Il NO diffida popolare a partiti e triplice sindacale

 

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di Angelo Ruggeri

 

…. resumè per una prima valutazione “conclusiva” della scelta referendaria del 25 giugno lasciata alla casualità di una maggioranza semplice indifferente ad un astensionismo più devastante in materia costituzionale che in materia di abrogazione delle leggi ordinarie

 

La Costituzione è il principale fatto politico, non fatto giuridico. Al di la dell’intenzione dei due poli e della consapevolezza degli elettori, si è capito il senso ultimo della “cosa”: che finiva la democrazia. Come in Francia, quando la questione diventa così generale e profonda e c’è un’organica posta in gioco, anche se sottaciuta viene colta. Così, nell’era delle “costituzioni regressive” – europea, cinese, riforme italiane –, è venuto un altro No alle regressioni costituzionali. Bloccata l’arroganza del centrodestra ora, potenzialmente, può (si deve) debellare l’ipocrisia istituzionale del centrosinistra, che nel segno del “revisionismo storico” intrecciato col revisionismo giuridico attualmente imperante, ha oscurato l’ideologia antifascista della “repubblica” fondata “sul lavoro” (non sul mercato, come viceversa espressamente dicono i Trattati sulla sovranità europea, dal 1957 sino all’istituzione dell’Euro) e sulle “autonomie” (non sul “federalismo”) che segnano il modello di rapporto tra società e istituzioni, tra movimenti e partiti da un lato e stato, regioni e provincie e comuni dall’altro, con cui alla Costituente, oltre ai missini presidenzialisti dal 1948, si sconfisse il presidenzialismo Nord-americano (federalista), proposti dall’enfatizzato “azionista” Calamandrei, che da liberale irrise la democrazia sociale e la sua natura programmatica e di lotta che con la profonda rottura culturale dei partiti di massa con caratteri e dimensioni mai esistite prima – e negli USA mai -, cambiò il pensiero e l’esperienza di milioni uomini e donne. Con una progressiva e inarrestabile crescita della democrazia sociale e di massa fino al 1975, anno in cui non a caso si comincia a parlare di “governabilità” della democrazia ed in suo nome si approntano da un lato le teorie antidemocratiche della Trilateral per “limitare la democrazia” e per asportare dal sistema occidentale “l’anomalia italiana” e dall’altro i Piani P2 per dare attuazione a tali teorie, “riformando” la Costituzione. Identificata (con ragione, chiara alla destra e molto meno alla sinistra rivoluzionaria come allora si definiva quella che ora si dice definisce semplicemente “sinistra”, di non si sa cosa) come origine e causa del “caso italiano”, per aver essa costituito una svolta, una rottura non solo rispetto al regime fascista, ma anche rispetto al modo in cui vivevano, si organizzavano ed esprimevano la volontà popolare le masse nello stato pre-fascista, che sanciva il primato del capitalismo nelle forme della simbiosi tra le burocrazie del sistema delle imprese private e pubbliche e le burocrazie dello stato frutto della commistione tra l’autoritarismo liberale canonizzato dallo Statuto-Albertino del 1848, e il totalitarismo fascista. Non a caso e proprio per questo, per cancellare il “caso italiano” di democrazia avanzata, il Piano della P2 di Gelli indicava il modello tedesco che, all’opposto di quello italiano, non rappresenta una “svolta” ma bensì un ritorno al tradizionale autoritarismo liberale pre-nazista ed a quella riduttiva concezione di “ stato sociale” (anziché di controllo sociale dell’accumulazione), rinverdita dalla socialdemocrazia di Bonn erede posticcia della cultura “weimeriana”, che come tale più che alla sovranità del lavoratore-cittadino della nostra Costituzione può ben più facilmente riferirsi alla riscoperta della teoria della sovranità del cittadino-consumatore (donde anche le anticostituzionali leggi di limitazione del diritto di sciopero costituzionalizzato come valore collettivo e individuale assoluto in nome di un cittadino che contro la Costituzione si è assunto come separato e contrapposto a lavoratore, come utente portatore di valori e diritti del consumatore in negazione di quelli del cittadino-produttore) consona all’attuale ideologia della società dei consumi (un totalitarismo senza pari e precedenti nella storia, aveva ben visto Pasolini, che unifica senza distinzioni “destra” e “sinistra”) e cultura mercatista assunta anche dalla “sinistra” nell’era del narcismo fase suprema del capitalismo a guida USA, che il liberismo esporta e mistifica in tutto il mondo come democrazia.

Donde che dal federalismo parti l’attacco alla Costituzione, chi in nome di quello USA e chi di quello dei Lander tedeschi come i Bertinotti, i Di Liberto e pecorari di Rifondazione, Pdc, verdi e CGIL di maggioranza e minoranze come, da tempo, “Lavoro e società”: che dopo aver respinto in toto e unanimemente il federalismo quando il suo “capo” e datore di posti era a Milano, appena questi arrivò in segreteria nazionale a Roma, promosse col neo craxiano Bassanini un convegno dal titolo “federalismo a costituzione invariata” (impossibile in quanto esplicitamente escluso alla Costituente e dalla Costituzione) esibendosi nella più clamorosa delle mistificazioni possibili, asservendosi al pseudo federalismo e alla strategia dell’Ulivo (premiato con un posto di sottogoberno di Padoa Schioppa – quindi della burocrazia monetaria europea – e della Bonino – quindi del liberismo a guida USA – che hanno nelle mani la politica economica e quindi tutta la politica del governo). Nella più totale e irresponsabile sottovalutazione – culturale e di intellettuali prima che politica e dei politici – delle implicazione del c.d. “aggiornamento” della Costituzione, perseguito in presenza, oltre che degli “ex fascisti” di “alleanza nazionale” e dei democristiani dell’Udc, di un mix estraneo e antitetico all’ispirazione della C., come “leganord” e “forza Italia” tra loro affini perché organici al blocco sociale e ideologico d’impresa della borghesia ambrosiana. Per rintuzzare il quale bisogna tornare al controllo sociale dell’economia e del sistema di accumulazione dell’impresa, dal cui abbandono nasce, in coincidenza anche temporale, il leghismo (abbiamo documentato, dal 1997, in “Leghe e leghismo. Ideologia, economia e politica dei “forti” e l’antitesi federalista al potere dal basso”, Ed. CGIL-Il Lavoratore). Anziché riprendere a dialogare con la Lega come fanno i DS – già a marzo col confindustriale Bersani (della legacentro) che col suo liberismo come l’ex ministro liberista Martino mostra di aver riscoperto la reazionaria scuola austriaca della sovranità del consumatore (anziché del produttore) -, fanno circolare un documento informativo prospettante il “decalogo Calderoli” e il “decalogo Elia” in vista di “una vera riforma costituzionale” dialogante con la Lega sodale di Forza Italia di Berlusconi già sodale di Craxi.

Dal “federalismo”, dunque, si intende ripartire per riprendere ad attaccare l’organico rapporto tra democrazia di massa, centralità del parlamento e autonomia, sociali e dei magistrati (per cui anche i lavoratori, per i loro diritti, sono sempre più costretti a rivolgersi ai giudici anch’essi meno autonomi se privati di organico rapporto democratico con la società e il parlamento). Per attaccare la Costituzione inseguendo, nuovamente, sul suo terreno il blocco sociale e ideologico lombardo-veneto riconoscendogli una qualche forma autonoma al potere dall’alto dei suoi vertici regionali presidenziali, in una coincidenza di interessi tra vertici autoritari padronali e istituzionali del leghismo lombardo-veneto e vertici padronali e istituzionali del leghismo tosco-emiliano che anch’essi vogliono la stessa cosa per se stessi, in nome del blocco sociale e ideologico d’impresa del leghismo delle Coop di mercato.

Questo anche perché tutte le particelle e sottoparticelle del centrosinistra hanno colpevolmente taciuto il carattere di classe della alternativa assunta dalla Costituzione, nata non già discutendo, come altre, il testo di uno o più giuristi ma scritta parola per parola nell’Assemblea politica Costituente in un confronto dialettico e dibattito pluralistico tra le tesi e le teorie politiche delle della sinistra sociale e politica sia di ascendenza marxista che di ascendenza cattolico-sociale, dando forma giuridica ai rapporti sociali come modificatisi nel processo storico che va dal 1848 in poi, nella prospettiva di una loro trasformazione. Per corrispondere – dando ad esse forma giuridica – alle domande sociali e aspirazioni del popolo italiano provato e reso consapevole da un secolo di monarchia/liberale, 20 anni di fascismo, due guerre mondiali e dalla Resistenza e guerra popolare di Liberazione. Facendo uso “alternativo” del diritto, rompendo col giuridicismo e dando scientificità alla categoria della giuridicità perché come “la filosofia di un’epoca storica è la storia della stessa epoca” (Gramsci, Q10 § 17), “anche la scienza – quindi anche giuridica n.d.r. – è una categoria storica…in continuo sviluppo (Q 11 § 17), “una superstruttura, una ideologia in quanto…è scienza l’unione del fatto obbiettivo con ipotesi che lo superano” (Q 11 § 38). Per cui solo storicizzando le forme del diritto e dallo stato, si coglie il nesso tra scienze sociali e la storicamente mutevole forma del diritto e dello stato: che, viceversa, l’ideologia giuridica, anche dei giuristi c.d. “democratici, cristallizza nello stato della “epoca storica” liberale di dominio del governo sul parlamento e sulla società, superata dallo Stato democratico.

Comanda il governo o il Parlamento? Il potere esecutivo e legislativo si unifica in una solo persona (come in Carl Schmitt e il fascismo)? Questo è la “cosa”. Invece si è solo denigrata come “sgangherata” e “costosa” la revisione del centrodestra, col nuovo latinorum politico degli inglesismi, come devolution (decentramento) e con logomachie, sul premierato e le sue specie e sottospecie, dei costituzionalisti giuridicisti c.d “democratici” (anch’essi duramente colpiti dal NO).

La nostra Costituzione ha fatto il coordinamento dei poteri, non la c.d. separazione dei poteri dello stato liberale c.d. “di diritto” che è stata spazzata via dalla “centralità” del Parlamento che si vuole riportare a fare da mero controllo del governo con un astratto e presunto c.d. bilanciamento dei poteri o “checks and balances”: come si legge nel Programma di Prodi ma già conclamato da tutto il centrosinistra nella famigerata “bozza Amato” del 10/12/03, che optò per il “premierato” pur scrivendo che poteva trasformarsi “in una totale delega ad un leader della sovranità degli stessi cittadini”, come è puntualmente avvenuto. “Una democrazia decidente”, dice Violante, che “ci liberi dall’antico idolo del parlamento legislatore onnipotente” (Lettera ai giovani sulla costituzione, 2006).

A noi ricorda quanto scrisse la Commissione dei Soloni, presieduta da Gentile, del 1923, che preparò il colpo di stato del 25: lo stato si riassume nella “preminenza dell’esecutivo”; “il potere non può che venire dall’alto”; “dal popolo vengono solo freni, limiti e controlli…”: quindi “il Parlamento, per sua origine e indole” non deve partecipare “al governo…cui è affidato” il potere di decidere.

Ma forse si è davvero toccato il fondo, essendosi intravisti i contorni labili e sfuggenti in pantomime televisive dominate dall’ipocrisia bipolare, della crisi della democrazia determinata dai quei partiti che introdotto il maggioritari hanno aperto la via all’arroganza del governo del “capo” da essi stessi auspicata. Sperando di non dover attendere 15 anni per risalire visto la lunghezza delle diverse fasi: 20 anni durò il fascismo, 30 quella della democrazia sociale e del costituzionalismo democratico 45-75 e già 15 sono quelli del maggioritario e di un costituzionalismo convenzionalmente denominato moderno dai paladini della liberaldemocrazia per camuffare una convergenza mistificata e comprovata dall’identità dell’ideologia “giuridica” che accomuna tutte le correnti pseudo democratiche che siedono a sinistra e le correnti antidemocratiche che siedono a destra nel parlamentarismo prono al capitalismo.

Forse, perché non possiamo ignorare che l’elettorato per un trentennio è stato tenuto all’oscuro dei maneggi delegati al ceto dei giuristi dai gruppi di potere sostituitisi ai partiti di massa, profittando della società mediatica in col berlusconismo, per cancellare la sovranità popolare, ma che con il suo vibrante NO – uniformemente distribuito in tutto il Paese – ad una revisione costituzionale la cui radicale illegittimità avrebbe dovuto essere impugnata col rifiuto di promulgarla che l’ex presidente Ciampi non ha invece interposto, esprime con la carica dell’imprevisto e la incisività del suo radicamento, la stessa potenzialità unificante che le lotte dei movimenti hanno trasferito ai popoli che hanno recentemente detto “No” al progetto di “Trattato per la costituzione europea”. Per il i rilancio del quale, profittando per la prima volta di un potere che viceversa all’interno del PCI egli trovava contrastato, briga il presidente Napolitano non meno di quanto briga per alimentare una nuova perversione istituzionale con una collusione ideologica e costituzionale tra centrodestra e centorsinistra copertisi di contumelie solo rispetto alla varietà di formule sciorinabili dalla “ingegneria costituzionale”, sollecitate proprio nelle ultime battute dei colloqui televisivi e delle interviste accattivanti: a disvelare impunemente “coram populo” l’intento di trovare comunque una convergenza decisionale e ultimativa, nella prospettiva accarezzata dai costituzionalisti c.d. “democratici” e dai politici, fin da quando è stata enfatizzato l’abbandono della proporzionale pura e l’introduzione del “presidenzialismo” in comuni, provincie e regione “federalista”, per tornare al costituzionalismo liberale indifferentemente repubblicano o monarchico dell’800. Sotto le mentite spoglie di un costituzionalismo “modernista” volto ad edulcorare l’operazione ideologica di comodo per i gruppi di comando economico-finanziari e delle istituzioni politiche convergenti sulla traiettoria del centrosinistra e dell’europeismo, per i quali il riformismo va inteso come anticomunismo e rinuncia ad attaccare il capitalismo in cambio di personali emolumenti e privilegi economici e di governo.

Donde che il NO del 25 giugno indica i presupposti di una diffida popolare a quei partiti che in occhiuta separatezza dalle forze sociali hanno tramato nel chiuso del “palazzo” per allineare le istituzioni italiani a quelle di altri paesi occidentali già conformi a quella “costruzione” europea che persino nei manuali giuridici viene emblematicamente caratterizzata come “deficit democratico europeo”.

Una diffida che, ora, compete alla cultura democratica e ai movimenti di lotta sui vari fronti del conflitto di classe assumere come asse di una strategia non più meramente di “difesa” ma di “rilancio” dei principi e dei valori della democrazia sociale e delle teorie antifasciste della sovranità popolare che sono sotto attacco in modo diretto da quando è stata introdotta la famigerata c.d. legge finanziaria per la quale brigò tra i primi proprio il Napolitano oggi capo dello stato, che continua ad asseverare stucchevolmente – come da oltre un ventennio fa il centrosinistra – che la “Carta” va aggiornata e “adeguata”, a cui si allude senza entrare oltre in merito per captare l’accondiscendenza facile di quanti pensano col senso comune invece che col buon senso e per poi passare la mano ai costituzionalisti professionalmente dediti alle logomachie istituzionali con cui si danno un mestiere e un guadagno e volti a confezionare e ad interpretare le esigenze di quelli che Gramsci chiamava i “vecchi figurini costituzionalistici” della cultura liberale – secondo cui le funzioni dello stato sono “solo tre”, la legislativa, l’amministrativa e la giudiziaria – al fine di riconoscere che a queste bisogna aggiungerne un’altra: “la principale, la primigenia e la fondamentale, la ‘funzione di governo’, ossia la determinazione dell’indirizzo politico”, che peraltro come nell’antiparlamentare regime fascista, avrebbe tale carattere “anche nel regime parlamentare”. esi oggi dominante nella cultura giuridica di ispirazione mortatiana (di Mortati, giurista del fascismo e poi della DC) che si era affermata (al pari di quella della costituzione “materiale”) durante il fascismo: quella, cioè, sostenuta con interessata passione dall’interprete più autentico del fondamento giuridico del fascismo, cioè da Sergio Panunzio, contrastato da Gramsci che contestò tale tesi. Ma che però, contro l’autonomia del Parlamento e per dichiarato spirito anticomunista, è stato canonizzato dalla maccheronica (ancorché, o proprio perché, accademica) formula della cosiddetta ‘conventio ad excludendum’, mettendo così in evidenza con Elia (che oggi stila decaloghi per il centrosinistra da confrontare con Calderoli) i limiti di una cultura giuridica così acritica da essere corriva a quel che l’organizzazione del potere vigente impone volta a volta, e, nel caso in oggetto, con riguardo alla legittimazione politico-culturale del regime fascista come regime “totalitario” imperniato sulla “gerarchizzazione” dei rapporti di classe e dei rapporti istituzionali, nelle forme dello stato-partito unico garantito dal dominio del “capo del governo”, e perciò del potere esecutivo sul potere legislativo, cioè del governo sul parlamento, che si ritiene debba valere anche per lo stato pluripartito di tipo democratico e non di autoritarismo liberale su cui si innestò per l’appunto il fascismo come regime del “capo del governo”.

Gramsci – stigmatizzando l’operazione di Panunzio con la denuncia che egli in realtà ragionava “per figurini, cioè formalisticamente, peggio dei vecchi costituzionalisti” – ha spiegato in termini che rimangono una pietra angolare per una scienza giuridica acritica, come fosse inaccettabile soprattutto la conseguenza di un ragionamento definito subito come “superficiale”, e volto a concludere che l’indirizzo politico va inteso come una funzione “rispetto alla quale la stessa legislazione si comporta come un esecutivo”. Denunciandola in modo perentorio (!) ed eloquente come “apodittica” tale affermazione: che però è stata ripetuta quasi costantemente dopo l’entrata in vigore della costituzione democratica e antifascista, salvo il breve periodo – 68-75 – nel quale si è tentato con qualche successo (poi fatto scontare al durissimo prezzo che sappiamo) di far operare i principi del nuovo governo parlamentare come forma propria dello stato di democrazia sociale, tra i quali primeggia, appunto, il principio della “centralità del parlamento”, bollato come “assemblearismo” dai “figurini liberali” e Panunzio degli anni 80-90-2000, cultori del dominio governativista e antiparlamentare proprio dell’autoritarismo liberale e del totalitarismo fascista.

 

P.S.: i rilievi di Gramsci si compendiano in due pagine concentrate ed estremamente efficaci che, nell’ormai sterminato florilegio gramscista, non hanno il peso che meriterebbero per quella teoria politica sul partito che è in definitiva il cuore della teoria marxista dello stato e della teorizzazione complessiva di Gramsci (Q 15, pagg.1807-9).

Il NO diffida popolare a partiti e triplice sindacaleultima modifica: 2011-04-01T00:05:00+02:00da iskra2010
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