlamento non può dirsi “nel suo complesso espressione di una nuova cultura egemone” in grado di porsi in alternativa alla cultura che ispirò la costituzione del 1947, si potrebbe concludere che la riforma in corso “anche se approvata non sarebbe in grado – anche se incostituzionale – di determinare di per sé, immediatamente – una discontinuità ‘costituzionale’ ” Dogliani-Massa Pinto, ivi).

Se nell’accademia si arriva a commentare così, va preso atto di quali guasti possono derivare dalla teoria dello “stato di diritto” come dimostrano gli arretramenti in corso nel nostro ordinamento in connessione con la sbandierata “costituzione europea”, consolidandosi una cultura dell’autoritarismo più sfrenato, frutto di un radicale stravolgimento “costituzionale” del valore del “sociale” rispetto all’evoluzione rappresentata (nei suoi noti limiti) dalla stessa concezione “weimariana”, e ideologizzata con un modello neo-liberista che “omogeneizza” le finalità delle istituzioni europee e quelle degli stati governati dagli attuali centro-destra e centro-sinistra: avendo, cioè, sovvertito la concezione marxista del rapporto tra capitale e lavoro, tra socialità ed economicità, sulla premessa che il “welfare” si rende proponibile oggi non più in nome della “eguaglianza sociale” ma nell’interesse della “crescita economica e dello sviluppo sostenibile”, avendo in mente le priorità di un mercato che va sostenuto anche con un impiego del reddito che “garantisca gli investimenti produttivi” traducendo i bisogni in domanda effettiva, e procedendo a tal fine ad una “ricomposizione del patto tra capitale, lavoro e stato” (in Il modello sociale nella costituzione europea, a cura di C. Borgna, 2004).

Se si vuole evitare che tale ottica prevalga indefinitamente, per bloccare i rischi di una competizione che in Italia si va facendo sempre più aspra con una evocazione di “miti” ispirati ad un esiziale ritorno “all’idealismo” (foriero del passaggio a fasi prefasciste, come nella odierna fase nordamericana) per l’adempimento di una “missione”, sull’onda di “appeal emozionale” pur di avere consenso (attivo o passivo non importa), occorre rilanciare la critica a tutto campo della democrazia borghese oggi rinverdita a sinistra con rischi di stravolgimenti ulteriori della destra, evidenziando il risvolto “classista” e non “politicista” dell’idea di legge proporzionale (come ben rammentato da Riccini nel n. 105 della Contraddizione): con l’avvertenza – ora che se ne sta riparlando da destra anziché da sinistra (solo disponibile quest’ultima a non contestare acriticamente) – che si deve trattare di proporzionale “pura”, e non “corretta” per “razionalizzare” gli appagamenti dei vari gruppi di potere in rissosa “coabitazione” per la (e nella) “stanza dei bottoni”.

TRA REVISIONISMO STORICO e REVISIONISMO GIURIDICO LA COSTITUZIONE DEL 1948ultima modifica: 2011-03-29T00:03:00+02:00da iskra2010
Reposta per primo quest’articolo

Lascia un commento