Da Marx a Keynes alla Fiom e chi non attacca i PIANI d’impresa

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di Angelo Ruggeri

IIl LORD inglese KEYNES e LA SINISTRA placata e trapassata per aver cassato la critica marxiana al keynesismo capitalista, sostituendo Marx con Keynes. Dal “cambio” di teoria origina il rovesciamento – da vincente a perdente – della strategia, da parte anche della Fiom, oltre che di Cgil e “Sinistra”.

Il ripudio della cultura e della teoria che sostenne il piu grande e vincente tornante di lotta di classe d’Italia negli anni ‘60-’70, è stato persino teorizzato (dal segretario Fiom Gianni Rinaldini, tra gli altri), finendo come Cofferatie persino la Fiom – che per ciò passa di sconfitta in sconfitta –  con l’assumere la fallimentare difesa e dei “diritti” individuali e della “persona” e dello “stato sociale” socialdemocratico e keynesiano, scelta dimostratasi catastrofica sopratutto sul piano sociale
In concreto il fallimento e le ripetute sconfitte anche della Fiom,  derivano dall’ ABBANDONO della strategia delle riforme sociali che ha reso vincenti le lotte degli anni ‘70 che respingevano i “Piani delle imprese” (come hanno fatto in queste settimane i “cementieri” che  così hanno vinto e fatto ritirare il Piano d’Impresa): per dei “Piani” dei lavoratori che così affermavano non un semplice “diritto” ma un potere sociale (dal quale sono scaturiti tutti i diritti che allora si ottenevano ed ora si perdono) per  il controllo sociale dell’economia prefigurata dalla Costituzione. 
E’ per tale strategia (e non già per lo “stato sociale” che per altro è una mistificazione in termini) che, nella convergenza politico-culturale tra cattolici-sociali e comunisti (e tra Dossetti e Togliatti), i Costituenti hanno costituzionalizzato il diritto di sciopero:  onde garantirlo non come un semplice “diritto” come POTERE DELL’AUTONOMIA SOCIALE DEI LAVORATORI.
Lo sciopero è un “mezzo” per esprimere un potere sociale in funzione di un “fine”. Quindi bisogna vedere quel è il “fine” per cui lo sciopero è il mezzo. Se usi tale mezzo della democrazia sociale per un “fine” tradizionalmente liberale e borghese, allora è paradossalmente “normale” che ti schiacciano qualche callo sui diritti e sullo sciopero, proprio come era “normale” fin dagli albori del liberalismo che in nome dei diritti individuali la società borghese liberale negava alla classe operaia i piu elementari diritti civili e politici, PERCHE’ IN MATERIA ECONOMICA SOCIALE I DIRITTI CIVILI LIBERALI DELLA PERSONA GARANTIVANO E GARANTISCONO IN PRIMO LUOGO I DIRITTI DI PROPRIETA’ E QUINDI DELL’IMPRESA CHE IN TAL MODO SI CONFIGURANO ANCOR PIU COME POTERE.
La Fiom – da Rinaldini a Landini  – in nome dei “diritti” liberali, ha ignorato i rapporti interni alla fabbrica capitalistica tra operai e padrone, riducendo così  il lavoro sociale e i lavoratori a delle semplici “persone” mentre i LAVORATORI sono soggetti “speciali” interni alla “specificità” dell’organizzazione del lavoro nella fabbrica capitalista. 
Quindi di che può lamentarsi la Fiom se non di una propria impotenza e subalternità? In fondo la Fiom non ha fatto altro che continuare a lamentarsi di qualche callo schiacciato sui diritti, senza mai respingere il Piano d’Impresa nel suo complesso.
Vale a dire che se se si assumono i diritti individuali e si abbandona la strategia per la quale lo sciopero è stato per la prima e unica volta al mondo, inserito nella Costituzione, conta poco o molto meno se quel che già fai in pratica,  venga “sancito” col Patto tra la Triplice e il padronato: in entrambi i casi si nega lo sciopero come strumento dell’autonomia sociale dei lavoratori di cui nemmeno la Fiom si è preoccupata visto che anche la Fiom invece di respingere i Piani d’Impresa della Fiat di Marchionne ha solo lamentato la limitazione di qualche diritto. Mentre Marchionne “segava” il potere e l’autonomia sociale dei lavoratori che la FIOM non considera come una comunità di classe ma come insieme di “persone” (sic) da tutelare con i diritti e il Codice civile (sic!!!) come se l’operaio fosse una qualunque persona esterna ai rapporti di produzione capitalistici e alla fabbrica ma vive dentro “normali” rapporti della società civile.
Sono le conseguenze drammatiche dell’abbandono da parte sia della CGIL e anche della Fiom oltre che dei PD e della “Sinistra” dell’analisi di classe e della teoria marxista. Con lo snaturamento e  le molteplici implicazioni che tale rovesciamento teorico ha palesato e palesa sulla prassi politica, sociale e sindacale anche di una Fiom dove lo stesso Cremaschi pronuncia parole più nette, sembrando più duro del suo amico Rinaldini, ma non andando al cuore del problema che ha portato la Fiom ad un susseguirsi di sconfitte.
Essere più “duri” non significa di per se, essere più “avanzati” nell’attacco: perché il problema riguarda “quale è la qualità dell’attacco”. E la qualità è mancata per aver rivendicato “diritti” della persona, sapendo (o non sapendo?) che non esiste nessun diritto scisso da un potere. Per cui anche i diritti sono rimasti una verbosità e la Fiom è passata di sconfitta in sconfitta perché non attaccando il Piano d’impresa nel suo complesso rivelando un limite o mancanza di autonomia dall’impresa: non ha mirato ad affermare il potere sociale dei lavoratori e la propria autonomia dal Piano d’Impresa. Anche perché, evidentemente, si continua a ritenere (come capitò di dire anche a Cremaschi in un incontro pubblico a Lecce con noi del “Lavoratore”) che sia “ideologismo” mantenere fermi i principi nella prassi e nella lotta (allora erano ideologismi anche le lotte degli anni 60-70).
Mentre al contrario è stato dimostrato che danno forza alla prassi politica e sindacale e che sono forma concreta della lotta proprio di recente i “cementieri” su cui è stato calato il silenzio dopo che hanno vinto e costretto l’Italcementi e per la prima volta da molti anni a ritirare il Piano d’impresa: perché come negli anni 60-70 hanno affermato la loro autonomia dall’impresa attaccando il suo Piano nel suo complesso. Diversamente dalla Fiom che ha perso con Marchionne ed anche nella CGIL per essersi “lamentata” non del Piano ma solo di alcune sue parti, cioè quelle inerenti i diritti della persona – sulla scia di Cofferati e Rinaldini.
“IL CAPITALE VUOL RICAVARE SEMPRE PIU DALLE OSSA, DAI NERVI E DAI CERVELLI DEGLI OPERAI, SIA ALLUNGANDO O INTENSIFICANDO LA GIORNATA LAVORATORIVA, SIA AUMENTANDO LA PRODUTTIVITA’ SE NON VUOLE FALLIRE” (Marx).
E certo non lo si ferma sventolandogli davanti al naso qualche diritto cartaceo e richiamandolo a rispettarli.
Quello che si è dimenticato persino da parte della Fiom è che non conta solo la lotta ma conta la qualità della lotta e dell’attacco, che se non va al cuore della questione del potere (chi decide il Piano: i lavoratori o solo l’impresa?) e si ferma al “contorno”, alle conseguenze “naturali” di chi esercita il suo potere padronale, perde di credibilità e di efficacia e finisce che ti dicono adesso basta: “bisogna essere coesi e condivisi” come è stato detto alla Fiom dopo il “Patto” di “Cartello” tra la Triplice CGIL-CISL-UIL e la Confindustria.
Da Marx a Keynes. E bene chiarire anche per quello che la ASINISTRA considera il “popolo bue” che è in uno stato di confusione da quando lo hanno irretito nella irresponsabilità della logica bipolare e maggioritaria con la quale dice GRAMSCI: “I PARLAMENTI diventano LA TRADE UNION DELLA BORGHESIA (come abbiamo citato in Aden Arabia-(2); è bene chiarire i molteplici aspetti e la molteplicità delle conseguenze che si sono determinate nei vari campi a causa del rovesciamento teorico e ideale che precede lo snaturamento politico e sociale delle forze che da “antisistema” sono diventate di “sistema”, in un trentennio circa di progressivo avvelenamento dei cervelli dei lavoratori da parte della asinistra di cui è parte la CGIL che con Epifani deliberò in Congresso persino di essere di fatto il “nono partito” del centrosinistra di Prodi (quando mai e poi mai il sindacato può essere di governo se non deliberando il tradimento della classe operaia ) col sostegno dell’area “pattista” dei demoproletari di Patta (che così si guadagnò un posto come sottosegretario nel governo Prodi)
Il marxismo che conta veramente è quello politico-sociale, cioè quello che viene applicato e ha ricadute sulla realtà servendo la praxi, e non quello di chi fa della letteratura marxista o della filologia, ripetendo le parole di Marx come se avesse scritto una “Bibbia”, ed accapigliandosi come fanno i fondamentalisti sulle parole bibliche, sul significato di una sua parola, se Marx voleva dire questa o quella cosa o parlandole in modo accademico, astratto, riducendo la teoria ad astrazione, a corporativismo teorico, in tal modo pensando di aver dato prova di fede tale da poter poi dire e agire in politica in senso opposto ai principi anziché applicarli alla realtà senza che alcuno potesse dubitare di loro che invece andavano adattandosi al tatticismo senza principi e all’opportunismo. Convinti, appunto, come quei cattolici che brandendo la Croce come segno di essere i più fedeli di Cristo facevano di tutto e all’opposto dei Comandamenti, anche tali marxisti esibendo con accademismo (anche per questo usa dire che il vero marxista è solo chi non ha fatto l’accademia universitaria) le stimmate del marxiano (o, meglio, marziano, come diceva il trapassato Pirola che si stupiva di dover lui spiegare Marx a chi per anni si era detto marxista), ritenendo che nessuno può dubitare della loro fede i ben individuati TUI, tellettual-in e politici di “sinistra”, nei fatti hanno e negano i principi e il metodo di analisi anziché applicarli nella praxi con analisi politico-sociali organiche e di classe proprie del marxismo, separando completamente teoria e prassi (questa è la radice del male dell’asinistra sedicente comunista di oggi) preferendo “sedie anziché idee” per stare come “sinistra-centro” con i governi o il sottogoverno anticomunisti e fare parlamentaristicamente politiche socio-economiche da TRADE UNION DELLA BORGHESIA DA TUTTI I PUNTI VISTA E’ VANTAGGIOSA PER I SETTORI DELLA BORGHESIA (Gramsci, vedi e-mail Aden Arabia – 2 ).
 Così come il marxismo che conta è quello che si mette in relazione nella prassi e agisce nella politica – non esiste marxismo senza politica – ogni teoria socio-politica ed economica va considerata sotto i suoi molteplici aspetti e la molteplicità delle conseguenze che produce nei vari campi.
Le molteplici implicazioni dello snaturamento delle posizione rubricate come “di sinistra” sono conseguenza del rovesciamento teorico dal marxismo al keynesismo, cioè della acritica assunzione di quello contro cui una volta si appuntava con forza la critica comunista al keynesismo, al New Deal capitalista degli USA, allo “stato sociale” capitalistico delle socialdemocrazie europee.
Le conseguenze più eclatanti di tale rovesciamento sul piano teorico e, di conseguenza, dei comportamenti e dei loro esiti contrari agli interessi dei lavoratori dipendenti d’impresa, sono palesate nel modo più vistoso dal fatto che da quando è stato assunto l’assistenzialismo del c.d. “stato sociale” e il keynesismo che contro la realtà dei rapporti sociali, porta a identificarsi con gli interessi dell’ideologia della borghesia capitalistica, si è pervenuti allo svuotamento totale del carattere di classe della funzione del lavoro nella fabbrica, nella società e nello stato.
Le mutazioni teoriche portano a conseguenze pratiche drammatiche come quelle a cui assistiamo da almeno un trentennio, da quando con l’abbandono della strategia delle riforme sociali per attuare la democrazia sociale prefigurata dalla Costituzione che parla di programmazione sociale e democratica dell’economia – cioè parla del terreno della produzione e quindi di controllo democratico delle risorse economiche – e non di “stato sociale” che riguarda servizi e assistenzialismo che sono dipendenti dalle risorse e quindi dipendenti da chi controlla l’economia e la produzione delle risorse. Da questo è iniziata una deriva e una degenerazione della politica e dei partiti, dovuta all’abbandono delle motivazioni ideali e programmatiche che sono state all’origine della storia dei partiti e della Repubblica italiana democratica e antifascista. Quindi da una corruzione dei compiti della politica e dei partiti, conseguentemente divenuta anche corruzione gestionale e penalmente perseguibile e che è progressivamente accresciuta – coinvolgendo tutti trasversalmente: proprio in questi giorni sentiamo di altri coinvolgimenti del PD, di d’Alema, ecc. – delegittimando e sradicando la Repubblica fondata sui canali democratici dei partiti come cerniera tra le istituzioni e il popolo, tra lo stato e la società di massa che andavano semmai democratizzati abolendo il potere dei vertici e affermando il primato della base sociale sugli apparati di partito e sindacati. E da tutto questo, passando alla formazione di gruppi elettoralistici e di interesse corporativo centrati su un potere del “capo”, ancora più verticistico di quello dei precedenti partiti, tanto quanto nessun sistema più del maggioritario e dell’antiproporzionalismo rende centralistico, verticistico e lontano dalla base sociale e dal popolo i vertici di partito, di sindacato e di stato.
 La radice a cui occorre risalire sono le teorie economiche-istituzionali antisociali e antidemocratiche (perché la democrazia è potere dal basso altrimenti si chiama oligarchia) del potere borghese di cui è una sua variabile il keinesismo liberale e liberista e di sostegno statale all’economia capitalista quanto è da sempre liberale/liberista anche lo statalismo e il liberal/statalismo (vedi Gramsci in Aden Arabia 2).
Questo per ricordare le origini e cogliere il senso diacronico e non solo sincronico (cioè presente) del processo reale che porta a questa fase. Ad oggi in cui tutto precipita sempre più, per cui nel vuoto determinato dalla scomparsa dei partiti di massa su cui si fonda la democrazia e la Repubblica, abbiamo un Napolitano capo dello stato che si dimostra del tutto INCONTINENTE.
Anche perché – non il popolo al quale è stato e viene impedito di sapere e di capire di diritto e di questioni istituzionali – neanche i COLTI o quelli che in quanto intellettuali si reputano tali, SANNO OGGI CHE IL TESTO “FORMALE” DELLA COSTITUZIONE SUL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA HA AVUTO L’IMPRONTA CARATTERIZZANTE DELL’IMPOSTAZIONE DEL PCI.
 Un’impronta che IN RAGIONE E IN FUNZIONE DELLA DEMOCRAZIA SOCIALE E DI MASSA E DELLA SOVRANITA’ DEL POPOLO DELLA NOSTRA REPUBBLICA da al capo dello Stato SOLO ED ESCLUSIVAMENTE UN RUOLO DI APICE E DI TERMINALE.
MENTRE VICEVERSA DAL 1992, capo di governo Amato (il Signor 40.000 mila euro di pensione al mese)  e da Ciampi in poi, il capo dello stato E’ DIVENTATO “SOVRANO” A CAUSA DEI VUOTI E DELLE DEFAILLANCE NEL SISTEMA POLITICO-ISTITUZIONALE, PROVOCATE DAL MAGGIORITARIO. 
Sicché se si prendessero i Manuali degli anni ‘50-’60-’70 e li si confrontasse con quelli degli anni ‘90 SI FAREBBE SCOPRIRE AI GIOVANI LA DIVERSITA’ INTERPRETATIVA DELL’IMPIANTO COSTITUZIONALE ORIGINARIO, RISPETTO A QUELLO ANTICOSTITUZIONALMENTE PRATICATO OGGI, PERCHE’ NEL CAMPO DEL ROVESCIAMENTO CULTURALE E POLITICO-SOCIALE DELLA C.D. “SINISTRA” RIENTRA QUELLA CHE E’ STATA ACCETTATTA COME COSTITUZIONE MATERIALE (invenzione giuridica del nazismo e del fascismo e che Gramsci denunciò come “colpo di stato”, sovversione della Costituzione formale e che anche Enrico Berlinguer denunciò come tale , primo e unico politico a farlo dopo Gramsci) DI CUI APPROFITTA BERLUSCONI PER DIRE CHE E’ CAMBIATA LA COSTITUZIONE MATERIALE: perché la costituzione materiale altro non è che il superamento di fatto della Costituzione formale tramite l’atto di indirizzo politico dei governi in carica, come teorizzò il giurista borghese – prima fascista e poi DC – Mortati e che è stato praticato – oltre che da Hitler e Mussolini. Rendere materialmente diverso il sistema politico-istituzionale da quanto scritto nelle Costituzioni del tempo – da tutti gli anti-PCI e i post-PCI: che dopo aver accettato il principio della costituzione materiale per delegittimare e vanificare la Costituzione vigente, adesso dicono a Berlusconi che la “costituzione materiale” non esiste.
Mentre però è in base al “golpe” della c.d. “costituzione materiale” contro la Costituzione e la Carta scritta del 1948, che Napolitano si comporta come fosse De Gaulle, come lui sovrintendendo all’attività parlamentare e di governo, come anche la Regina d’Inghilterra che ogni settimana chiama a rapporto il primo ministro e, come ci si ricorderà, mise in ginocchio sia politicamente che fisicamente lo stesso Blair. 
Il punto è che nessuno, neanche quelli che si ritengono o vengono considerati colti in materia e i c.d. giuristi cosidetti “democratici” (sic) non solo non chiariscono e non denunciano la “costituzione materiale” come origine delle degenerazione della democrazia e del sistema politico-istituzionale italiano; ma si ESERCITANO IN ULTERIORI IMBROGLI, ad esempio giocando sulle parole, dicendo: VOGLIAMO “UNA” PROPORZIONALE, invece di dire VOGLIAMO “LA” PROPORZIONALE, COME è in EUROPA, perché nessuno evidenzia che NELLE ELEZIONI EUROPEE SI VOTA COL PROPORZIONALE E SENZA SBARRAMENTI.
Questo però lo nascondono e non lo riprende nessun politico, quando QUELLO CHE CI VUOLE E’ UN DOCUMENTO POLITICO FATTO DALLE FORZE POLITICHE per non lasciare a DEI GIURISTI di sostenere e rivendicare il proporzionale, senza che i politici lo prendano in considerazione. Per cui finisce che conta sempre soltanto un giurista come il Gianni Ferrara DI CUI SI CIRCONDANO i vari DILIBERTO E FERRERO e i demoproletari RUSSO (Franco e Spena), cialtroni quali sono anche chi li sostiene. Mentre, i 5 o 6 intellettuali che li sostengono dovrebbero fare e dimostrarsi loro “dirigenti” politici anziché farsi usare e restare a LATERE dei dirigenti e dei DILIBERTO E FERRERO per legittimarli nonostante la loro totale insignificanza culturale e mancanza di “cultura politica” che un dirigente dovrebbe avere.
Donde che al di là del “cretinismo d’impresa” avvezza a falsificare i bilanci e quindi anche i testi di un decreto, dimostrato in questi giorni da Berlusconi, in questa fase di governo della destra sociale e politica IL MUTAMENTO DEL REGIME SOCIO-POLITICO-ISTITUZIONALE CHE SI STA ATTUANDO ANCOR PIU’ DELL’ AVVENTO DI BERLUSCONI (con tutti i suoi conflitti di interesse personale inter-capitalistico), ben più significativamente e drammaticamente CONSISTE nella confezione – senza contrasti reali da parte di chi nel segno della sinistra-centro “radicale” e persino “comunista”, si è da tempo inserito nella “normalità” del bipolarismo, dell’antiproporzionale e del capitalismo internazionale e nazionale – di posizioni teoriche e culturali che come quelle di coloro che dimenticano completamente la critica marxiana al keynesimo, si sono rivelate così catastrofiche ancor più a livello sociale che politico: di cui è solo un ultimo esempio il recente “PATTO” tra i “CAPI” di quelle che in USA SI CHIAMANO “CORPORATION” SOTTOSCRITTO DALLA TRIPLICE CGIL-CISL-UIL USURPATRICE DEL SINDACATO E DELL’AUTONOMIA E DEL POTERE SOCIALE DEI LAVORATORI.
Tra queste posizioni catastrofiche si trova al primo posto il rovesciamento culturale e teorico che dal marxismo al keynesismo ha portato al potenziarsi di una lotta di classe “unilaterale” da parte delle imprese contro la classe operaia e a favore del potere d’impresa: anche da parte della CGIL che da tempo ha abbandonato l’analisi e la lotta di classe, che poi Epifani ha persino conclamato pubblicamente e che la CAMUSSO – della stessa scuderia craxiana di Epifani e del ministro del lavoro del governo Berlusconi – porta alle sue estreme conseguenze, come volevasi dimostrare.
Ora va detto che tale rovesciamento dalla teoria della praxi politico-sociale comunista e dalla vocazione “antisistema” ad una logica di “sistema”, è stato avviato con la motivazione della necessità del pluralismo, di passare da una pretesa unicità totalizzante del marxismo ad un confronto anche tra le diverse teorie politiche ed economiche, in nome del quale progressivamente, in tale e da tale pluralismo, l’unica teoria e prassi che si è scelto e si ravvisa e risulta del tutto esclusa è l’opzione e il punto di vista marxista. A ciò si è pervenuto inizialmente mistificando una compatibilità tra marxismo e keynesimo per legittimare quest’ultimo per poi unicamente assumere questo come opzione favorevole alle classi lavoratrici, alle forze progressiste e anticapitaliste, facendo credere che fosse una specie di “marxismo”. A tal punto che i riferimenti della sinistra “radicale” e “comunista” sono stati e continuano ad essere gli accademici keynesiani ai quali in passato recente vennero affidati anche i corsi di formazione dei militanti della Rifondazione di Bertinotti e dei vari demoproletari che la infestano e la comandano occupando e pensando a “sedie anziché idee”.
In una fase di svolta autoritaria del Paese, mentre tutto crolla e ogni giorno giungono segnali e notizie di una crisi mondiale assoluta per mancanza totale di principi (come si è cercato di evidenziare richiamando l’esempio di Aden Arabia in un mondo di oggi che è tutto Aden Arabia) la fede di TUTTA la ASINISTRA TUTTA, in Keynes, è l’ulteriore dimostrazione  della SUA SUBALTERNITA’ E DELLA SUA MANCANZA DI AUTONIMIA CULTURALE CHE SI RIVERSA IN MANCANZA DI AUTONOMIA SOCIALE E POLITICA. Donde che nel dibattito la rimozione più singolare è quella delle categorie marxiane ed è rimossa nel modo stesso in cui era stata mistificata quell’operazione, teoricamente infondata, mirante nei decenni scorsi a conciliare Marx e Keynes.
Sicché tutto quello che è rimasto ai gruppi e ai leaderisti-populisti-presidenzialisti della asinistra – ed anche ad un Landini che ha confessato di non aver mai letto Marx – è il solo Keynes.
Ignorando o dimenticando la critica marxiana al keynesismo, di fronte alla riproposizione da parte delle classi dominanti delle ricette liberiste che accusano di essere state le politiche economiche keynesiane ad accrescere la spesa pubblica e a deprimere gli investimenti produttivi, la c.d. “sinistra” diventata asociale o antisociale proprio come un cane di Pavlov o come le oche di Lorenz (che spinge l’analogia tra uomini e animali fino a dire che il comportamento di un’oca selvatica è uguale “fin nei più ridicoli particolari” a quelli dell’uomo, per cui meriterebbe il titolo di padre dell’occhettismo e della “Sinistra)”, ha ritenuto che il keynesismo ed anche il socialdemocratico e assistenzialista “stato sociale” (la tenda ad ossigeno per far sopravvivere la mano d’opera che se muore il capitale non può sfruttare) fosse la trincea più avanzata del progressismo e che il massimo da fare è la ormai dimostratasi fallimentare difesa del c.d. “stato sociale”. Quando viceversa nella convergenza tra i cattolici sociali e i marxisti la nostra Costituzione nasce e si qualifica come la più avanzata sotto il segno non già dello “stato sociale” ma della strategia della programmazione sociale e democratica dell’economia: lo stesso segno sotto cui si sono mosse le lotte sviluppate fino alla metà degli anni ‘70: con grandi risultati e conquiste nei campi dei poteri sociali e quindi anche dei diritti sociali e individuali. Diritti sociali e individuali che si sono progressivamente “persi” da quando si è iniziato a parlare di diritti individuali e di difesa dello “stato sociale”.
In tal modo non avendo le basi teoriche e quindi nemmeno quelle politiche e sociali non si è saputo né difendere né tanto meno attaccare le politiche ispirate dalla “controrivoluzione monetarista” che porta con se anche il ritorno ad una società e ad uno stato fondamentalmente autoritari.
 Finendo con l’assumere persino tesi pre-moderne che hanno riproposto la separazione tra società signorile e servile, come la tesi originata in Francia (Gorz), e anche da noi, d’una sostituzione del salario con un assegno minimo detto di cittadinanza motivate nel modo che alla luce degli anni 2000 si dimostra persino “ridicolo”, in base all’idea che il lavoro – dicevano – non è più quello che determina l’identità sociale degli uomini e delle donne dato che l’innovazione tecnologica fa aumentare e rende sempre più superfluo il lavoro”: ecco l’uso terroristico e classista che negli anni ‘80 si è fatto dell’innovazione tecnologica, per dire che era superata la lotta di classe: tanto che quando si è rinunciato alla lotta di classe dell’innovazione non si è più parlato; e si è passati a fare uso apodittico e terroristico della globalizzazione) fa aumentare e rende sempre più superfluo il lavoro. Caro Groz e voi tellettual-in post-comunisti e del Manifesto o Liberazione, ecc. che avete sposato tali tesi, andate a raccontarle oggi a Pomigliano a Mirafiori o in Germania e qualunque altra parte (dire che erano mascalzonate intellettuali è ancora poco).
Una ulteriore prova di come si è dimenticato che già “Hegel concepisce il lavoro come atto di autocreazione dell’Uomo…come essenza che si mantiene dell’uomo..” e che mantiene tale l’uomo, senza il quale allora Lorenz ha ragione e Gorz e i TUI della asinistra sono assolutamente uguali alle oche e tra animali ed uomini non ci sarebbe più alcuna differenza.
Certo anche l’animale produce ma solo ciò di cui ha immediatamente bisogno per se o per i suoi piccoli. Esso produce in una direzione sola, mentre l’uomo produce universalmente. L’animale produce solo perché costretto dai bisogni fisici immediati mentre l’uomo produce libero dai bisogni fisici e produce veramente solo quando è libero da questi. (e)…IL REGNO DELLA LIBERTA’ COMINCIA NEL MOMENTO IN CUI CESSA IL LAVORO DETERMINATO DAL BISOGNO…L’animale produce soltanto se stesso mentre l’uomo riproduce l’intera natura” (Marx); e del resto come ha dovuto opportunamente ricordare Ratzingher (penso e spero soprattutto per gli asinistra) è sempre l’uomo che produce anche le tecnologie che si adducono per additare apoditticamente “la fine del lavoro” da parte di coloro che invece loro sì che ora sono finiti.
Di fatto e in tal modo ci si è dimenticati dell’insegnamento gramsciano circa il “valore educativo del lavoro” inteso come prassi consapevole per uno scopo che non può che essere sociale; quindi cassando anche la fondamentale idea gramsciana di studio-lavoro apprezzata non solo dai comunisti e che fu alla base di tutti i progetti di riforma della scuola presentati dal PCI negli ‘50 fino alla metà anni ‘70; concetto “massacrato” dall’idea manageriale di scuola-impresa attuata contro la Costituzione dalla controriforma scolastica – e dalle successive – di Luigi Berlinguer (“nemico” storico di Enrico) che ha fatto carriera cattedratica facendo l’asino copiatore delle tesi dei giuristi borghesi pre-900).
Il lavoro “è il modo proprio dell’uomo di partecipare attivamente alla vita della natura per trasformarla e socializzarla sempre più profondamente ed estesamente” (Gramsci, Q. dal carcere).
Di recente si sentono spesso economisti bocconiani e keynesiani che ormai vanno ripetendo che “dalla crisi si può uscire solo preparando un’altra crisi ancor più grave”: cioè dicono quel che Marx – che però loro non citano – ci insegna dal 1848, a proposito della tendenza della borghesia a risolvere le crisi cicliche ma permanenti “provocando crisi sempre più generalizzate, più distruttive e riducendo i mezzi necessari a prevenirle” che sembrano parole scritte nel corso della crisi del 2007-2008 e di cui oggi molti prevedono ancor peggio la ravvicina e prossima “grande crisi”.                                                                                                                 Ma in modo antistorico e antiscientifico, direi, sostengono che le radici del disastro del sistema finanziario sarebbe in un sistema che ha fatto del credito e della moneta una merce, per poter finanziare indiscriminatamente la pace e la guerra” che è lo strumento principe per uscire dalle crisi (come stiamo evidenziano in Aden Arabia, ci permettiamo ancora di ricordarlo) e che per ciò è anche il motivo per cui, per finanziare le guerre – che servono per uscire temporaneamente da una crisi prima di quella successiva – si devono sottolineare due punti.    
Primo punto: non possono e non vogliono cambiare il sistema che fa della moneta una merce che provoca le crisi ma finanzia le guerre per cercare di superarle e così via all’infinito e come un cane che si morde la coda, cosa che però dimostra che la radice del problema è il capitalismo in quanto tale, il suo sistema di accumulazione e quindi la validità della fondamentale critica comunista e marxista all’economia capitalistica che in questo circolo vizioso produce una distruzione di capitale e di ricchezza nelle fornaci della speculazione borsistico-bancaria, che va continuamente alimentata con la confisca del risparmio sia  individuale e delle famiglie che di quello collettivo (cioè pensioni, sanità, assistenza e servizi pubblici, ecc) come puntualmente avviene in Europa attuando le direttive UE e BCE.
Donde che l’alienazione – spiega Marx nel Capitale – è la forma specifica dell’immiserimento dell’operaio e degli oltre 2 miliardi di proletari – quanti sono diventati nel mondo globale – indipendentemente dal loro salario. Il Plusvalore è l’obbiettivo della produzione capitalistica:                                              “IL CAPITALE VUOL RICAVARE SEMPRE PIU’ DALLE OSSA, DAI NERVI E DAI CERVELLI DEGLI OPERAI, SIA ALLUNGANDO O INTENSIFICANDO LA GIORNATA LAVORATORIVA, SIA AUMENTANDO LA PRODUTTIVITA’”; SE NON VUOLE FALLIRE, IL CAPITALISTA DEVE TENTARE DI AUMENTARE LA PRODUTTIVITA’ PER RESISTERE ALLA CONCORRENZA E BATTERLA MEDIANTE UNA MOMENTANEA DIMINUZIONE DEI COSTI DI PRODUZIONE. IL CAPITALISTA DEVE PER CIO’ ACCUMULARE UNA PARTE DEL PLUSVALORE, CAPITALIZZARLO, INVESTIRE IN NUOVO MACCHINARIO, ECCETERA” (Marx).
E DI CHE COSA SI E’ PARLATO E COSA SI E’ FATTO A POMIGLIANO, ALLA FIAT E IN GIRO PER IL MONDO SE NON QUESTO. E COME FACEVA MARX A PREVEDERE 150 1NNI PRIMA DI POMIGLIANO QUELLO CHE SAREBBE STATO IL SISTEMA DELLA FABBRICA modello WCM-FIAT e non contestato nel suo complesso dalla Fiom? Era un mago? O semplicemente analizzava e conosceva il capitalismo che voi non analizzate correttamente e non conoscete più?
“TUTTI I METODI PER AUMENTARE IL PLUSVALORE SONO PER CIO’ DIRETTI AD ESTENDERE L’ACCUMULAZIONE E TUTTI QUELLI DIRETTI AD ESTENDERE L’ACCUMULAZIONE SONO VICEVERSA METODI PER AUMENTARE IL PLUSVALORE”.
Ditelo anche a Landini e ai funzionari Cgil e a tutti quelli della asinistra che non hanno studiato nel vero senso della parola, che non sanno cosa significa studiare lavorando e lavorare studiando (come facevamo e facevano i militanti operai del PCI), che pensano si possa bloccare la ferrea logica dell’economia capitalistica e del sistema di accumulazione del capitale, sventolandogli davanti qualche rivendicazione cartacei dei diritti della persona e dei diritti civili: quando in fabbrica nessuno vive relazioni come quelle della società civile; e quando il capitalista se ne frega del rispetto della persona umana e di qualsiasi altra cosa che gli serva per garantire continuità al suo sistema di accumulazione. Per cui si può dire, in modo prosaico: se vuoi tenerti la bicicletta, cioè il capitalismo, allora pedala. E se sei stanco e vorresti scendere un attimo dalla sella, arriva la Fiom a dire di rispettarlo dandogli qualche minuto per smettere e poi ricominciare a pedalare senza mettere in discussione la bicicletta stessa. Con la Triplice sindacale che afferma una specie di “nazionalizzazione della classe operaia” in nome dei superiori principi e valori dell’interesse d’impresa e nazionale.
Mai si era visto negli ultimi due o tre secoli, un livello di scempiaggine intellettuale e ridicolaggine di rivendicazioni e comportamenti che certo fanno molto divertire e ridere i padroni e i loro manager.
Secondo punto: non si vede come ci si possa stupire da parte degli bocconiani-keynesiani – finendo così con l’individuare una soluzione infondata e impossibile – del fatto che la moneta è una merce, quando questo è nella natura propria e inestinguibile del capitalismo, come ha dimostrato non solo Marx il quale per l’appunto dice che “il denaro una merce e una merce piacevole”; ma anche molti altri e maggiori fisiologi dell’economia politica e del capitalismo per i quali il denaro è la merce che diventa sia il principio di animazione che il principio di identificazione di fronte al quale e con il quale qualcuno diventa “soggetto” (in numero decrescente) e altri uomini diventano invece “oggetti” (in numero crescente). Meglio non si potrebbe descrivere l’attuale realtà del mondo dove l’umanità si divide sempre più nettamente tra chi è “soggetto” e chi è sempre più “oggetto” del potere d’impresa capitalistica, industriale o finanziaria che sia.
Marx riteneva “un desiderio pio quanto sciocco che il prodotto non si trasformasse in merce e la merce in denaro, che il valore di scambio non si sviluppasse in capitale e il lavoro in lavoro salariato. Questo desiderio – affermava – cioè il desiderio che il capitale non sia capitale, è sempre stato il desiderio di TUTTA l’economia politica.”
In uno scritto, un marxista coerente (Pala) ha messo in evidenza come il primo (il mercato) non comporta necessariamente il secondo (il capitale), mentre il secondo implica il primo. “L’area di mercato – scrive – è molto più vasta di quella del mercato capitalistico, potendo includere, la prima, anche gran parte dell’intervento statale o di attività autenticamente cooperative – come d’altronde è teoricamente e storicamente inevitabile anche per la prima lunga fase di transizione socialista, con la quale non solo il ‘mercato’ (non il mercato capitalistico) non è incompatibile, ma ne costituisce elemento fondante. Peraltro, gli stessi ‘lavori socialmente utili’ non sarebbero forse inevitabilmente pagati con salario, e dunque sussunti sotto la forma di merce, ossia del mercato, ancorché non capitalistico? In una situazione in cui è precario tutto il lavoro, il lavoro salariato, come si può discettare a cuor leggero di ‘lavoro socialmente utile’? Se non ci si chiede chi decida la forma sociale del lavoro, e perciò quale sia la fonte del suo pagamento, ogni fuga oltre la sfera del mercato è possibile.” 
Ora, al di là di questi riferimenti a Marx e della impossibilità teorica e pratica di riproporre nell’attuale fase storica, le categorie keynesiane, basterebbe forse chiedersi e rispondere alla domanda se può essere un Lord e un Keynes il punto di riferimento teorico di coloro che si dichiarano “sinistra radicale” o anche “comunista”, con una breve ricognizione storica alla fine della prima guerra mondiale, le manifestazioni dell’anarchia del mercato libero concorrenziale e le loro perverse conseguenze sulla stabilità dei sistemi capitalistici si presentavano con i caratteri della crisi generale del sistema capitalistico mondiale. In tal modo si potevano registrare sia tensioni sul mercato del lavoro, sia disfunzioni sul mercato del capitale.
E’ soltanto dopo la crisi mondiale degli anni intorno al 1930 che si è cominciato a parlare della “piena occupazione” come di un obiettivo di politica economica, ma senza neanche ridurre la disoccupazione per tutti gli anni ‘30 del New Deal, come solo con e dopo la seconda guerra mondiale si potuto fare in USA e in altri Paesi. L’idea che si possa discutere di piena occupazione in un mondo capitalistico – idea che oggi si mostra pienamente peregrina di fronte a un capitalismo che allarga a dismisura planetaria l’esercito di mano d’opera di riserva – nasce dalla teoria di Lord Keynes – pubblicata nel 1936, basata sul concetto di un capitalismo “maturo” incapace di creare da sé investimenti sufficienti ad assicurare la piena occupazione. Sicché si proponeva di indicare i mezzi per avere la piena occupazione in mancanza di guerra e di vincere la depressione occupazionale e le crisi non più facendo la guerra o attendendo passivamente i risultati distruttivi della crisi, ma attraverso il metodo della domanda indotta dallo stato. Come accennato prima le ricette keynesiane applicate con il New Deal si dimostrarono fallimentari e ancora una volta la soluzione venne con i tradizionali e ortodossi mezzi della guerra, i mezzi ortodossi per evitare i quali Keynes aveva formulato la sua teoria.
In tempi come questi, di decine di guerre permanenti e di ogni tipo, umanitarie, coloniali, interimperialistiche e imperialistiche, non varrebbe nemmeno la pena parlarne. Ma dopo la fine della seconda guerra mondiale il keynesismo rappresentò la base per quella campagna per una politica liberale, condotta dai circoli di potere occidentale, che diede la parvenza di utilità grazie alle spese statali per la ricostruzione di quanto la guerra aveva distrutto.
Essa teoria (di Keynes), presentata come progressista perché in quegli anni di dopoguerra sembrava favorire la piena occupazione non può farci dimenticare che essa si presentò sempre come una dottrina intesa a “salvare” o a “far funzionare” il capitalismo, senza mai proporsi di essere qualcosa di più.
In nessun senso fu avvicinabile ad una qualsiasi dottrina socialista essendo integralmente una dottrina del capitalismo c.d. “maturo”. La teoria di Keynes è una ideologia prodotta dallo stesso albero tradizionale della teoria economica borghese. E del resto lo stesso Keynes non lasciava alcun dubbio sul fatto che egli considerava la sua “Teoria Generale”, come un’alternativa al socialismo e non al capitalismo. Il suo scopo era e rimane quello di impedire il superamento del capitalismo e combattere ogni trasformazione socialista della società.
Soprattutto si premurava di individuare le armi necessarie per contrastare ogni misura di “socializzazione della produzione”. Anche la sua contrarietà al rentier aveva lo scopo di lasciare una quota maggiore di profitto all’ambizioso imprenditore: “tagliare i rami secchi del capitalismo affinchè la parte viva ed attiva dell’albero potesse fiorire più rigogliosamente” (Keynes).
 
Insomma con utopismo capitalistico, credeva di poter separare dal capitalismo i suoi elementi parassitari che sono parte del suo Dna allo scopo di impedire che si esaurisse la linfa vitale del sistema capitalistico. Ma il suo dichiarato odio per la classe operaia e per il socialismo lo portava ad ignorare le contraddizioni inerenti alla struttura di classe della società, e a concentrare l’attenzione sulle misure che operano nella sfera dei rapporti finanziari e di scambio, come appunto i bocconiani-keynesiani di cui sopra e come anche quelli che con la Tobin tax pensano di potersi schierare con una fazione del capitalismo contro un’altra, ignorando la natura propria del capitalismo finanziario ovvero l’osmosi tra capitale industriale e capitale bancario che da prima della fine dell’800 ad oggi, è IL PROTAGONISTA DELL’IMPERIALISMO che segna “IL SECOLO LUNGO” DEL ‘900.
Keynes considerava, cioè, il capitale un oggetto scisso dai rapporti di proprietà che lo caratterizzano di cui rintracciare una qualche misura senza intaccare i rapporti di produzione e di proprietà capitalistica dei mezzi di produzione, riducendo il LAVORO ad un mero servizio, privo quindi della sua peculiarità di forma salariale storicamente determinata. “In nessuna scienza come nell’economia politica prevale la tendenza di dare così tanta importanza a dei luoghi comuni così elementari…caratteristici dell’apologetica economicista, diceva Marx (si veda anche Gramsci sull’economismo, in Aden Arabia –2)
Keynes propone una regressione fino ad identificare il capitalismo con il semplice scambio di merci o una permuta dei prodotti di consumo come un baratto, da epoca delle caverne, null’altro che un espediente a cui ricorre per la mistificazione di presentare i fini del capitalismo e le sue aspettative di profitto, come finalizzati agli interessi sociali generali di tutti – e non ai fini di classe – che da sempre è un elemento della mistificatrice funzione dell’ideologia borghese.
Lo stesso Adam Smith era ben lontano ancora dal ricorrere a motivi sociali e ideali per giustificare la libera concorrenza capitalistica: egli scorgeva anzi nell’egoismo e nell’interesse personale la miglior garanzia per un perfetto funzionamento dell’organismo economico e per il pubblico bene. E per questa fede nell’autodisciplina dell’economia capitalistica e nell’automatico equilibrio degli interessi ci voleva tutto l’ottimismo proprio dell’Illuminismo. E appena questo cominciò a languire, divenne sempre più difficile identificare la libertà economica con l’interesse generale e scorgere nella libera concorrenza una benedizione per tutti: fino ad oggi in cui la realtà rende lampante e ampiamente dimostrato che ritenere che sia una “benedizione” non si può nemmeno pensarlo.
Sul rapporto tra Marx e Keynes, quest’ultimo essendo nato nell’anno in cui muore il primo, ha senza dubbio l’ambizione come tutti i nuovi venuti di misurasi con chi li ha immediatamente preceduti, ma non sembra che Keynes abbia ben studiato Marx, talché giunge ad includerlo tra i pensatori liberali del ‘laissez faire’, solo dicendo che anziché un ortodosso è un eretico di tale pensiero.
Ma è soprattutto la collocazione di classe opposta che porta Keynes ad opporsi a Marx: Keynes borghese e Lord fino al midollo e Marx che vive come un plebeo.
Sicché Keynes ammette che “quando si viene alla lotta di classe, il mio attaccamento personale…va senz’altro al mio ambiente (alla mia classe). Io posso essere influenzato da ciò che mi sembra giusto e sensato, ma la lotta di classe mi troverà sempre dalla parte della borghesia colta…. ; ‘Il Capitale’ (di Marx, ndnr) è solo…un credo che esalta il rozzo proletariato (sic!) al di sopra della borghesia e dell’intellighenzia, le quali, per quanti siano i loro difetti, sono l’essenza della vita (!!), e portano sicuramente in sé il seme di ogni progresso umano” (J.M. Keynes, Esortazioni e profezie)
Ancora: “ll leninismo è la fede di una minoranza di fanatici persecutori, guidati da ipocriti: Vladimir Ilic è un Maometto”; (idem); “Il leninismo se la prende con l’atteggiamento dell’individuo e della comunità di fronte all’amore del denaro”; (idem) “Lenin si è mostrato inadatto agli affari moderni e alla direzione della complicata economia del mondo industriale. Cosicché i russi, più degli altri europei, erano alla mercè dei loro Ebrei…Giacché bisogna sapere che molti ebrei, nel fondo del loro cuore, sono nazisti o comunisti”.
Ma mentre sui comunisti non ha mai cambiato idea sui nazisti ha poi rovesciato il giudizio fino a ritenere che il sistema del totalitarismo tedesco instaurato in Germania era il meglio adatto ad attuare e a rendere praticabile la sua “Teoria generale”: “In Germania sono sempre esistite scuole importanti di economisti che hanno fortemente contestato l’adeguatezza della teoria classica nell’analisi degli eventi contemporanei. La scuola di Manchester e il marxismo derivano entrambi in ultima analisi dal Ricardo, conclusione soltanto a prima vista sorprendente. Ma in Germania è sempre esistita una larga sezione di opinione che non aderiva né all’una né all’altra. Tuttavia, non si potrebbe sostenere che tale scuola di pensiero abbia costruito un edificio teorico rivale, né che abbia anche soltanto tentato di costruirlo……Per questi motivi, posso forse attendermi minore resistenza dai lettori tedeschi che da quelli inglesi, nell’offrire una teoria complessiva dell’occupazione e della produzione, che si distacca per importanti aspetti dalla tradizione classica…..Dopo tutto, l’amore della teoria è tipicamente tedesco……Vale certamente la pena che io faccia questo tentativo. E sarò soddisfatto se potrò dare un piccolo contributo agli economisti tedeschi, affinché essi costruiscano una teoria completa, atta ad esaudire condizioni specificamente tedesche……la teoria complessiva della produzione, che il libro seguente si propone di offrire, si adatta assai più facilmente alle condizioni di uno stato totalitario, di quanto lo sia la teoria della produzione e della distribuzione di un volume dato di produzione, ottenuta in condizioni di libera concorrenza di prevalente laissez faire”
Ma se qualcuno in buona fede avesse ancora dei dubbi sul Lord Keynes, citiamo il suo appello ai giovani che veramente si pone all’opposto di chi come Aden Arabia esprime e rappresenta la piena consapevolezza della crisi di civiltà dell’Europa e della sua borghesia: “…è duro per un figlio dell’Europa occidentale, istruito, perbene, intelligente, ritrovare i suoi ideali nella confusa paccottiglia delle librerie rosse. A meno che non abbia precedentemente subito qualche strano e orribile processo di conversione, che abbia sconvolto tutto il suo ordine di valori”.

Da Marx a Keynes alla Fiom e chi non attacca i PIANI d’impresaultima modifica: 2011-07-09T00:36:00+02:00da iskra2010
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