NO ALL’HUB MILITARE – NO ALLA GUERRA

 

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· Per la difesa dell’ambiente e della salute

· Per investimenti che migliorino la qualità della vita

  • Per una vera città della pace

 

Relazione al Convegno del 16 aprile 2011, redatta dal Gruppo di lavoro del Coordinamento No Hub: Cesare Ascoli, Paolo Baschieri, Andrea Boni, Giovanni Bruno, Leila D’Angelo, Massimo De Santi, Franco Dinelli, Manlio Dinucci, Luigi Gastaldello, Federico Giusti, Valter Lorenzi, Andrea Montella, Donatella Petracchi, Nicola Sighinolfi.

Si ringrazia per il suo contributo alla relazione il Dr. Eugenio Serravalle (medico pediatra).

 

Prima di esporre le ragioni del Coordinamento No Hub, occorre ricordare quali sono le caratteristiche dell’aeroporto di Pisa.

 

CHE COS’E’ L’AEROPORTO DI PISA E QUAL E’ IL SUO TRAFFICO ATTUALE

L’ARPAT (Agenzia Regionale per la Protezione Ambientale in Toscana) così lo descrive nel suo studio “Monitoraggio acustico dell’aeroporto di Pisa a partire dal 2001” (20 novembre 2009):

«L’aeroporto di Pisa è un aeroporto militare aperto al traffico civile; pertanto, la gestione delle piste, della torre di controllo, delle radioassistenze alla navigazione e del radar di controllo di avvicinamento compete all’Aeronautica militare italiana. L’aeroporto si trova a 2 km a Sud del centro della città di Pisa e ha due piste, una principale lunga 2993 m e l’altra ausiliaria lunga 2497 m. Entrambe le piste però possono, non contemporaneamente, essere utilizzate nelle due direzioni, sia per il decollo che per l’atterraggio. La direzione privilegiata è quella da e verso Sud, poiché ciò evita il sorvolo della città. In condizioni meteorologiche di vento in coda maggiore di 10 nodi è obbligatorio per gli aeromobili in decollo l’utilizzo della direzione Nord, mentre l’atterraggio da questa direzione, seppure evento raro, risulta necessario in condizioni di vento dal mare di notevole intensità. La direzione Nord per i decolli è frequentemente utilizzata specialmente durante il periodo estivo, per gestire l’elevato traffico attuale, con la conseguenza che oltre la metà dei decolli avviene in quella direzione».

Secondo i dati forniti dalla SAT (Società Aeroporto Toscano Galileo Galilei S.p.A.) i movimenti di aeromobili civili hanno superato nel 2007 il numero di 40.000 annui (42.691), raddoppiando nell’arco di dieci anni. A questi si aggiungono i movimenti di aeromobili militari. Nel sopracitato studio dell’ARPAT si specifica che «i voli militari sono circa un terzo di quelli civili», ossia circa 14.000 annui. Ciò significa che, secondo questi dati ulteriormente da aggiornare, in un anno vengono effettuati all’aeroporto di Pisa, complessivamente, oltre 55.000 decolli e atterraggi, in media circa 150 al giorno.

 

CHE COS’E’ L’HUB MILITARE

Nel Programma pluriennale di A/R n. SMD 06/2010, presentato alle Commissioni Difesa del Senato e della Camera, esso viene definito «Hub aereo nazionale dedicato alla gestione dei flussi, via aerea, di personale e di materiale dal territorio nazionale per i teatri operativi, e viceversa, con tempestività e efficacia».

Nella relazione presentata dal sen. Luigi Ramponi alla Commissione Difesa del Senato, il 12 ottobre 2010, viene così descritto: «Tale struttura di grandi dimensioni (che utilizzerà soluzioni logistiche già sperimentate con successo nel settore civile), dovrà, in particolare, essere adeguatamente connessa con le principali vie di comunicazione stradale, ferroviaria e navale, gestire la ricezione, lo stoccaggio e lo smistamento dei materiali, preparare e curare l’allestimento del carico, ricevere e gestire vettori di trasporto aereo (militari e civili) di diverse capacità e caratteristiche (sia di grandi che di medie dimensioni), ed essere in grado di gestire contemporaneamente più operazioni di imbarco e sbarco di personale e materiali».

Nella relazione presentata dall’on. Roberto Speciale alla Commissione Difesa della Camera il 26 ottobre 2010, viene così descritto: «Scopo del programma è la realizzazione di un hub aereo nazionale dedicato alla gestione dei flussi, via aerea, di personale e di materiale dal territorio nazionale per i teatri operativi, e viceversa, in grado di: assicurare il collegamento con le principali linee di viabilità (navale, ferroviaria e stradale); ricevere e gestire vettori da trasporto aereo, militari e civili, sia cargo sia passeggeri, di grandi e medie dimensioni; gestire la ricezione, stoccaggio e smistamento dei materiali da movimentare; preparare e curare l’allestimento del carico, incluso i carichi di merci pericolose. La nota illustrativa del programma precisa che l’Hub aereo nazionale dovrà essere realizzato sull’aeroporto di Pisa e sarà contraddistinto da strutture dedicate per la ricezione, il check-in, il check-out, i controlli di sicurezza, passaporti e doganali, la ricezione, la verifica, la preparazione, il confezionamento dei carichi e dei bagagli passeggeri, inclusi i controlli radiogeni e di sicurezza, nonché le operazioni di sicurezza legate al volo per gli equipaggi in transito. Oltre alle citate infrastrutture, faranno parte dell’Hub aereo nazionale anche le superfici operative orizzontali (piazzali, vie di rullaggio, raccordi eccetera) per la gestione e il parcheggio dei velivoli militari e/o noleggiati. La capacità di transito massimo dell’Hub aereo sarà di circa 600-1200 passeggeri giornalieri, mentre la sua capacità di movimentazione giornaliera massima sarà di circa 300-400 tonnellate».

Va qui rilevato che, nella relazione alla Commissione Difesa del Senato, l’Hub viene definito «struttura di grandi dimensioni», mentre – nell’audizione del 14 gennaio 2011 alla 1a Commissione Permanente del Consiglio Comunale di Pisa il Generale Stefano Fort, il Colonnello Bruno Fratarcangeli e gli altri Ufficiali dell’Aeronautica hanno detto, con toni rassicuranti, che non occorrerà allargare l’attuale area dell’aeroporto militare Dall’Oro. Inoltre non hanno chiarito che cosa comporterà, per il territorio di Pisa e Livorno, il fatto che tale struttura «dovrà essere adeguatamente connessa con le principali vie di comunicazione stradale, ferroviaria e navale».

 

COME E’ STATA PRESA LA DECISIONE

L’annuncio viene fatto il 2 agosto 2010 dal portavoce della 46a Brigata aerea, maggiore Giorgio Mattia. Ecco, in sintesi, come Il Tirreno (3 agosto) riporta la notizia: «L’aeroporto militare Dall’Oro diventerà l’Hub nazionale delle forze armate. Pisa sarà il punto di riferimento per tutte le forze armate che avranno bisogno di spostarsi per via aerea per tutte le missioni nei teatri internazionali. Certamente, dovrà crearsi una sorta di cittadella all’interno dell’aeroporto militare. Sarà costruita anche una struttura ricettiva che potrà movimentare fino a 30 mila uomini perfettamente equipaggiati, in un arco di tempo di almeno un mese».

Il sindaco Marco Filippeschi esprime subito, pubblicamente, il suo appoggio al progetto dell’Hub militare. Ecco come Il Tirreno dell’8 agosto 2010 riporta, citandole tra virgolette, le sue dichiarazioni: «Per la nostra città non può che essere un onore accogliere le strutture che consentiranno all’aeroporto militare di essere il punto di riferimento, logistico e di volo, per le missioni di pace che le nostre forze armate saranno chiamate a svolgere. Senza sottovalutare anche le possibili ed interessanti ricadute occupazionali». Il Sindaco di Pisa esprime così il pieno appoggio della città al progetto dell’Hub militare senza aver richiesto il parere del Consiglio Comunale, né tantomeno consultato la cittadinanza. E lo esprime ancora prima che il progetto sia presentato in Parlamento. Successivamente, nel Consiglio Comunale del 4 novembre 2010, il Sindaco sostiene che si è trattato di un «equivoco»: spiega di essere orgoglioso non dell’opera in cemento (di cui, dice, saranno orgogliosi i militari) ma della presenza delle istituzioni militari a Pisa e del fatto che partono da qui le missioni di pace e solidarietà. Nella stessa seduta del Consiglio Comunale, l’assessore all’urbanistica Fabrizio Cerri ammette che «nessuno di noi ha visto un progetto», né «una cartografia in grado di esprimere un progetto compiuto».

Il Parlamento italiano viene chiamato a pronunciarsi sull’Hub di Pisa solo dopo che esso è stato annunciato e illustrato, il 2 agosto 2010, dal portavoce dell’Aeronautica militare, e dopo che questa ha pubblicato, il 3 agosto, un avviso di gara per la fornitura di mezzi, equipaggiamenti e sistemi per «il costituendo Hub aereo nazionale presso l’aeroporto militare di Pisa». L’Aeronautica militare, dunque, scavalca il Parlamento. Il Ministro della Difesa presenta infatti il programma dell’Hub in parlamento solo il 30 settembre 2010. L’Atto di governo relativo all’Hub militare, dopo essere stato approvato dalle Commissioni Difesa del Senato e della Camera, diventa esecutivo con la firma del Decreto l’11 novembre 2010.

Chiediamo al Consiglio Comunale: è possibile che un progetto di tale rilevanza venga imposto all’intera cittadinanza senza che essa sia stata minimamente consultata? Anche se i lavori interni all’aeroporto militare possono essere eseguiti senza l’autorizzazione degli Enti locali, è evidente che la realizzazione dell’Hub militare ha tutta una serie di ripercussioni sul territorio circostante, ossia nell’area di competenza degli Enti locali.

 

QUALE E’ E SARA’ L’IMPATTO AMBIENTALE E SANITARIO

La decisione di realizzare a Pisa l’Hub militare è stata presa senza che sia stato fatto alcuno studio sulle sue implicazioni per il territorio di Pisa/Livorno, anzitutto sull’impatto ambientale.

Nell’audizione del 14 gennaio 2011 alla 1a Commissione Permanente del Consiglio Comunale di Pisa, gli Ufficiali dell’Aeronautica hanno comunicato che la realizzazione dell’Hub comporterà solo un aumento di 350 voli annui (in media 1 al giorno): sono quelli che oggi vengono effettuati con aerei noleggiati da altri aeroporti italiani e che, una volta entrato in funzione l’Hub, saranno concentrati a Pisa. Hanno però passato sotto silenzio il fatto che tali voli andranno ad aggiungersi a quelli militari effettuati dalla 46a Brigata Aerea, che sono sicuramente destinati ad aumentare.

L’ARPAT ha effettuato un monitoraggio dell’inquinamento acustico provocato dagli aerei. Nello studio sopracitato, essa precisa però: «È opportuno ricordare riguardo ai voli militari, che sono circa un terzo di quelli civili, che il rumore da essi originato non è sottoposto ad alcuna limitazione operativa da parte della legge. In base anche alle procedure descritte (ad esempio: atterraggi da nord e sorvoli molto bassi) è possibile che parte del disturbo lamentato in varie occasioni dalla cittadinanza sia stato provocato da questo tipo di voli». Nell’audizione del 14 gennaio, gli Ufficiali dell’Aeronautica hanno garantito che l’Hub militare non provocherà un aumento del rumore, che sarà attenuato, oltre che da barriere anti-rumore, da sorvoli più alti al momento del decollo. Non hanno però spiegato come evitare che gli aerei sorvolino l’abitato a bassa quota al momento dell’atterraggio.

L’impatto ambientale dell’aeroporto – già oggi ai limiti della sostenibilità a causa dei crescenti sorvoli di zone abitate – non è solo quello acustico. Il traffico aereo, infatti, provoca un pericoloso inquinamento atmosferico, dovuto a sostanze chimiche che, emesse dagli aerei, si diffondono nell’area abitata sottostante. A questo si aggiungono altri tipi di inquinamento chimico, provocato dalla struttura aeroportuale. Sull’inquinamento chimico, più pericoloso di quello acustico in quanto non viene avvertito dalla popolazione, non viene effettuato alcun affidabile controllo. Il monitoraggio dell’inquinamento atmosferico viene effettuato nel solo sito aeroportuale e, per di più, non dall’Arpat ma dalla Sat, la società in cui lo stesso Filippeschi ha la carica di presidente del patto parasociale, la quale passa i dati all’Arpat e quindi al Comune. Come se, per verificare l’inquinamento di una fabbrica, si affidasse il monitoraggio al solo proprietario.

A titolo di esempio su che cosa dovrebbe essere fatto, riportiamo alcuni stralci dallo studio «Le emissioni aeroportuali», pubblicato nel febbraio 2007 dall’ARPAV (Agenzia Regionale per la Prevenzione e Protezione Ambientale del Veneto): «Le strutture aeroportuali sono responsabili dell’emissione di un gran numero di inquinanti. Alcuni di questi sono strettamente legati alle attività che comportano una qualsiasi combustione: ozono (non emesso direttamente, ma formato dall’emissione dei suoi precursori), monossido di carbonio, ossidi di azoto, composti organici volatili e materiale particolato.

In generale, il funzionamento della piattaforma aerea può essere diviso in diverse fonti di inquinamento atmosferico.

I motori d’aereo emettono principalmente ossidi di azoto (NOX), monossido di carbonio (CO), composti organici volatili (COV), biossido di zolfo (SO2) e polveri (PM). Emettono anche anidride carbonica (CO2) e acqua (H2O). Le emissioni di ossidi di azoto e delle particelle in sospensione sono preponderanti in fase di decollo e di salita, mentre le emissioni di monossido di carbonio e di idrocarburi sono preponderanti al momento dell’avanzamento a terra.

Le emissioni al suolo risultano direttamente dal funzionamento dell’aeroporto: i gruppi elettrogeni, i gruppi ausiliari di potenza, i compressori, gli elevatori, i tappeti per i bagagli, le prove motori, i veicoli di servizio, le centrali di produzione di energia, le dotazioni per lavori, le dotazioni per la manutenzione, la conservazione di carburante, la conservazione di prodotti vari (solventi, pitture, prodotti di pulizia interna, prodotti di manutenzione degli spazi verdi), le zone di contenimento delle acque scure…

A tutte queste fonti bisogna aggiungere il traffico stradale (veicoli personali, veicoli di nolo, taxi, bus, navette…) indotto per servire l’aeroporto (passeggeri, personale della piattaforma)».

Lo studio dell’ARPAV dimostra che c’è un rapporto diretto tra l’emissione di PM10 (le cosiddette «polveri sottili») e il numero di movimenti degli aerei. Dimostra che un aeroporto in forte espansione come quello di Pisa provoca un crescente inquinamento chimico, dovuto sia ai voli, sia al funzionamento stesso della struttura aeroportuale e all’aumento del traffico stradale per i collegamenti con l’aeroporto. Particolarmente pericoloso è quello provocato dalle polveri sottili, minuscole particelle solide e liquide, non visibili all’occhio umano, contenenti migliaia di sostanze chimiche che, penetrando nei polmoni e nel sangue, possono provocare gravi malattie cardiache e respiratorie e anche tumori. Tutti questi tipi di inquinamento chimico cresceranno con la realizzazione dell’Hub militare.

I rischi per la salute dei cittadini che vivono vicino ad una stazione aeroportuale sono legati all’inquinamento acustico ed a quello ambientale.

L’esposizione residenziale al rumore da traffico aeroportuale è responsabile di ipertensione arteriosa, di una maggior frequenza di disturbi cardiovascolari e di una varietà di sintomi quali irritabilità, stanchezza, mal di testa, calo di performance che vengono inquadrati in una sindrome definita annoyance (fastidio) da rumore. Il rumore aeroportuale interferisce con la qualità del sonno delle persone che risiedono nelle vicinanze degli aeroporti, che fanno un maggiore uso di farmaci quali sonniferi e tranquillanti. Sono state  evidenziate disfunzionalità del sistema endocrino, alterazioni croniche del sistema immunitario e  della salute mentale negli adulti. Anche nei bambini il  rumore aeroportuale è associato ad un aumento dei livelli pressori; ma gli effetti più importanti sono quelli  sulla salute mentale, con riduzione delle capacità di apprendimento, e diminuzione delle capacità cognitive.

Gli inquinanti atmosferici, ossidi di zolfo (SO2 + SO3), ossidi di azoto (NO + NO2, NO2), Composti Organici Volatili (COV), polveri atmosferiche con diametro inferiore ai 10 μm (PM10), polveri atmosferiche con diametro inferiore ai 2,5 μm (PM2,5), anche a livelli relativamente bassi, favoriscono l’insorgenza di  numerose patologie, quali tumori, malattie dell’apparato riproduttivo, danni neurologici, malattie cardiocircolatorie, alterazioni del sistema immunitario ed endocrino, ed,  in particolare, svariate patologie a carico  dell’apparato respiratorio.

In particolare, il Particolato inalabile (PM10) ed il Particolato fine (PM2.5) determinano reazioni infiammatorie croniche a carico di svariati sistemi come il cardiocircolatorio e il neurologico. I VOC sono in gran parte estremamente tossici (agiscono legandosi ai recettori nucleari e alterando la trascrizione genetica determinano patologie endocrine, riproduttive, immunitarie ed oncologiche), ed essendo liposolubili sono più tossici per le donne e di conseguenza per feti e neonati.

Questi inquinanti ambientali possono aumentare il rischio di tumore  a concentrazioni molto più basse di quelle alle quali ne è stata provata l’azione cancerogena. Essi possono interagire fra loro in maniera additiva o moltiplicativa, aumentando il rischio di malattie cronico-degenerative attraverso meccanismi indiretti, pur non essendo identificati come cancerogeni chimici.

Nell’aeroporto pisano, secondo i dati forniti dalla SAT (Società Aeroporto Toscano Galileo Galilei S.p.A.) i movimenti di aeromobili civili hanno superato nel 2007 il numero di 40.000 annui (42.691), raddoppiando nell’arco di dieci anni. Nel 2007 il numero dei passeggeri era al disotto dei 4 milioni, oggi si è superato tale traguardo e il successivo che si propone SAT è quello dei 6 milioni: quindi circa 60.000 voli annui di aerei passeggeri, cui si aggiungono i voli di aerei cargo. La SAT si propone di portare il traffico aereo annuo di merci a 22 milioni di tonnellate, che dati i ritmi di aumento potrebbero arrivare a 30 milioni di tonnellate annue.

A questi si aggiungono i movimenti di aeromobili militari, che aumenteranno fortemento quando l’Hub sarà entrato in funzione. Agli attuali 14.000 voli militari se ne aggiungeranno diverse migliaia, effettuati anche dall’aeronautica statunitense ed altre della Nato. Compresi quelli civili, si arriverà così probabilmente a una media di oltre 360 voli al giorno.

Per capire qali saranno le conseguenze sanitarie, si può prendere come esempio l’indagine effettuata dall’ASL di Varese nei nove comuni dell’area attorno all’aeroporto di Malpensa. I dati raccolti, relativi al periodo 1997-2009, mostrano che il tasso di mortalità è cresciuto del 4% e che i decessi per malattie respiratorie sono aumentati del 54%. Nessuna indagine di questo tipo viene compiuta nell’area attorno all’aeroporto di Pisa. Qui le amministrazioni pubbliche, comprese le aziende che dovrebbero proteggero la salute degli abitanti, ignorano semplicemente il problema. E’ evidente che si cerca in tal modo di salvaguardare i proventi economici che gli enti locali, soci al 51% della Sat, introitano con l’aumento del traffico aereo.

Ben altro approccio occorre avere. Si può prendere come esempio una relazione presentata al consiglio comunale di un comune vicino all’aeroporto di Malpensa, cambiando semplicemente il nome dell’aeroporto: «L’aeroporto di Pisa è una realtà consolidata sul nostro territorio, che al territorio offre opportunità di occupazione e di sviluppo turistico. Tuttavia è imprescindibile che l’aeroporto e il suo ulteriore sviluppo debbano essere compatibili con il territorio, non a suo discapito. Compatibilità significa qualità della vita dei cittadini, che hanno come diritto primario di vivere in un ambiente che non sia carico di rischi per la salute. Ricordando che il territorio dove è insediato l’aeroporto di Pisa è già fortemente compromesso dal traffico su gomma e ferroviario e da una elevata antropizzazione, non possiamo più permetterci il lusso di tralasciare o minimizzare tali problemi ambientali. Non è più giustificabile eludere tali problemi allettando i cittadini con promesse di sviluppo occupazionale. Le conseguenze di tale comportamento verranno inevitabilmente pagate dalla comunità tutta con elevatissimi costi economici e sociali, a livello sanitario e ambientale, tenendo conto che ad oggi non siamo arrivati al massimo regime di espansione».

 

QUALI ALTRI PERICOLI E DANNI PROVOCHERA’ L’HUB MILITARE

L’aumento dei voli, in seguito alla realizzazione dell’Hub militare, comporterà anzitutto un aumento del rischio di incidenti, come quello verificatosi nel novembre 2009. «Dopo 13 mesi nessuna perizia», titola Il Tirreno (21 dicembre 2010) a proposito dell’incidente del C-130J. Secondo l’inchiesta dell’aeronautica fu un «errore umano» a provocarlo. Viene però taciuta una informazione di non secondaria importanza. L’ha fornita il 24 novembre 2009 Flight International, una delle più autorevoli riviste internazionali di aeronautica: «Il Lockheed Martin C-130J dell’aeronautica italiana, precipitato il 23 novembre, è stato identificato come il primo esemplare ad essere stato modificato in aereo cisterna», qualificato per «il rifornimento in volo dell’elicottero AgustaWestland AW101 e dell’aereo da combattimento Eurofighter dell’aeronautica italiana». Il C-130J era stato modificato in cisterna volante con lo stesso kit di serbatoi usato sui C-130J dei marines Usa. I voli di prova e l’addestramento dell’equipaggio erano stati effettuati negli Stati Uniti. L’aereo così modificato, dotato di serbatoi con 32.540 litri di carburante (cui se ne può aggiungere un altro di 13.600 litri), in totale 46.140 litri, può rifornire in volo due caccia simultaneamente e, una volta a terra, può fornire carburante anche a veicoli da combattimento.

Tenuto conto che l’incidente, in cui è morto l’intero equipaggio, avrebbe potuto provocare una strage se l’aereo fosse caduto sull’abitato, pensiamo sia diritto dei cittadini pisani sapere se è vero quanto documenta Flight International. Secondo attendibili fonti militari, la 46a Brigata Aerea dispone di altri 7 aerei C-130J modificati in aerei cisterna KC-130J. Anche i C-130J da trasporto non sono esenti da incidenti: il 9 ottobre 2010, riporta Il Tirreno (10 ottobre 2010), un C-130J ha dovuto effettuare un atterraggio di emergenza a causa dell’avaria all’elica di uno dei quattro motori.

L’aeroporto è troppo vicino alla città, anzi è praticamente dentro. Dista 200 metri dalle prime case del popoloso quartiere di San Giusto, 1 km dalla stazione centrale e 2 km dal Ponte di mezzo.

Il rischio di incidenti crescerà anche in seguito alla concentrazione nell’Hub di Pisa dei voli militari effettuati con aerei noleggiati: tra questi grossi aerei russi, come gli Antonov e gli Iliuscin, sulla cui affidabilità si possono avere ragionevoli dubbi. Ancora più preoccupante è tale rischio se si tiene conto del fatto che – come afferma la relazione alla Commissione Difesa della Camera – nell’Hub saranno stoccati e smistati anche «carichi di merci pericolose», ossia esplosivi. Nell’audizione del 14 gennaio 2011, gli Ufficiali dell’Aeronautica hanno detto che tali carichi partiranno da una piazzola protetta da un terrapieno. Non hanno però detto che cosa avverrebbe se un grosso aereo, carico di «merci pericolose», precipitasse appena dopo il decollo.

Ribadendo la nostra contrarietà all’Hub militare comunque e ovunque si voglia realizzare, rileviamo che per Pisa tale progetto comporta danni ambientali e pericoli particolarmente gravi. E’ quindi doppiamente irresponsabile la decisione di realizzare l’Hub a ridosso della città.

Occorre considerare inoltre che, in uno scenario di guerra, la presenza dell’Hub militare nazionale renderebbe Pisa un obiettivo strategico di primaria importanza, accresciuta dalla presenza della limitrofa base Usa di Camp Darby e del porto di Livorno da cui transitano le armi statunitensi. A questo proposito bisogna ricordare che il terribile bombardamento del 31 agosto 1943 fu causato dal fatto che la città era un importante nodo ferroviario. La presenza dell’Hub comporterebbe di conseguenza l’installazione di missili anti-aerei e anti-missili e l’imposizione di una zona militare off limits attorno alla struttura. Le conseguenze di questa accresciuta servitù militare sarebbero pesantissime non solo per Pisa ma per l’intero territorio Pisa-Livorno.

Va infine considerato che l’Hub militare, anche se porterà probabilmente dei vantaggi ad alcuni settori economici, non li porterà alla cittadinanza nel suo complesso, che sarà invece danneggiata anche sul piano economico. Gli stessi Ufficiali dell’Aeronautica, nell’audizione del 14 gennaio, hanno smentito che l’Hub comporti «interessanti ricadute occupazionali» (come ipotizzato dal Sindaco). Nella migliore delle ipotesi, esso comporterà un leggerissimo aumento di personale, nell’ordine di poche decine. Dall’altro lato, la presenza dell’Hub contribuirà a stravolgere la vocazione culturale e turistica del territorio puntando sul militare.

Come ha sottolineato Gino Strada, fondatore di Emergency, nella conferenza alla Scuola Normale Superiore di Pisa, il 28 marzo 2011, «spendere più di 60 milioni di euro per militarizzare un territorio è un’idiozia: sarebbe stato molto più intelligente spendere gli stessi soldi in un territorio come questo ma per finanziare la scuola pubblica e la ricerca universitaria e scientifica».

Siamo di fronte a un nuovo tipo di militarizzazione del territorio, basato non solo sull’ampliamento delle strutture militari ma sulla loro integrazione con quelle civili. A Pisa essa si traduce in quella che viene esaltata come esemplare «convivenza della base militare e dello scalo civile». L’aeroporto, la cui gestione complessiva è militare, viene definito «un caso unico nel panorama degli scali italiani», perché vi si conducono attività sia militari che civili. Tale integrazione tra strutture militari e civili comporta un aumento delle servitù militari, soprattutto in situazioni di acute crisi internazionali.

A tutto questo si aggiungono i pericoli e i danni provocati dalla limitrofa base Usa di Camp Darby. Essa ha con tutta probabilità a che vedere anche con la tragedia del Moby Prince del 10 aprile 1991, in cui perirono 140 persone: quella notte nel porto di Livorno era in corso una operazione segreta di trasbordo di armi dirette probabilmente in Somalia.

Nell’agosto 2000 a Camp Darby si rasentò la catastrofe. Sull’episodio, già segnalato dalla organizzazione statunitense Global Security, emerge ora la prova definitiva. Essa viene fornita non da una organizzazione non-governativa, ma da una rivista ufficiale dell’aeronautica statunitense, Air Force Civil Engineer. Nell’edizione della primavera 2001, essa fornisce un dettagliato resoconto di quanto avvenuto a Camp Darby. A causa del cedimento dei soffitti di otto depositi di munizioni, si creò una situazione di emergenza: in dodici giorni, nell’agosto 2000, si dovettero rimuovere con robot telecomandati (data la pericolosità dell’operazione) oltre 100 mila munizioni. Senza che le autorità civili e la popolazione fossero informate. Quando invece, per rimuovere una vecchia bomba della seconda guerra mondiale trovata in qualche campo, si evacua la popolazione da tutta la zona circostante.

The Shell Agreement – il memorandum d’intesa tra i ministeri della difesa di Italia e Usa sull’uso di installazioni/infrastrutture da parte delle forze statunitensi in Italia, stipulato nel febbraio 1995 – stabilisce che all’interno delle basi «il comandante statunitense ha il pieno comando militare sul personale, gli equipaggiamenti e le operazioni statunitensi», ma che «il trasferimento di materiale pericoloso (carburante, esplosivi, armi) nello spazio territoriale italiano» deve avvenire in «conformità alla legislazione italiana» (art. 16). Poiché il comandante statunitense di Camp Darby sostiene che quello è «territorio italiano a tutti gli effetti» (v. conferenza stampa dell’1-12-2005), ciò significa che Camp Darby viola la legislazione italiana. Oppure che Camp Darby non è territorio italiano.

Occorre considerare, per di più, che Livorno è uno degli 11 porti nucleari italiani (Augusta, Brindisi, Cagliari, Castellammare di Stabia, Gaeta, La Maddalena, La Spezia, Livorno, Napoli, Taranto e Trieste), in cui possono attraccare unità navali di superficie e sottomarini a propulsione nucleare (per la maggior parte statunitensi, in quanto la marina italiana non ha unità a propulsione nucleare).

I piani di emergenza militari e civili, entrambi finora “classificati”, risalgono alla fine degli anni Settanta e non risultano aggiornati. Soprattutto la popolazione non ne è informata, per cui in caso di incidente sarebbe assolutamente impreparata. Manca inoltre qualsiasi copertura assicurativa per i cittadini nel caso di incidente.

Vi è poi la questione dell’impatto ambientale della base: si sa che, tra i siti di cui è prevista la bonifica in provincia di Pisa, circa la metà si trova all’interno di Camp Darby. Questa però probabilmente è solo la punta dell’iceberg: occorrerebbe quindi passare al setaccio la base per accertare quale sia il suo reale impatto ambientale.

 

CHE COSA INDICA CHE L’HUB MILITARE SARA’ USATO ANCHE DA CAMP DARBY

L’aeroporto militare di Pisa viene da tempo usato, insieme al porto di Livorno, dalla vicina base statunitense di Camp Darby, che rifornisce le forze terrestri e aeree nell’area mediterranea, africana e mediorientale. Non è dato sapere quanti e quali sono i voli per trasportare materiali e uomini della base, ma sicuramente sono molti e a Pisa se ne avverte l’aumento durante le operazioni Usa/Nato.

Camp Darby è la base logistica che rifornisce le forze terrestri e aeree Usa nell’area mediterranea, africana, mediorientale e oltre. E’ l’unico sito dell’esercito Usa in cui il materiale preposizionato (carrarmati, ecc.) è collocato insieme alle munizioni: nei suoi 125 bunker vi è l’intero equipaggiamento di due battaglioni corazzati e due di fanteria meccanizzata. Vi sono stoccate anche enormi quantità di bombe e missili per aerei, insieme ai «kit di montaggio» per costruire rapidamente aeroporti nelle zone di guerra. Questi e altri materiali bellici possono essere rapidamente inviati in zona di operazione attraverso il porto di Livorno e l’aeroporto di Pisa. Da qui sono partite le bombe usate nelle due guerre contro l’Iraq e in quella contro la Jugoslavia. Inoltre, come documenta Global Security, lo squadrone di munizionamento della base «è responsabile anche di due depositi classificati situati in Israele», una sorta di succursale di Camp Darby, le cui bombe sono state usate dalle forze israeliane nella guerra contro il Libano e nell’operazione «Piombo fuso» contro Gaza.

A Camp Darby – confermano cablogrammi dell’ambasciata Usa filtrati attraverso WikiLeaks – sono stoccate anche le cluster bombs (le bombe a grappolo che rilasciano ciascuna centinaia di submunizioni). Formalmente le autorità Usa hanno chiesto al governo italiano se questo è un problema, dato che l’Italia ha sottoscritto (ma non ratificato) il trattato per la messa al bando di queste armi. E il governo italiano ha assicurato che non interverrà su tale questione.

Poiché Camp Darby sta assumendo crescente importanza nel quadro del potenziamento delle basi Usa in Italia, il comando ha necessità di velocizzare i collegamenti con il porto di Livorno. Ciò viene confermato dal sindaco di Pisa Marco Filippeschi. In un incontro ai cantieri che fabbricano yacht di lusso ‒ situati lungo il Canale dei Navicelli, lo stesso che collega la base Usa di Camp Darby al porto di Livorno ‒ il sindaco ha annunciato di aver chiesto al comando Usa una compartecipazione ai lavori di sistemazione e ampliamento del canale, «anche in vista di importanti prospettive dello stesso Camp Darby». Il comando ha infatti «interesse ad allargare di qualche metro la darsena della base militare» in modo da «manovrare due chiatte in contemporanea, mentre adesso bisogna limitarsi a una per volta». E poiché i responsabili della base sono «interessati a sistemi di trasporto alternativi alla gomma», puntano, oltre che sulla via d’acqua, sulla ferrovia: chiederanno anche «una riorganizzazione dello snodo ferroviario esistente nella base». Tale «riorganizzazione» sarà sarà a carico delle Ferrovie e degli Enti locali, ossia dei contribuenti italiani.

Il Pentagono, conferma il sindaco, continua a ritenere di strategica importanza l’esistenza della base. Conclude quindi, soddisfatto, che «gli americani ritengono questo insediamento molto importante e vogliono continuare a investirci» e che, per tale progetto, c’è «disponibilità sia da parte del Parco che della Regione». Dimentica il sindaco che lo stesso Consiglio comunale di Pisa ha approvato, il 18 gennaio 2007, una mozione per «la dismissione e la riconversione a usi esclusivamente civili di Camp Darby» (come chiede da anni il comitato formatosi a tale scopo) e ha impegnato il sindaco a «escludere ogni possibile installazione di strutture militari, logistiche o di qualsiasi altra natura collegate alla base», così da «garantire un uso del territorio e delle infrastrutture vincolato ad un’economia civile e di pace». Esattamente il contrario di ciò che sta avvenendo.

Camp Darby intende quindi irradiarsi nel territorio e, a tal fine, cerca di rendersi sempre più gradita alle amministrazioni e agli abitanti, ospitando gli allenamenti del Pisa e organizzando feste. Il comando può essere soddisfatto: ora ha il pieno appoggio del sindaco che, mentre contribuisce alle «importanti prospettive» delle base da cui partono le armi per le guerre, promuove iniziative sul tema «Pisa città per la pace e i diritti umani».

Nell’audizione del 14 gennaio 2011 alla 1a Commissione Permanente del Consiglio Comunale di Pisa, gli Ufficiali dell’Aeronautica hanno sostenuto che la base statunitense di Camp Darby non è stata ufficialmente informata del progetto dell’Hub, di cui essa è venuta a conoscenza solo attraverso la stampa. In tal modo hanno voluto dire che le Forze armate statunitensi non hanno niente a che vedere con il progetto dell’Hub militare. Nella relazione dell’on. Roberto Speciale alla Commissione Difesa della Camera si afferma però che «la struttura, una volta realizzata, potrà essere messa a disposizione della Nato per supportare i flussi di materiale e personale in caso di crisi internazionali». Il fatto stesso che l’Hub sarà in grado di movimentare fino a 36mila militari al mese, oltre il triplo di quanti l’Italia ha dislocati all’estero, e fino a 12mila tonnellate di materiali al mese, indica che la struttura è stata progettata per essere usata anche dalle forze Nato, soprattutto quella della limitrofa base statunitense.

Lo conferma ulteriormente il fatto che, nella documentazione presentata alla Camera, si precisa che all’Hub di Pisa potranno atterrare e decollare anche i giganteschi C-17 Globemaster III, in dotazione all’aeronautica Usa, la cui capacità di carico è oltre il triplo di quella dei C-130J dell’aeronautica italiana.

Lo conferma il fatto che a Camp Darby, è stato recentemente costruito un nuovo gigantesco complesso di depositi ed edifici, tra cui una stazione elettrica e una meccanica, per una superficie di oltre 40mila metri quadri (come 7 campi di calcio internazionali), costato 40 milioni di euro. Sono stati rimossi 220mila metri cubi di terra, usate 5565 tonnellate di acciaio, 35mila metri cubi di cemento, 10 km di condutture elettriche e 16 km di tubazioni (U.S. Army, “3/405th AFSB getting new headquarters, maintenance facility, warehouses”, July 06, 2007). Ciò ha accresciuto la capienza di materiali militari. Con l’entrata in funzione dell’Hub, Camp Darby potrà usare, oltre al porto di Livorno, anche l’aeroporto di Pisa in misura molto maggiore di quanto faccia oggi.

Dall’Hub militare di Pisa, quindi, transiteranno soldati e materiali militari non solo delle forze armate italiane, ma anche delle forze statunitensi presenti in Italia o che transitano dall’Italia. Ciò viene confermato indirettamente da quanto hanno sottolineato nell’audizione del 14 gennaio 2011 gli Ufficiali dell’Aeronautica italiana: l’aeroporto militare di Pisa, che prima aveva un ruolo tattico circoscritto al territorio nazionale, ha assunto un ruolo strategico, proiettato nei teatri operativi fuori dal territorio nazionale.

Che cosa significhi lo si è visto quando, subito dopo, sono iniziati i preparativi per la guerra in Libia. La base Usa di Camp Darby è stata attivata per l’invio di «aiuti umanitari della Usaid», ufficialmente destinati ai profughi al confine tra Tunisia e Libia. I materiali sono stati trasportati all’aeroporto militare di Pisa, dove sono stati caricati su C-130J giunti dalla base di Ramstein in Germania. Addetto a tali operazioni è il 3° Battaglione della 405a Brigata. La nostra collocazione, dice il comandante, ci offre «capacità logistiche uniche poiché il nostro deposito è a 30 minuti dall’aeroporto di Pisa», lo stesso dove sorgerà l’Hub militare nazionale che sarà messo a disposizione anche di Camp Darby. Particolare non trascurabile è che da Camp Darby partono sia «donazioni» della Usaid, sia armi.

Il risultato si è visto quando, il 19 marzo 2011, è iniziato l’attacco aeronavale alla Libia. I voli militari di C-130J Hercules II, C-27J Spartan e altri aerei cargo si sono fortemente intensificati, con continui decolli e atterraggi in tutto l’arco della giornata. Sicuramente parte di questi aerei è addetto al trasporto di missili, bombe e altre armi dalla base di Camp Darby alle basi meridionali da cui partono gli attacchi alla Libia. Ciò dà un’idea di che cosa avverrebbe al momento in cui fosse in funzione l’Hub militare. Da esso transiterebbero tutti gli altri voli militari, attualmente effettuati da altri aeroporti.

Quali sarebbero le conseguenze lo dimostra ciò che avvenuto all’aeroporto di Trapani Birgi nel marzo 2011: esso è stato chiuso al traffico aereo civile per destinarlo unicamente al traffico aereo militare in funzione dell’operazione bellica in Libia. La chiusura dell’aeroporto di Pisa al traffico civile comporterebbe danni economici e sociali ancora più gravi di quelli veriuficatisi a Trapani. A ciò si aggiungerebbe un forte aumento dei rischi per la città e l’intero territorio, dovuto all’intensificazione dei sorvoli di zone abitate da parte di aerei militari carichi di materiali esplosivi, tra cui bombe e missili con testate a uranio impoverito.

QUALE FUNZIONE SVOLGERA’ L’HUB MILITARE NEL QUADRO DELLE BASI USA/NATO IN ITALIA

Il nuovo concetto strategico, ulteriormente sviluppato dal summit Nato di Lisbona (novembre 2010), stabilisce che occorre investire meno nelle forze militari statiche, dislocate all’interno dei 28 paesi membri dell’Alleanza, e di più nelle forze militari mobili, in grado di essere proiettate rapidamente fuori del territorio della Nato. In tale strategia, tutte le basi Nato in Italia, a partire dal quartier generale della Forza congiunta alleata a Napoli, sono in fase di potenziamento. Tutte queste basi sono sotto comando statunitense. Il Comandante supremo alleato in Europa non può infatti essere un militare europeo. Deve, per regolamento, essere un generale o ammiraglio nominato dal presidente e confermato dal senato degli Stati uniti. Solo dopo, formalmente, il Consiglio atlantico viene chiamato ad approvare la scelta. Lo stesso criterio vale per gli altri comandi chiave dell’Alleanza. Ad esempio, a capo della Forza congiunta alleata a Napoli c’è un ammiraglio statunitense che è, allo stesso tempo, comandante delle Forze navali Usa in Europa e delle Forze navali Usa per l’Africa. Viene allo stesso tempo potenziata l’intera rete delle basi Usa in Italia.

Che l’Italia sia «una piattaforma strategica unica per le truppe statunitensi» lo sapevamo già prima che ce lo dicessero i cablogrammi dell’ambasciata Usa a Roma filtrati attraverso WikiLeaks. Lo confermano i dati ufficiali dell’ultimo inventario delle basi militari (Base Structure Report 2010), pubblicato dal dipartimento Usa della difesa: in Italia il Pentagono possiede 1.408 edifici e ne ha in affitto o concessione altri 881, per una superficie complessiva di oltre un milione e mezzo di metri quadri. Essi sono distribuiti in 41 siti principali, cui se ne aggiungono altri minori portando il totale a circa 70.

I siti delle forze armate Usa in Italia, pur essendo meno di quelli in Germania, stanno acquistando crescente importanza nel «riallineamento» strategico effettuato dal Pentagono, che da tempo sta ridislocando le proprie forze dall’Europa centrale e settentrionale a quella meridionale e orientale, per proiettarle più efficacemente in Medio Oriente, Europa orientale e Africa. Ciò viene confermato dai cablogrammi dell’ambasciata Usa: la dislocazione in Italia permette alle forze statunitensi di «raggiungere facilmente le aree turbolente del Medio Oriente, dell’Europa orientale e dell’Africa». Grazie a ciò, l’Italia è «divenuta la base del più importante dispositivo militare schierato fuori dagli States. E con AfriCom (Comando Africa) sarà partner ancora più significativo della nostra proiezione di forza».

Solo per fare qualche esempio, la 173a brigata, di stanza a Vicenza è stata trasformata in squadra di combattimento formata da più battaglioni, potenziando il suo ruolo di unica «forza di risposta rapida» aviotrasportata del Comando europeo degli Stati uniti. Da qui la decisione, approvata dal governo Prodi, di creare un’altra base Usa a Vicenza, nell’area dell’aeroporto Dal Molin. Sempre a Vicenza è stato installato lo U.S. Army Africa (Esercito Usa per l’Africa), trasformando la Forza tattica nel Sud Europa in componente terrestre del Comando Africa. E’ stata allo stesso tempo potenziata Aviano, una delle principali basi delle Forze aeree Usa in Europa. Ad Aviano è dislocato il 31st Fighter Wing, l’unico stormo di cacciabombardieri Usa a sud delle Alpi, composto di due squadriglie di F-16. Esso dispone anche di bombe nucleari, depositate ad Aviano e Ghedi Torre. Dal rapporto U.S. non-strategic nuclear weapons in Europe: a fundamental Nato debatedell’Assemblea parlamentare della Nato, emerge la possibilità che tutte le armi nucleari Usa in Europa vengano in futuro concentrate ad Aviano

Stessa situazione a Napoli, dove ha sede il comando delle forze navali Usa in Europa, comprendenti la Sesta Flotta, cui si è aggiunto quello delle forze navali AfriCom. Le autorità Usa hanno chiesto che la nuova caserma per il personale della Sesta Flotta, costruita a Gricignano d’Aversa (Caserta), goda dell’extraterritorialità. Ciò è contrario alla Costituzione italiana. Il ministro italiano della difesa ha proposto però di aggirare l’ostacolo, stipulando un patto bilaterale che garantisca completa autonomia ai militari Usa in fatto di sicurezza e vigilanza.

Con il consenso sia del governo Prodi che di quello Berlusconi, il Pentagono ha potenziato negli ultimi anni anche la base aeronavale di Sigonella, dove si trova uno dei due centri di rifornimento della U.S. Navy fuori dal territorio statunitense, dalla quale opera una forza speciale Usa per missioni segrete in Africa e partono i voli segreti dei Global Hawks. Nella stessa base vi è una delle tre stazioni terrestri della rete di telecomunicazioni satellitari GBS della U.S. Air Force. Nella vicina Niscemi, dove già sono in funzione 41 antenne del centro trasmissioni di Sigonella, saranno installate tre grandi parabole satellitari del Muos (Mobile User Objective System), il sistema di telecomunicazioni satellitari di nuova generazione della U.S. Navy.

In tale quadro si colloca la decisione di costruire all’aeroporto di Pisa l’Hub aereo nazionale delle forze armate: è evidente che essa è stata presa su pressione del Pentagono, che ha bisogno di potenziare l’invio di materiali bellici da Camp Darby ed altre basi ai vari teatri operativi, ipotesi confermata dalla relazione alla Commissione Difesa della Camera in cui si afferma che «la struttura, una volta realizzata, potrà essere messa a disposizione della Nato in caso di crisi internazionali».

COME L’HUB CONTRIBUIRA’ ALL’AUMENTO DELLA SPESA MILITARE

Secondo le comunicazioni ufficiali, la costruzione dell’Hub militare verrà a costare circa 63 milioni di euro. In realtà, però, questa è solo la punta dell’iceberg. A tale cifra si aggiungono le spese per adeguare l’aeroporto alle esigenze della nuova struttura e per collegarlo adeguatamente alle vie di comunicazione. E per le spese operative, una volta che la struttura entrerà in funzione, occorreranno altre ingenti risorse.

Il progetto dell’Hub è parte integrante della nuova politica militare Usa/Nato, che anche l’Italia ha da tempo adottato. Nella Nota aggiuntiva allo stato di previsione per la Difesa per l’anno 2011 (ottobre 2010), il Ministero della Difesa ribadisce «la necessità per l’Italia di mantenere uno strumento militare che  sia in grado di assolvere il compito  prioritario di  difesa dello Stato, attraverso la salvaguardia dei propri interessi vitali, comportando ineluttabilmente la  partecipazione ad operazioni multinazionali, di presenza, sorveglianza e di proiezione anche a grande distanza dal territorio nazionale», soprattuttto in «alcune aree di particolare importanza per la Nazione, sia per vicinanza geografica che per interessi specifici», in primo luogo «l’area del Mediterraneo allargato, comprendente i Balcani, l’Est Europeo, il Caucaso, il Nord Africa, il Corno d’Africa, il Vicino e Medio Oriente e il Golfo Persico». Compito delle Forze Armate, dunque, non è più solo la difesa della Patria, come sancisce la Costituzione, ma «la salvaguardia degli interessi vitali» nel «Mediterraneo allargato» che si estende fino al Golfo Persico. Nel quadro di tale strategia l’Hub militare svolgerà un ruolo di primaria importanza, contribuendo ad accrescere la proiezione di forze militari a grande distanza dal territorio nazionale.

E ogni guerra fa crescere il business delle armi. Lo conferma il fatto che all’operazione militare contro la Libia hanno preso parte cacciabombardieri Mirage 2000-5 del Qatar e degli Emirati arabi uniti: due degli stati del Golfo governati da monarchie ereditarie, che non solo concentrano nelle proprie mani tutti i poteri e negano ai loro popoli i più elementari diritti umani, ma, in dispregio del diritto internazionale, hanno inviato insieme all’Arabia Saudita truppe in Bahrain a schiacciare nel sangue la richiesta popolare di democrazia. Principale sponsor della loro partecipazione alla guerra di Libia è stata la Francia, che ha venduto alle due monarchie del Golfo i Mirage, prodotti dalla Dassault (gruppo privato che opera in oltre 70 paesi), e ha addestrato i piloti. Dimostrando l’efficienza dei Mirage in un’azione bellica reale, la Dassault ne promuove la vendita: è in corso una trattativa per fornirne 18 all’Iraq al prezzo di 1 miliardo di dollari. Allo stesso tempo, dimostrando la superiorità dei suoi aerei, la Dassault lancia il suo nuovo cacciabombardiere, il Rafale. Non a caso è stato un Rafale il primo a sparare in Libia, il 19 marzo 2011. Il governo francese ha investito finora (con denaro pubblico) l’equivalente di 55 miliardi di dollari per acquistarne oltre 300. Finora però nessun altro paese ha acquistato il Rafale.

Il Qatar, che vuole 36 nuovi caccia, non ha ancora scelto: al Rafale della Dassault si contrappongono l’Eurofighter Typhoon del consorzio europeo, l’F-15 della statunitense Boeing e il futuro F-35 della statunitense Lockheed Martin (al cui sviluppo contribuisce anche l’Italia). Stessa situazione negli Emirati arabi uniti, ai quali la Francia cerca di vendere 60 Rafale del costo di 10 miliardi di dollari. L’affare non è stato però ancora concluso perché, come nell’Oman, c’è in competizione l’F-16 della Lockheed. In Arabia Saudita il Rafale ha già perso il duello aereo: lo ha vinto la Boeing che fornirà a Riyadh 85 F-15 e ne potenzierà altri 70 nel quadro di un «pacco» (comprendente anche 100 elicotteri da attacco) del costo di 67 miliardi di dollari.

Al business delle armi partecipa attivamente anche l’Italia. Il valore delle esportazioni italiane di armamenti è passato da 1,8 miliardi di euro nel 2008 a 2,2 nel 2009 e a circa 2,8 nel 2010. E’ cioè aumentato di oltre il 50% in due anni. Il campionario dei nostri mercanti di cannoni è vastissimo: aerei e navi da guerra, veicoli corazzati, missili, bombe, siluri, proiettili, agenti tossici e molti altri.

Tutto ciò comporta una continua crescita della spesa militare mondiale. Secondo i dati pubblicati dal Sipri nell’aprile 2011, essa è aumentata del 50% nel periodo 2001-2010, salendo a 1.630 miliardi di dollari, un livello (calcolando il tasso di inflazione) analogo a quello della guerra fredda. La spesa militare italiana ammonta, nel 2010, a 37 miliardi di dollari, corrispondenti ad oltre 25 miliardi di euro: l’equivalente di una grossa Finanziaria annua, pagata col denaro pubblico. Mentre si tagliano i fondi pubblici per i servizi sociali, sanità compresa, per la scuola, l’università, la ricerca e la cultura. Su scala mondiale, la spesa militare italiana si colloca al decimo posto. In tal modo l’Italia contribuisce all’enorme spesa militare della Nato. Questa, trainata dalla spesa militare degli Stati uniti equivalente a circa la metà di quella mondiale, è salita a circa i due terzi della spesa militare mondiale.

Ogni minuto si spendono nel mondo oltre 3 milioni di dollari in armi, eserciti e guerre; ogni giorno, oltre 4 miliardi di dollari. Questo mentre scarseggiano le risorse economiche per combattere la povertà, la fame, le malattie e l’analfabetismo. Basterebbe risparmiare, ad esempio, quanto si spende in tre giorni a scopo militare (circa 13 miliardi di dollari) per ricavare la cifra annua necessaria a dimezzare il numero di adulti analfabeti, che oggi è di circa un miliardo, e permettere che tutti i bambini possano andare a scuola. Basterebbe risparmiare quanto si spende in dieci giorni a scopo militare (circa 44 miliardi di dollari) per ricavare la cifra annua necessaria ad affrontare la crisi alimentare mondiale, che ha portato a oltre un miliardo le persone affamate.

 

COME SI CERCA DI CREARE UN CONSENSO ATTORNO ALL’HUB MILITARE

Riferendosi al progetto dell’Hub militare, il Sindaco si è detto orgoglioso della presenza delle istituzioni militari a Pisa e del fatto che partono da qui le missioni di pace e solidarietà. In sintonia con questa visione, Pisa sta divenendo un importante laboratorio per collaudare tecniche di coinvolgimento della popolazione nell’accettazione di una militarizzazione del territorio sempre più massiccia.

Già a livello regionale la stessa presenza della base USA di Camp Darby è stata accettata dal precedente presidente della Regione Toscana, Martini, se inquadrata nell’ambito delle cosiddette operazioni di peacekeeping. Il ruolo pacificatore delle forze armate in missioni di solidarietà e «umanitarie» è peraltro contraddetto dalle cifre dei morti civili in Afghanistan: il Rapporto annuale per la protezione dei civili nel conflitto della Missione delle Nazioni Unite in Afghanistan (Unama) e della Commissione indipendente afghana per i diritti umani indicano dimostra che la presenza militare straniera, tra cui quella italiana, non ha permesso una pacificazione nella regione, ma ha al contrario provocato vittime civili in numero ingente.

Le «missioni umanitarie» celano vere e proprie missioni militari e operazioni belliche di occupazione di territori importanti per motivi strategici o perché ricchi di fonti energetiche come petrolio, uranio, gas.

L’ipocrisia insita nell’utilizzo di parole come «pace» o «solidarietà» per nobilitare operazioni e missioni di guerra all’estero è penetrata nel senso comune in profondità, accompagnata da campagne di propaganda più o meno mascherata che vanno dall’offerta di utilizzo dei campi sportivi dentro la base di Camp Darby messi a disposizione della squadra di calcio del Pisa, fino alla attiva partecipazione delle istituzioni locali, comunali e provinciali, ad iniziative in cui le forze armate, in maniera sempre più acritica, vengono presentate come protagoniste di attività di difesa dei valori di libertà e di democrazia. L’articolo 11 della Costituzione, che stigmatizza il ricorso alla guerra addirittura con il ripudio, viene aggirato inequivocabilmente in nome di una solidarietà portata con l’intervento militare.

Una ulteriore prova di questa propaganda che le forze politiche della Giunta comunale pisana promuovono è il patrocinio alla cosiddetta «Giornata della solidarietà» del 27 aprile, promossa dall’Associazione Onlus «Nicola Ciardelli» per pubblicizzare e raccogliere fondi per la costruzione di una «Casa del bambino» il cui scopo, come si legge sul sito dell’associazione, è quello di «accogliere i piccoli ospiti giunti da paesi esteri e bisognosi di cure mediche urgenti insieme ai loro accompagnatori». L’iniziativa «sarà un modo concreto per continuare l’impegno dei militari italiani coinvolti nelle missioni di pace».

La «Giornata della solidarietà» si rivolge ai bambini dai tre ai tredici anni, in età scolare, e consiste in una serie di attività laboratoriali svolte però all’interno della caserma Gamerra, che ospita il reparto operativo dei paracadutisti della Folgore. L’iniziativa è stata inserita in un pacchetto rivolto alle scuole, per promuovere l’immagine di “Pisa città della pace”. Che cosa sia lo spiega la stessa amministrazione comunale: bambine e bambini delle scuole dell’infanzia, primarie e medie vengono condotti dagli insegnanti nella caserma della Brigata Folgore, dopo essere stati «coinvolti in un progetto della durata di due mesi, durante i quali è possibile far conoscere le molte problematiche connesse alle missioni umanitarie e di pace nelle aree di guerra». Si tratta di una «grande lezione per tutti i bambini: quella sui valori e sui diritti umani», che culmina alla caserma della Folgore, in una «una giornata gioiosa dedicata ai bambini e alla condizione dei bambini nelle aree di guerra».

La «cultura della pace» che ci viene proposta dalla Giunta del Comune di Pisa rappresenta una distorsione profonda dei termini e delle espressioni, confonde concetti e valori, mascherando con parole e definizioni pacifiste una deriva militarista che si va imponendo nel nostro Paese da anni, e che rovescia il senso comune delle cose. Le guerre in paesi stranieri diventano così «operazioni di peacekeeping», cioè di «mantenimento della pace», le occupazioni militari diventano «missioni di pace e di solidarietà», i soldati italiani vengono presentati come l’unica soluzione per quelle popolazioni martoriate dalle guerre che proprio noi occidentali, per i nostri interessi economici e strategici, abbiamo portato nei loro paesi. Per portare solidarietà e assistenza sanitaria occorrerebbe sostenere gli interventi civili (come quelli di Emergency e di altre associazioni) invece di destinare crescenti risorse economiche alle missioni militari e agli armamenti.

Che le scuole e i bambini siano coinvolti in queste operazioni di propaganda è preoccupante, perché ciò rappresenta un salto di qualità nel tentativo di coinvolgimento e di assuefazione della cittadinanza ad una presenza militare sempre più invasiva in città. Ancor più preoccupante è il fatto che, partendo da «laboratori» come quello di Pisa, il Parlamento stia varando una legge «per la promozione e la diffusione della cultura della difesa». La frase d’obbligo aggiunta al titolo – «attraverso la pace e la solidarietà» – non cambia la sostanza: tutte le guerre ormai sono di «peacekeeping» e «umanitarie». Finalità della legge è «rendere consapevoli i cittadini delle politiche di sicurezza e di difesa della nazione e dell’azione delle Forze armate» e far sì che «le amministrazioni pubbliche promuovano iniziative sui temi oggetto della cultura della difesa», soprattutto nelle scuole nell’ambito della «Giornata del ricordo dei caduti militari e civili nelle missioni internazionali per la pace» (12 novembre). A tal fine si istituisce, presso il Ministero della difesa, il «Comitato per la cultura della difesa».

Il progetto di legge – che, dopo essere stato approvato dalla Camera, è in esame alla commissione difesa del Senato – è frutto di una larga intesa multipartisan (Pd, Idv, Pdl, Lega). Come ha sottolineato l’on. Federica Mogherini Rebesani il 7 marzo alla Camera, essa offre «l’opportunità di colmare una apparente, grave e fittizia contrapposizione tra la cultura della difesa e la cultura della pace e della solidarietà, di superare un luogo comune che vuole contrapporre il mondo e l’azione militare oggi a quello che per semplificazione chiamiamo pacifismo».

PERCHE’ DIRE NO ALL’HUB MILITARE SIGNIFICA DIRE NO ALLA GUERRA

Quando abbiamo deciso di organizzare questo convegno sul tema dell’Hub militare, nessuna guerra era in vista. Eppure, in brevissimo tempo, la situazione è precipitata. Siamo alla quinta grande guerra di quella che, finita la guerra fredda, avrebbe dovuto essere l’era della distensione. Un’unica guerra che dura da vent’anni: dalla prima guerra del Golfo nel 1991, a quelle contro la Jugoslavia nel 1999, l’Afghanistan nel 2001, l’Iraq nel 2003, la Libia nel 2011. Tutte queste guerre hanno motivazioni e caratteristiche analoghe.

Vent’anni fa, approfittando della disgregazione dell’Urss e del suo blocco di alleanze, gli Stati uniti e le maggiori potenze europee della Nato spostavano il centro focale della loro strategia nel Golfo, attaccando nel 1991 l’Iraq, uno dei principali produttori petroliferi con riserve stimate tra le maggiori del mondo. Oggi nel mirino c’è la Libia, le cui riserve petrolifere sono le maggiori dell’Africa, il doppio di quelle statunitensi.

Vent’anni fa il nemico numero uno era Saddam Hussein, già alleato degli Usa nella guerra contro l’Iran (altro grosso produttore petrolifero) quando al potere c’era Khomeini, allora al primo posto nella lista dei nemici: quel Saddam Hussein caduto poi nella trappola, quando l’ambasciatrice Usa a Baghdad gli aveva fatto credere che Washington sarebbe rimasta neutrale nel conflitto Iraq-Kuwait. Oggi il nemico numero uno è il capo della Libia Muammar Gheddafi, con il quale la segretaria di stato Hillary Clinton dichiarava poco tempo fa di voler «approfondire e allargare la cooperazione».

Vent’anni fa, al momento in cui il Consiglio di sicurezza autorizzava la guerra contro l’Iraq, gli Stati uniti e i loro alleati avevano già schierata nel Golfo una imponente forza aeronavale (1.700 aerei e 114 navi da guerra), che sarebbe stata comunque usata anche senza il nullaosta dell’Onu. Lo stesso oggi: prima dell’autorizzazione del Consiglio di sicurezza a prendere «tutte le misure necessarie» contro la Libia, era già pronta una potente forza aeronavale Usa-Nato ed erano state attivate per l’attacco le basi in Italia. Il metodo è lo stesso: gettare prima la spada sul piatto della bilancia politica e usare quindi tutti i mezzi (compresi scambi di «favori») per impedire che un membro permanente del Consiglio di sicurezza usi il «diritto di veto»: nel 1990 l’Urss di Gorbaciov votò a favore e la Cina si astenne; oggi la Russia si è astenuta insieme alla Cina, ma il risultato è lo stesso.

Oggi, come nel 1990, l’intervento armato viene motivato con la «difesa dei diritti umani» e la «protezione dei civili». E si lodano nella risoluzione i governi arabi che partecipano a questo nobile sforzo: come la monarchia assoluta del Bahrain, che ha chiamato le truppe saudite per reprimere nel sangue la lotta del suo popolo per i più elementari diritti umani, e il regime yemenita che sta facendo strage dei civili che manifestano per la democrazia.

E in tutte queste guerre l’Italia ha continuato a svolgere il suo ruolo di gregario agli ordini di Washington. Tutte le basi e le forze italiane sono state attivate per l’operazione aeronavale, diretta nella prima fase dagli Usa e, nella seconda, dalla Nato attraverso i quartieri generali situati a Napoli. Il passaggio di comando è formale: tutti e tre i comandi – quelli delle Forze navali Usa in Europa, delle Forze navali dell’AfriCom e della Forza congiunta alleata – sono nelle mani dello stesso ammiraglio statunitense, ossia del Pentagono.

E mentre stiamo tenendo questo convegno, si stanno preparando a sbarcare in Libia i gruppi di battaglia della Ue, ufficialmente per «fornire aiuto umanitario ai civili libici», «sostenere le agenzie umanitarie nelle loro attività» e «preparare il terreno a più grandi forze di peacekeeping». Siamo quindi di fronte a un’altra guerra, i cui obiettivi economici e strategici sono dissimulati dietro la cortina fumogena della «guerra umanitaria».

Una guerra in cui, con la motivazione di voler «proteggere i civili e le aree popolate dai civili», si usano ancora una volta armi a uranio impoverito che provocano disastrosi effetti per la salute e l’ambiente. L’uso dell’uranio impoverito a scopo militare offre molteplici vantaggi: da un lato, evita la spesa per trattarlo e conservarlo come rifiuto radioattivo dopo che l’uranio è stato usato nei reattori nucleari; dall’altro, permette di costruire testate e proiettili con un materiale a basso costo (pochi dollari al kg). Per di più, esso è molto efficace per costruire testate e proiettili penetranti, che forano cemento armato e corazze e, esplodendo all’interno, sviluppano temperature di migliaia di gradi. Ma è proprio questo a generare il pulviscolo radioattivo che provoca tumori e anche malformazioni nelle generazioni successive.

Una guerra che ne prepara altre ancora più distruttive. Lo dimostra il fatto che contro la Libia sono stati usati anche i bombardieri strategici Usa B-2 Spirit, gli aerei più cari del mondo (2,1 miliardi di dollari ciascuno). Questi bombardieri stealth, invisibili ai radar, possono sganciare 16 bombe Jdam da una tonnellata che, planando, colpiscono obiettivi distanti 50 km. Ma il B-2 Spirit può trasportare anche 16 bombe nucleari B-61 o 16 missili nucleari Agm-129. Il fatto che questi bombardieri strategici siano usati in una azione bellica reale, permette di migliorarne l’efficienza anche per un eventuale impiego in una guerra nucleare. Lo stesso avviene con il sottomarino Uss Florida della classe Ohio, usato per attaccare la Libia: dotato di 24 tubi di lancio per missili nucleari Trident, è ora armato di 154 missili Tomahawk non-nucleari (ma con testata a uranio impoverito).

Nella guerra contro la Libia ci si addestra, quindi, anche all’attacco nucleare. Che tale possibilità sia presa in considerazione è confermato indirettamente dal primo ministro israeliano: in una intervista alla Cnn ha detto che, se l’Iran non rinuncia al programma nucleare, ci vuole una «credibile azione militare per distruggere i suoi impianti nucleari». L’Iran, pur non possedendo armi nucleari, possedute invece da Israele, ha un potenziale militare ben maggiore della Libia: per attuare una «credibile azione militare» occorre puntare contro l’Iran armi nucleari ed essere pronti a usarle.

Di guerra in guerra si sta quindi di nuovo materializzando lo spettro della guerra nucleare.

 

CHE COSA DOVREBBE FARE PISA PER ESSERE «CITTA’ PER LA PACE»

Alla luce di questi fatti, il Coordinamento No Hub ha avanzato al Consiglio comunale di Pisa le seguenti richieste:

  1. il Consiglio Comunale dovrebbe riconsiderare la realizzazione dell’Hub militare a Pisa, chiedendo al Comipar toscano almeno di bloccare il progetto per verificarne le implicazioni complessive;
  2. dovrebbe riconoscere che quelle effettuate dall’aeroporto militare di Pisa, e ancor più quelle che saranno effettuate dall’Hub militare, non sono «missioni di pace e solidarietà» ma, quasi esclusivamente, missioni di guerra;
  3. dovrebbe, in ultima analisi, applicare l’Art. 11 della Costituzione secondo cui «l’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali».

 

 

NO ALL’HUB MILITARE – NO ALLA GUERRAultima modifica: 2011-04-19T02:20:00+02:00da iskra2010
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