Immunità dei poteri e delegittimazione dei diritti

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Il disegno di legge, approvato bipartisan alla Camera (15 marzo 2011) implica, con uno “Statuto delle imprese” che si contrappone a quello dei “lavoratori” del 1970, che lo Stato si metta al servizio del sistema delle imprese.
SCIMMIOTTANDO LA DEMOCRAZIA CLASSICAANGLOSASSONE, LA SINISTRA“, RIMOSSO IL MARXISMO, È OGGI SUBALTERNA ALLINVERSIONE IDEOLOGICA TRA DIRITTI E POTERI: RIVENDICA VELLEITARIAMENTE I DIRITTI SENZA INCIDERE SUI POTERI ECONOMICI E POLITICI CHE DOMINANO I RAPPORTI, DI CUI I DIRITTI SONO LA PROIEZIONE APPLICATIVA E DISCENDENTE

di Salvatore d’Albergo

E’ ormai quasi un “ventennio” (così fu conclamato/avversato il regime fascista) che, imbevuti della pallida e ambigua distinzione tra politica e antipolitica,
ci stiamo logorando nella vana ossessione di imitare la “governabilità” cara ai gruppi dirigenti del capitalismo internazionale/nazionale.

Sino al punto di perdere di vista, nei fumi dei risultati elettorali comunali e provinciali di maggio e del successo dei referendum di giugno, che anche fosse davvero al suo ultimo stadio il “carisma” del capo del “partito azienda” tutto il periodo della crisi di sistema aperta dai trasformisti dell’ex Pci è stato intriso dagli altalenanti aspetti di un “declino della democrazia”tipici di un fatuo “bipolarismo”,con cui i due “poli”hanno maldestramente perseguito, con propagande diverse, il medesimo obbiettivo “strategico”del “neoliberismo”.

Il quale (neoliberismo) mira a distruggere nel mondo occidentale non tanto la varietà dell’assistenzialismo welfarefordista, quanto soprattutto la legittimità di un ruolo di autonomia “teorico-politica” di intellettuali, associazioni, movimenti ancora consapevo1í della necessità (tanto più accentuata dalla “globalizzazione”) di perseverare, anziché abbandonare (o addirittura ripudiare), la metodologia “critica” consapevole della differenza tra mondo dell’”apparenza” e mondo della “realtà”, sul presupposto che la dialettica si fonda sul principio che il pensiero è il rispecchiamento della realtà.

IL BIPOLARISMO OCCULTA LE CRISI

Tale effimero e inconcludente “bipolarismo”, presuntuosamente proteso al “classico” bipartitismo di stile anglo-americano (con le varianti premierato/presidenzialismo) è riuscito ad eludere la denuncia delle crisi endemiche, il cui prezzo politico è stato pagato dal “polo di centrodestra” in termini diversi da quelli sofferti ininterrottamente dal “polo di centrosinistra” per la responsabilità delle “frazioni” ex Pci ed ex Dc, anelanti ad aggrapparsi all’incerto “carrierismo politico”, in proclamato spregio della concezione e del ruolo del “partito politico” e dell’esperienza storica di una lotta volta a trasformare il nesso tra intellettuali e politica con lo scopo “che tutti i membri di un partito politico debbano essere considerati degli intellettuali” (Gramsci, Q4 §49). È gettata così alle ortiche la questione centrale per la trasformazione sociale della “democrazia liberale” concernente i rapporti dialettici “intellettuali-massa” (Gramsci, Q11 §12) che caratterizzano i complessi processi di transizione dal secolo XIX al XX ed ora al XXI.

LA RIMOZIONE DEL MARXISMO

L’enfasi con cui ci si è genuflessi nel nome della “globalizzazione” economico-finanziaria all’idea che il “post-moderno”abbia partorito l’egemonia di quella parte della classe dirigente – da sempre legata all’alta finanza internazionale – che mal sopportava, soprattutto
in Italia, l’espansione della democrazia come potere politico-sociale di controllo del meccanismo produttivo “anche”a fini redistributivi, ha comportato, in termini di crisi di egemonia, il “nuovismo” di un “polo di centrosinistra” che ama camuffare dietro le forme dell’innovazione tecnologica i contenuti ideologici di un’incessante continuità (dal liberismo al “neo-liberismo”) del dominio capitalistico.

Con la reiezione “teorico-politica” del marxismo (nella separatezza di una marxologia “accademica” testimoniale) è stata del tutto dimenticata la decisiva incidenza del nesso tra “politica e mercato” nella rivisitazione delle crisi mondiali e della loro ricaduta nazionale (Franco De Felice 1999).

Risulta sempre più, infatti, che la reiezione “politica” del ruolo del marxismo è determinante proprio alla luce degli eventi che hanno coinvolto i rapporti tra Usa ed Europa e di lì quelli delle politiche economiche, finanziarie, sociali nei singoli Stati, se si tiene ben presente il richiamo puntuale di Gramsci al ruolo della filosofia della prassi circa il nesso tra la situazione internazionale e il suo aspetto nazionale: da un lato, “la prospettiva è internazionale e non può essere che tale”e, dall’altro lato, lo sviluppo verso l’internazionalismo ha comunque come punto di partenza quello “nazionale”, sicché va studiata la combinazione di forze nazionali che “la classe internazionale dovrà dirigere e sviluppare secondo la prospettiva e le direttive internazionali” (Gramsci, Q14 §68).

GLOBALIZZAZIONE E REVISIONISMO

Questa osservazione, nel contrastare con apparente ritualità retrospettiva le mode con cui
la borghesia internazionale ha travolto l’autonomia politico-culturale di tutte le correnti di pensiero non professatesi come liberiste, sino al punto di trascinare nel gorgo dell’anti-marxismo o pseudo-marxismo parte dei gruppi dirigenti della “sinistra radicale” (o di “alternativa”), punta non solo a dimostrare che il fenomeno enfatizzato ora come “globalizzazione” sia intrinseco alla natura del “mercato mondiale” del capitalismo privato, operante sempre in virtù del principio della lex mercatoria, ma anche e soprattutto ad alimentare la denuncia degli obiettivi perseguiti da tutto il fronte culturale dei fan e dei “patiti” del “post-moderno”, del “post-fordismo”, della “fine dello Stato”, della “fine del lavoro”, che – nel segno del “revisionismo storico” come forma del revisionismo ideologico – ha spezzato la continuità del processo storico che ha accompagnato le vicende del capitalismo internazionale-nazionale, cancellando deliberatamente dalla storia e quindi anche dalla cultura, quegli aspetti “reali” che hanno contraddistinto con alterno andamento le lotte per l’egemonia del movimento operaio organizzato.

IL CONFLITTO DI CLASSE SUL TERRENO DELLE IDEOLOGIE

Il che – sul presupposto che filosofia, politica ed economia sono elementi costitutivi di “
una medesima concezione del mondo” – implica l’analisi del ruolo delle ideologie dei gruppi sociali avversi e storicamente riscontrabili a partire dal XIX secolo, da quando cioè nel proletariato è cresciuta la consapevolezza del conflitto tra forma e contenuto del mondo produttivo sul terreno appunto delle ideologie: dal che è risultato, a scapito dell’odierna ideologia sull’”innovazione”, che la “scoperta di nuove energie motrici” può bensì mutare “la statura relativa delle nazioni”, ma non è determinante “del moto storico” (Gramsci, Q4 §38).

Naturalmente, quanto sopra implica la valutazione complessiva dei rapporti tra struttura e sovrastruttura, nel cui ambito occupa un posto decisivo il rapporto tra la lotta sociale e politica e l’”economismo”, e quindi la funzione – che gli intellettuali svolgono permanentemente (quanto variamente nel tempo) – di esercitare “l’egemonia sociale di un gruppo” in collegamento con il suo “dominio statale”.

A questo obiettivo è riferibile la costruzione del partito politico, inteso però – specialmente a partire dal XX secolo – come meccanismo “che nella società civile compie la stessa funzione che compie lo Stato in misura maggiore nella società politica”: ovviamente a condizione di intendere i partiti come “avanguardie di ogni movimento storico progressivo”, avendo ben presente che la distinzione sempre chiamata in causa tra società “civile” e società “politica”, non va intesa come distinzione “organica”, ma solo “metodica” (Gramsci, Q29 §18),e che la storia delle classi subalterne è “intrecciata a quella della società civile” (Gramsci, Q25 §5).

ROVESCIAMENTO DEL RAPPORTO POLITICA-MERCATO

Quelli sinteticamente richiamati non sono che i punti cardine di una rilettura delle opzioni maturate e sviluppatesi sino ad oggi in quella nefasta e insistita contrapposizione tra la persona fisica oltre che politica di Berlusconi, e il “berlusconismo”; con l’avvertenza che tutte le deformazioni e le contraddizioni condensatesi in forme divenute vieppiù inestricabili – ma soprattutto incomprensibili per larga parte dei gruppi sociali subalterni – derivano dal rovesciamento che si è venuto costruendo sui rapporti tra “politica” e “mercato” quali si erano configurati dalla fine della seconda guerra mondiale nell’antitesi tra liberal-democrazia e democrazia sociale.

Certo lo sviluppo è verso l’internazionalismo, ma il punto di partenza è “nazionale” ed è da questo punto di partenza che occorre prendere le mosse. Ma la prospettiva è internazionale e non può essere che tale”(Gramsci)

L’esito di questa lotta di egemonia ci fa constatare come nessuna forza politica e sindacale oggi sulla scena ponga alla base dei documenti – che sono solo “elettorali” e non “progettuali” – la critica del ruolo (e perciò, poi, delle “forme”) del capitalismo privato, che ha esteso la sua influenza su tutti i versanti dei rapporti civili, sociali, politici ed economici, facendo del profitto e del nesso alienazione-sfruttamento nel processo dialettico nazionale-internazionale l’asse di un dominio ritenuto incontrastabile proprio con riguardo ai nuclei decisivi del
potere non solo economico-finanziario, ma anche e conseguentemente politico-istituzionale. Questi poteri hanno conseguito puntelli tali nei rapporti internazionali, con i riflessi statali, da rendere velleitarie le rivendicazioni di diritti, inattuabili senza incidere sui poteri che dominano i rapporti di cui i diritti sono la proiezione applicativa e discendente.

POTERI: FONTE REALE DEI DIRITTI

Al di là di ogni apriorismo dogmatico di tipo giusnaturalistico, fondamentalistico, “radical-liberale”,
stiamo infatti assistendo al ribaltamento nell’elettoralismo di tutte le “sinistre” (non a caso autoproclamantesi “sinistra-centro” o “sinistra radicale”) della relazione teorico-politica tra forma dell’organizzazione sociale – e quindi dei poteri – e disseminazione di una serie di diritti civili (taluni dei quali impropriamente ascritti alla natura dei “diritti sociali”).

Il tutto come prodotto del nascondimento/disconoscimento del ruolo “storico”, e come tale incancellabile, che i fondamenti della filosofia della prassi hanno assunto e svolto dal 1848 al 1989 nelle contraddizioni e nelle alternative della strategia dei comunisti e dei socialdemocratici:culture, partiti e movimenti che quando sono scivolati nelle rispettive crisi – la più grave delle quali è comprovato essere quella del “socialismo reale”, con gli effetti generali di trascinamento – hanno dato la stura, anzitutto tra la maggior parte degli “intellettuali” accademici consulenti dei gruppi dirigenti nei partiti comunisti, alla bagarre sulla “fine del comunismo” come pendant della “fine della storia”. Sono stati coinvolti cioè nel vortice di una rivincita egemonica di quelle forze idolatrici del capitalismo (specie se ammantato di “assistenzialismo”) che si accodavano al “bipolarismo” ideologico-militare Est-Ovest perché costrettivi dalla potenza dell’Urss (con il socialismo “in un paese solo”). Ma ostentatamente si sottovalutava che nei singoli Stati, specie in Italia e in Francia, egemonizzati dalla cultura dei “due più importanti partiti comunisti dell’Occidente”, l’anticomunismo si andava attrezzando con mezzi ambigui come quello della “doppia lealtà” e del “doppio Stato”(messi a fuoco da Franco De Felice 1999), pur di contenere/rimuovere la capacità di influenza del Pci (più che dello stesso Pcf), su un terreno di democratizzazione.

Tale terreno veniva canonizzato come “complessità”, da “ridurre” appunto perché apertura di una prospettiva di
socializzazione della vita collettiva, e quindi dei poteri che la condizionano quale fonte reale e non astratta dei diritti individuali; della vasta gamma che – in linea con le cadenze storiche degli sviluppi dei rapporti società-Stato nelle varie nazioni – hanno potuto acquisire rilevanza, riconoscibilità e persino qualche legittimazione nel cuore dei conflitti di classe acutizzatisi negli anni 1967-1975 particolarmente in Italia.

IL NESSO PASSATO/PRESENTE

Assunto tale profilo di analisi della crisi del
“bipolarismo” pseudo ideologico e solo “elettoralistico” tra i “poli” di centrodestra e di centrosinistra, con l’appendice dei “postcomunisti” svaporizzatisi a loro volta in “sinistre” più o meno contestatrici, si pone necessariamente la questione di chiarire la “deriva”, di cui sono compiaciuti prevalentemente i “radicali” a livello politico e i “poteri forti” come soggetti rivendicatori di quel mix di “liberalizzazioni-privatizzazioni”, che sono l’asse teorico dell’egemonia del capitale e dell’economismo antisociale e individualistico.

Sin qui un interrogativo di tal fatta è stato tenuto fuori da una letteratura socio-politico-economica che “descrive” il presente, rifuggendo metodologicamente dal valutare come si possa guardare al futuro saltando completamente la
connessione del presente con i processi – oltretutto assai complessi – del passato più recente. E ciò viene fatto a costo di passare da una “decostruzione” fallimentare a una “innovazione” priva di principi fondanti nitidamente identificabili, senza nel contempo verificare quale egemonia sia stata – e con quali strumenti ideologici – sconfitta, sì da conclamare (da “sinistra”, con enfasi maggiore che da “destra”) che oggi si è imposta (ma “globalmente”, si faccia attenzione) l’egemonia del capitalismo per il tramite insopprimibile della “politica” con il complice “sdoppiamento” dei vertici istituzionali UE/Stati. Senza tale sdoppiamento l’economia non può produrre i suoi effetti devastanti, che prolungano, dilatandone nei rapporti qualità/quantità, l’alienazione e lo sfruttamento, risalenti al lancio del Manifesto nel 1848, con quel che ne è seguito per la nascita dei partiti comunisti e relativa diatriba con la socialdemocrazia.

Disconosciuto il ruolo storico del marxismo, le “sinistre” invertono la relazione teorico-politica tra forma dell’organizzazione sociale – e quindi dei poteri – e disseminazione di una serie di diritti civili

È così sempre più evidente uno sbandamento recriminatorio sulla durata del “berlusconismo”, di cui il centro-sinistra è solo la “controfigura”, ma del tutto inconsapevole che tale degenerazione va letta come conseguenza, dilatatasi dalla sortita Pds/Pd alle altre “sinistre”. Queste ultime si sono via via sfilacciate per il rifiuto di fare i conti con le cause e gli effetti della contraddizione tra il “comunismo” nella sua forma storica non univoca e la prospettiva di ex comunisti che sul terreno dell’ideologia hanno accondisceso “all’accettazione dell’esistente” (Franco De Felice 1998-1999), dopo che la liquidazione del Pci aveva “smantellato un bastione di organizzazione collettiva e un potenziamento dell’esistente”.

INVERSIONE DI DIRITTO E STATO

Ora, tale criterio di lettura, nel passaggio dalla sintesi all’analisi storico-politica, implica non già
l’abbandono del marxismo, sostituendolo con il “radicalismo individualistico” vanamente proteso a salvaguardare i “diritti di cittadinanza” nella scomposizione della democrazia a danno di quella “sostanziale” in favore di quella “procedurale“, subita (più o meno “coscientemente”) anche dai movimenti pro “partecipazione deliberativa” ai “bilanci pubblici”. Ma proprio al contrario, riaccreditando quella concezione marxista del diritto come fenomeno sovrastrutturale di legittimazione del potere delle strutture del mercato capitalistico, concezione che assume la scissione tra classi e cittadini come presupposto della lotta sociale e politica contro le condizioni in cui si è forgiato via via il capitale transnazionale: dando l’illusione, anche agli ex comunisti, della più o meno imminente scomparsa della “forma-Stato” e del “sistema degli stati”, mentre il capitale transnazionale deve fronteggiare un “proletariato mondiale come “classe pericolosa”, potenzialmente eversiva dell’ordine capitalistico mondiale molto più che in passato” (Catone 1997). Di conseguenza, all’interno di tale processo generale di dominio ideologico e di potere del “neo-liberismo”, il “caso italiano” presenta i caratteri peculiari di una crisi più specifica e più determinata, fuori dal polverone anticomunista che ha annebbiato le menti dei gruppi dirigenti politici e sindacali sopravvissuti sui flutti della “globalizzazione”: il rapporto tra Stato e diritto infatti è stato sottoposto a un’inversione di prospettiva con le culture marxista e cattolica circa la “socializzazione del potere” come ambito di una “democrazia sostanziale” che è estranea alla “democrazia classica” di Inghilterra e America del Nord e ambiguamente inscritta nei presupposti del “riformismo” sia socialdemocratico che delle sue varianti “modernizzanti” (anche in nome del “keynesismo”).

LA DEMOCRAZIA PARTECIPATIVA DELLA COSTITUZIONE

Deriva da ciò che non si può oscurare o eliminare dall’analisi odierna del capitalismo il fatto che, nei decenni precedenti la caduta dell’Urss, in Italia il movimento operaio si è distinto per l’incidenza delle lotte sociali e politiche sulla “antitesi-primato” della democrazia rispetto al mercato, in base ai Principi Fondamentali e alla disciplina dei rapporti economico-sociali inscritti nell’
unica Costituzione dell’Occidente che ha sostituito alla “democrazia procedurale”, imperniata sull’immunità del potere economico-finanziario e sul generico “garantismo” dei “diritti” già consolidati a favore dei ceti alti e a detrimento delle classi subalterne – persino se in qualche modo “assistite” alle condizioni imposte dalla proprietà e dall’impresa “privata” – una “democrazia partecipativa”, incomparabile con gli odierni approcci al “bilancio partecipato”. C’è infatti un netto spartiacque fra i caratteri di una democrazia “organizzata” e l’attuale “partecipazione”.

La prima, imperniata sul nesso tra movimenti-partiti-parlamento e sistema delle autonomie locali, è proiettata al controllo sociale e politico dell’intero sistema di accumulazione con la programmazione democratica dell’economia, senza perciò separare gli investimenti “produttivi” e gli investimenti “sociali” da un’unica conseguente impostazione strategica, imperniata sul qualificante art. 3, secondo comma della Costituzione.

La seconda è priva di potere reale a interferire con la “gestione dei servizi locali” e ferma ancor più “l’immunità” della produzione dei “beni” nella foga, suddivisa tra centrosinistra e centrodestra, delle liberalizzazioni e/o delle privatizzazioni sotto le cabine di comando politico istituzionali introdotte contro il modello della Costituzione democratico-sociale del 1948 e sotto i nuovi vessilli di una “democrazia costituzionale”, importata da culture liberal-democratiche. Nel suo nome le “leggi” sono imposte dal- l’alto, sia in sede nazionale (uninominali o maggioritarie imperniate su “proporzionali miste”!?), sia in sede decentrata (“presidenzialismo” comunale, provinciale, regionale), a seguito del revirement ideologico dei gruppi del centrosinistra, poi seguiti dal centrodestra (che ha “inventato” la legge elettorale nazionale vigente dal modello “toscano” di centro-sinistra).

Il Pci si batteva sul terreno della democratizzazione in una prospettiva di socializzazione della vita collettiva, e quindi dei poteri che la condizionano quale fonte reale e non astratta dei diritti individuali

IL NODO DELL’ORGANIZZAZIONE DEL POTERE

A fronte di questo
flash sul passaggio dagli anni ’80 ad oggi, rivela tutta la sua inaccettabile inconsistenza – a latere del centrosinistra già inquinato da ambiguità ideologiche che lo rappresentano come l’altra faccia (imbellettata?) del “berlusconismo” – la configurazione di una “sinistra” lamentevole (con più o meno accenti difensivistici) di un capitalismo dilagante anche nel dilaniare la “soggettività” del lavoratore nelle forme del precariato, sul presupposto di violare gli artt. 39 e 40 della Costituzione che danno forza all’art. 41 relativo alle “finalità sociali” della produzione di beni.

Ma questa “sinistra”, al contempo, è sempre più propensa a sostituire alla lotta per il socialismo internazionale il “libertarismo”. Se con ciò evidenzia la dimensione sempre più incontenibile dei guasti del capitalismo a danno dei “deboli”, che è giunto sino al punto di invadere e distruggere i più riposti bisogni dell’umanità ormai apparentemente senza classi, la “sinistra” è però ben lungi dall’additare quali contraddizioni reali ostacolino la trasformazione dei diritti – rivendicati nell’inquinamento teorico con il radicalismo individualista e antisociale – con istituti formalizzati da un diritto che, frattanto, preclude, con la sua organizzazione del potere, che trovino garanzie sostanziali, cioè legislative, gli immigrati (soprattutto lavoratori concorrenti con quelli italiani), gli aspiranti a conquistare la famiglia di fatto, l’eutanasia, la maternità assistita, l’equiparazione dei sessi sotto i più comprensivi aspetti del rapporto uomo-donna. A tutti questi soggetti non rimane che rifugiarsi nell’esito delle controversie “giudiziarie”, a seguito della concezione dominante della “democrazia classica” – ma non accolta nel testo della Costituzione italiana – secondo cui il “costituzionalismo” si conchiude nei termini di un astorico “Stato di diritto” imperniato sui rapporti tra la “legalità” e la “giurisdizione”, cioè tra la “forma” della legge e la “forma” delle sue “garanzie”, nella “separazione dei poteri” risalente alle rivoluzioni americana e francese.

FUORVIANTE SEPARAZIONE TRA PRODUTTORE E CONSUMATORE

Il punto critico che stiamo vivendo ovunque nel mondo (il 2% vive in agiatezza, contro il resto del 98%, lo dicono sociologi ed economisti
à la page) va nuovamente contro l’assurdità di una dicotomia, voluta dalle classi dominanti, circa l’appartenenza a due sfere della conoscenza, ma ora subita/condivisa con varia incidenza fra i gruppi dirigenti politici e sindacali di “sinistra” non più “rivoluzionaria”:

l’una attinente ad un mondo della produzione gestita dalle imprese transnazionali con la pretesa di attrarre nell’orbita della tecnologia anche la produzione dei servizi oltre che dei beni, privatizzando uno Stato che si era dato per estinto;

l’altra, circoscritta al mondo variegato e disorganizzato di “consumatori/utenti”, sul presupposto che le tutele, imperniate vieppiù sul ruolo dell’Europa “comunitaria” con riguardo ai consumatori non contrastino in modo diretto le strategie di profitto dell’imprese.

UNIFICARE TUTTO IL LAVORO

Sicché le concentrazioni delle imprese inquadrabili nella “libertà del mercato e della concorrenza” determinano squilibri ai danni dei consumatori proprio perché si è abbandonata la concezione critica dell’economia politica basata sull’
indivisibilità della condizione di vita del lavoratore e del cittadino, nella varietà – riunificabile, o scindibile nella lotta per l’egemonia – delle forme di “organizzazione del lavoro” e quindi di una società nazionale/internazionale nella quale la produzione di beni e di servizi va inquadrata in una “programmazione socio-economica” dello sviluppo, tanto più se questo appare aver raggiunto limiti proprio nella “crescita”, e tenuto conto che la crisi del capitalismo è ora accentuata proprio dal ruolo acquisito dalla scienza tecnologica. Con la conseguenza non già di legittimare la “neutralità” del sindacato, ma, al contrario, la sua insostituibilità – in convergenza con la ricostituzione del partito comunista italiano – nella indifferibile strategia non solo difensiva, ma di lotta, per collegare fra loro le categorie tradizionali e nuove di lavoro tutto dipendente, contro i corporativismi che il dilatarsi della “sfera produttiva” provoca.

E per comprendere finalmente che l’unità dei comunisti è investita oggi dal compito di riunificare operai, tecnici e intellettuali coinvolti – nell’ambito della transnazionalità delle grandi imprese, ma anche delle medie e piccole imprese – in una prospettiva che riqualifichi la coscienza di classe dei ceti subalterni.

La Costituzione ha sostituito alla democrazia procedurale anglosassone, imperniata sull’immunità del potere economico-finanziario e sul generico garantismo dei diritti già consolidati a favore dei ceti alti e a detrimento delle classi subalterne, una “democrazia partecipativa”

UNITÀ DI ECONOMIA, POLITICA, FILOSOFIA

Né è un parlare d’altro quando si osservi che la mondializzazione dell’economia comporta una tale vastità di problemi tutti intrecciati, che è ormai
insostenibile una scomposizione “tematica” dei problemi finanziari, economici e sociali – nonché dell’etica da quelli dell’economia – come lucidamente sottolineato da Bellofiore e Halevi al culmine di una serrata diagnosi sulla grande recessione e la terza crisi della teoria economica -, nel senso che è una “questione politica tout court la crisi del ciclo neoliberista, comportando l’intervento nelle trasformazioni del capitale come rapporto sociale, e quindi nella produzione diretta, ove il lavoro incide prima che nella distribuzione: tenuto perciò conto che i movimenti sociali di contestazione devono essere conseguentemente protagonisti della “immaginazione programmatica” in prima battuta.

Ciò comporta una serie di considerazioni organiche che partono da una lettura, e non dalla cancellazione, del Novecento e delle vicende reali dei rapporti tra Stato e mercato, da cui traspare che le lotte del XX secolo, viste proprio nell’angolazione non soviettista delle vie nazionali al socialismo, testimoniano come si siano aperti varchi all’obiettivo della “libertà positiva” dall’oppressione, nella consapevolezza che l’essere nella produzione non è più inteso come separato dall’essere nel consumo e nel tempo libero

DEMISTIFICARE LA CONCEZIONE GIURIDICA DEI DIRITTI

E allora, oltre ad evitare i limiti della teoria dello “Stato sociale” a partire da Weimar, occorre demistificare quella concezione “giuridica” dei “diritti” che impedisce di cogliere che i rapporti di produzione danno vita non già a diritti “civili” – come induce a credere che l’idea dell’appartenenza al “codice civile” della teoria dell’impresa, precedente l’entrata in vigore della Costituzione, possa rimanere come un muro atto a escludere dal novero dei “diritti sociali” proprio quelli che legittimano la lotta di classe per disciplinare il
rapporto domanda-offerta a fini sociali, e quindi sia con la produzione di merci “utili alla società” e non al solo profitto, nella fissazione di “prezzi” che soddisfino i bisogni e con essi i “diritti” del salariatoconsumatore-cittadino: facendo spazio reale ai principi sulla eguaglianza “sostanziale”, come fonti dei nuovi “diritti sociali”, contro la sopravvivenza “forzosa”del codice civile e contro le proiezioni nazionali della “costituzione economica europea”, a sua volta condizionata dalle istituzioni finanziarie internazionali – i cosiddetti “mercati” – per poi legittimare “da sinistra” misure “redistributive” della nuova ricchezza prodotta dalla nuova forma dell’accumulazione, come la riduzione d’orario a parità di salario e il reddito di esistenza.

COSTITUZIONE E LOTTA PER I BENI COMUNI

Qui si colloca – anche come alibi della scissione tra produzione e distribuzione per considerare “democrazia civile il luogo funzionale del mercato” (Ferrajoli 2007) – la teorizzazione emersa di recente (specie nella dottrina giusprivatistica) intorno ad una proposta di modifica delle norme del codice civile in materia di beni pubblici, per inserire prima dei beni “pubblici e privati” la nuova categoria dei “beni comuni” (coordinabili agli “usi civici” preesistenti), beni cioè collocati fuori del commercio perché funzionali al “libero sviluppo della persona”, oltre che all’esercizio dei “diritti fondamentali”.

Tale proposta – che più propriamente parla in “specifico” di “beni pubblici sociali” se le loro utilità essenziali sono destinate a soddisfare bisogni corrispondenti “ai diritti civili e sociali della persona” – è stata in questo aspetto alla base teorica dell’iniziativa politica referendaria in materia di acqua pubblica quanto alla disciplina delle reti di pubblico servizio e al mantenimento e miglioramento dei servizi sociali erogati, fermo rimanendo infatti che gli acquedotti sono qualificati come “beni ad appartenenza pubblica necessaria”, in quanto soddisfano “interessi generali fondamentali” a cura dello Stato e degli enti pubblici territoriali.

I contenuti dei referendum sull’acqua nei termini sanzionati nei “sì” abrogativi delle norme devianti verso privilegi “privatistici”, hanno consentito una mobilitazione politico-sociale di movimenti più che di partiti, la cui intelligenza critica merita allora di essere aperta a una lotta più vasta e comprensiva dei rapporti tra la Costituzione e il codice civile, e riguardanti sia quelli che il suddetto progetto chiama “beni pubblici fruttiferi” gestibili con strumenti di diritto “privato” (cioè con “criteri economici”), sia le imprese di cui la Costituzione si occupa in senso diametralmente opposto ai principi del codice civile del 1942, non solo se riferite a “servizi pubblici essenziali” (art. 43 Cost.), ma anzitutto se titolari di “attività economica pubblica e privata” assoggettabili a “indirizzi e coordinamento a fini sociali” (art. 41, terzo comma, collegato all’art. 3, secondo comma), che è l’asse portante dei Principi della “democrazia sociale”.

La democrazia organizzata della Costituzione tende, con la programmazione democratica dell’economia, al controllo sociale e politico dell’intero sistema di accumulazione, combinando in un’unica conseguente impostazione strategica gli investimenti produttivi e quelli sociali

Si tratta di rilanciare tali Principi, tenuto conto delle insufficienze strategiche che, nel contrastare il neoliberismo e le forze europee del centrosinistra, palesa la Sinistra europea, laddove focalizza, nel proporsi come alternativa al capitalismo e al “direttorio dei poteri forti”, la difesa e la promozione dei “beni comuni”.
Insufficienze strategiche presenti anche in quanti puntano al “superamento del capitalismo” senza prospettare una strategia di contestazione dell’Europa tecnocratica dipendente dai poteri finanziari internazionali, né prefigurare quali strutture istituzionali di un modello opposto a quello dei Trattati possano delineare i fondamenti operativi di una lotta sociale e politica che condizioni transnazionalmente – a partire dalle singole “statualità nazionali” – la rete delle imprese produttive di beni oltre che di servizi.

Quale democratizzazione “dal basso” si può costruire, se proprio in Italia – che ha la Costituzione più avanzata nonostante le revisioni “federaliste” introdotte dal centrosinistra per il vano inseguimento della “Lega-Nord” – si ritarda il rilancio del “partito di massa” e ci si adagia su modelli istituzionali tutti verticistici, preoccupati solo di non rimanere esclusi da meccanismi elettorali che tutti – se diversi dalla proporzionale “pura”, adottata per le sole elezioni europee – delegittimano in senso maggioritario i diritti rivendicati nelle “carte europee”, perché c’è un vuoto teorico-politico circa l’organizzazione del potere locale, regionale, statale e della UE?

LO STATUTO DELLE IMPRESE CONTRO LA COSTITUZIONE

Un costituzionalismo che si riallaccia alle origini delle matrici angloamericane è destinato a far da copertura “formale” alle varianti (di destra, centriste e di sinistra) di
un liberismo che proprio in questi giorni sta per essere sancito in senso opposto all’art. 41 della Costituzionecon lo “statuto delle imprese”, approvato alla Camera da centrodestra e centrosinistra (15 marzo 2011), con norme considerate, addirittura, “da riforma economico-sociale della Repubblica e principi dell’ordinamento giuridico”, con un preciso silenzio sulle grandi imprese (ne parla espressamente l’art.47 della Costituzione), e con specifico riguardo “alle micro, piccole e medie imprese” per il loro “sostegno pubblico”, obbligando oltretutto lo Stato e tutti gli altri enti pubblici a “procedure di valutazione”, previa consultazione delle organizzazioni “maggiormente rappresentative” delle imprese, prima cioè dell’approvazione di una proposta legislativa, regolamentare o amministrativa “destinata ad avere, conseguenze sulle imprese”.

LO STATO AL SERVIZIO DELLE IMPRESE

Il disegno di legge recante la firma di ben 235 (sic!) parlamentari di ogni “polo”, consacra in modo eclatante – ma celato dalla “stampa indipendente”, per nascondere dietro alle quotidiane “bufere” l’omologazione di fondo che si istituzionalizza nel “bipolarismo” – come la demonizzazione dello Stato dei “lacci e lacciuoli” (si pensi al Carli degli anni ’60) implicasse, oltre alla tesi interessata della “fine dello Stato”, addirittura la riconquista, dopo il fascismo, di uno Stato
al servizio del sistema delle imprese. Con uno “statuto” che si contrappone a quello dei “lavoratori” del 1970, senza che i gruppi sociali subalterni possano sospettare che chi li “menziona” per meglio criminalizzare il “capo del partitoazienda”, li abbandona al loro destino per esaltare il rilancio di una rete di imprese alla condizione che siano esse ad imporre “vincoli” allo Stato.

Tutto ciò a tacere – ma deplorevolmente – che frattanto, nel nome dei diritti “umani”e quindi delle “guerre umanitarie”, i grandi potentati finanziari ed economici dilapidano i “bilanci pubblici”,a danno dei vari Pil, strozzando e spezzando gli equilibri economico-sociali del mondo intero. Per far ciò si avvalgono di una “catena” di sostegno ideologico da parte delle innumerevoli “Fondazioni” che hanno sostituito il ruolo di “educatore” dei partiti di massa, nella compromissione tra le culture oggi unite dal ripudio della “critica dell’economia politica”.

 

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di Angelo Ruggeri

Trasmettiamo UN TESTO UTILE ANCHE PER RISCRIVERE DOCUMENTI APPELLO NON FIRMATI MA SCRITTI DA SINDACALISTI, MA ANCHE UN ANTIDOTO AGLI APOLOGETI VECCHI E NUOVI DEL LIBERISMO-KEINESISMO, ALL’ANTI-MARXISMO O PSEUDO-MARXISMO DEI VERTICI DELLA SINISTRA SEDICENTE COMUNISTA E “RADICALE”, AL RINALDINISMO E AL DILIBERTISMO, CHE APPAIONO IN CALCE SULLA STESSA RIVISTA (da cui riprendiamo il testo di d’Albergo).
 
L’articolo di d’Albergo, che riprendiamo da “Marx ventuno”, è caratterizzato  dall’estrema chiarezza dell’analisi e dalla messa a fuoco della natura politico-sociale delle questioni odierne ed urgenti da affrontare, il tutto derivato dall’uso del metodo della critica marxista e dell’analisi organica di cui difetta – anche, da ultimo – quel “Appello per un fronte comune contro il governo unico delle banche” non firmato ma scritto da sindacalisti (che invitano ad un incontro nazionale).
 
Un testo pressoché inemendabile, quasi da PD arrabbiati; in ogni caso la pensiamo come G. Chiellini che ci ha scritto: “Per parte mia, così com’è, lo trovo inaccettabile. Intanto, non usando le categorie marxiane non esamina la dimensione mondiale della crisi. Conseguentemente non è dato sapere perché nonostante sia “totalmente in crisi il blocco sociale e politico e l’egemonia culturale che ha sostenuto i governi di destra e di Berlusconi”, le “vittorie” dei  movimenti  incontrano la resistenza di un fronte compatto costituito dalla maggioranza politica, da gran parte dell’opposizione, nonché da gran parte delle “parti sociali”.
Evidentemente si dimentica che egemonizzati e quindi subalterni sono stati anche tutti i governi (di sinistra?) non diretti da Berlusconi.
Con queste premesse non si poteva che finire sull’indicazione di obbiettivi di lotta (i cinque punti) radicaleggianti, incapaci sia di aggregare in un fronte unico tutte le forze emerse nei diversi movimenti, sia di disaggregare il
blocco sociale e politico dominante.
 
Tralasciando che nell’appello si richiede “un” proporzionale e non “il” proporzionale, cadendo nell’imbroglio del gioco di parole di Gianni Ferrara che mistifica come proporzionale un sistema  con lo sbarramento che taglia alla base proprio i voti della clase operaia e popolari; che è del tutto assente l’impresa e la questione del potere d’impresa, sia nell’appello che nell’articolo dilebertiano (che è in cima ma è del tutto avulso dal resto della rivista “Marx ventuno”); tralasciando dal ricordare che la parola lavoro è stata usata anche dal fascismo, e recentemente dai fascisti per mettere nella modifica del Titolo V della Cost. che il lavoro è subordinato, ma, ancora, in senso opposto, nessuno dice – nell’appello e nell’articolo dilibertianoche il lavoro è sovraordinato; che il problema è con quale strategia si attacca il potere dominante dell’impresa industriale o bancaria o finanziaria, ecc, e come rilanciare e non difendere la Costituzione; tutte cose dimenticate sulla rivista da Diliberto che vuole l’unità della sinistra per il quale il Partito comunista sarebbe  testimonianza di unità della sinistra senza identità comunista: insomma tutte le cianfrusaglie di chi guarda  da un ottica di centrosinistra e non da comunista, e dove sulla rivista anche l’enfasi posta da Rinaldini sulla “democrazia cancellata” copre il vuoto strategico e culturale e politico sociale del sindacato e della “sinistra”; tralasciando anche di ricordare che “pubblico” è anche quello liberale e quello fascista e che si deve parlare di pubblico-sociale o pubblico democratico-sociale e che i  beni non sono comuni ma collettivi e in particolare il lavoro non è un bene comune (ma che scherziamo?) ma è un bene collettivo. 
 
Tralasciando tutto ciò, per fare solo un esempio, l’Appello, già nel suo titolo – oltre che nel contenuto –  mostra di aver dimenticato o di non avere nozione di che cosa è “il capitalismo finanziario“, da cui ponendosi come una variabile interna al capitalismo – come usano fare i pro Tobin Tax che pensano possibile schierarsi per un capitalismo contro un altro (quello finanziario) – estrapola le banche scindendo il capitale finanziario dal capitale industriale tra loro inseparabili, dimenticando la loro osmosi da cui origina il capitalismo finanziario già dagli ultimi due decenni dell’800.
 
Con ciò perdendo anche la nozione di imperialismo, di cui il capitalismo finanziario è il grande protagonista da oltre un secolo e, con ciò, via via, perdendo la nozione di come funziona e cosa è oggi l’imperialismo del capitale, della guerra interimperialistica, così visibile e in atto ogni giorno sotto i nostri occhi e della sua natura, di guerra economica-politica e guerra militare e di aggressione con tutti i mezzi e tramite lo Stato che neanche si nomina in tale Appello, se non abbinandolo deplorevolmente allo “Stato sociale” capitalista e alla sua perdente difesa.  Mentre è il Sole 24 Ore a scrivere che le agenzie di rating devono essere controllate e regolate legislativamente e quindi dallo stato che anche tale “sinistra” ignora.
 
Nonostante che si dovrebbe sapere che il sistema delle imprese” – che nell’Appello non viene identificato come tale e nemmeno si dice “di” e “come” combatterlo quale sistema e potere d’impresa –  è oggettivamente sovversivo e istituzionalmente contrario alla democrazia (che è sempre democrazia-politica-sociale-economica altrimenti non è) convivendo in modo naturale ed organico CON UN SISTEMA POLITICO DI DITTATTURA DI CLASSE (dittatura di classe non delle banche che sono “parte” del sistema)  E DI AUTORITARISMO DI STATO,  CHE CONSENTE AL POTERE “UNICO” DELL’IMPRESA INDUSTRIALE-BANCARIA-FINANZIARIA, nazionale e sovranazionale, DI RESTRINGERE LA DEMOCRAZIA A FORME PURAMENTE RESIDUALI E SOLO ALLA CONDIZIONE DI POTER USARE SFRENATAMENTE TUTTI I SOTTERFUGI USABILI AL COPERTO DELLE REGOLE DEL CODICE DELLE SOCIETA ANONIME PER AZIONE ( quelle che il Papa e non la sinistra ne politica ne sindacale ha denunciato come il pericolo maggiore per il mondo e l’umanità ma l’imbelle sinistra neanche ha saputo raccogliere).
 
Il liberismo è figlio dello statalismo sia storicamente ma ancor più nell’ultimo ventennio in cui dalla Cgil, da Epifani a Patta e Camusso, ma poi anche dalla Fiom e Rinaldini sono venute le anguste riflessioni nel segno del  “revisionismo storico”in cui si annida ed una sua forma il “revisionismo teorico”, propugnando una c.d. e pseudo “nuova cultura” nell’abbandono della critica dell’economia politica e del diritto dello stato, ripudiando la critica marxiana della storia e “TUTTA” LA STORIA DEL 900, CON TUTTE LE SUE LOTTE DI CLASSE, LE SUE CONQUISTE, L’ANTIFASCISMO, ECC.: insomma propagandando l’armamentario dei “fan e dei “patiti”del “post-moderno”, del “post-fordismo”, della “fine dello Stato”, della “fine del lavoro”(come dice d’Albergo).
Ma gli arruffoni sono molti. Solo arruffoni come quelli del
Manifesto possono intervistare il pseudo socialista PSI Ruffolo e stare a sentirlo dire che “il capitalismo da manageriale è diventato capitalismo finanziario negli ultimi 20 anni“(grazie a chi ha cancellato storia e memoria, si fa credere una “cosa” di fine secolo 800 come fosse di fine secolo 900!).
 
Ancora. Solo un Sergio Cesaratto puo scrivere sempre su il Manifesto – dove la marmellata culturale la fa da padrona – che “nella disciplina delle relazioni internazionali” vigono solo “due impostazioni: quella liberale e quella realista“.
Così col Manifesto e con Cesaratto si conferma quanto 
d’Albergo, qui sopra, denuncia come “la rimozione del marxismo“.
Una rimozione che attribuiamo anche a keynesiani (tralasciando il post-anti-marxismo di neofiti del keynesismo come Bellofiore che non riteniamo “serio”) che non sottolineano come la teoria di Marx dello sviluppo capitalistico anticipa molte teorie moderne dello sviluppo a lungo termine, cioè delle teorie del ristagno di Keynes e Hansen, quelle della JoanRobinson sulla disoccupazione strutturale e le teorie dello sviluppo ciclico di Schumpeter il quale  per altro afferma : “ci sono teorie che subiscono eclissi (inevitabili nel tempo) , ma risorgono periodicamente, che per questo meritano di essere chiamate grandi…che legano la grandezza alla vitalità… termini che indubbiamente si applicano alla teoria di Marx che sempre risorge.
 
Dimenticandosi che la teoria di Marx è la teoria che “sta è all’origine della macroeconomia”  (L. R. Klein) ci sono keynesiani che partecipano di fatto a quella “rimozione del marxismo” non cercando interlocutori marxisti e non dialettizzandosi con essi, come ci pare faccia anche Halevi (diversamente da come erano costretti a fare anche FedericoCaffè o Siro Lombardini che Haleviconsidera suoi maestri); Halevi che come ci ha detto lui stesso, stima moltissimo d’Albergo e di cui abbiamo molto rispetto (si veda i nostri “Dialogando con Halevi sotto le macerie della democrazia“) semplicemente perchè non è un mistificatore, diversamente da quelli che mistificano il keynesismo come marxismo o sostituto di esso (e noi ce la prendiamo solo con i mistificatori – come in campo giuridico è il Gianni Ferrara  -, con gli altri dialoghiamo). 
In tal modo, come abbiamo spiegato estesamente in altro scritto mail, ci sembra che Halevi finisca anche lui, volutamente o meno, alla rimozione del marxismo di cui ci da un saggio il
 Cesaratto, sempre e come spesso capita su il Manifesto,  che non sa – o non vuole dirlo per non compromettersi rispetto i poteri e o gli accademici dominanti – che le scuole di pensiero  delle relazioni internazionali non  sono due ma TRE. 
 
1) La scuola realista (tra i suoi seguaci H. Kissinger) etichettata anche come “mercantilista” e che vede un mondo composto di grandi imperi e potenze; 
 
2) La scuola liberale che enfatizza una visione etica, umanitaria ( compreso l’umanitarismo di guerra o guerra umanitaria) normativa o procedurale (confacente a quella che d’Albergo qui sopra, critica come “democrazia procedurale di stampo anglosassone imperniata sull’immunità del potere economico-finanziario e il vuoto nominalismo dei diritti a favore dei ceti alti, che la nostra Costituzione ha sostituito con la democrazia partecipativa”), che preme sui diritti umani e la cui evidente scarsa nella comprensione dei rapporti internazionali la porta alle ripetute violazione del diritto internazionale  ma anche ad una parziale visione realista, dove gli stati e gli uomini nella ricerca del potere e della sicurezza agiscono  immoralmente, ritenendo, quindi, che vada corretta “moralmente” anche con l’uso della forza, della violenza e della guerra;
 
3) LA SCUOLA MARXISTA, dei rapporti internazionali, che parte da posizioni diverse dalle altre due.
La scuola marxista considera imprescindibile il contesto globale dei rapporti dialettici tra gli stati, in cui si annoverano la dipendenza e la diseguaglianza dei rapporti come fattori principali. Ma distinguendosi dalle altre due NON HA COME PUNTO DI PARTENZA NE’ L’INDIVIDUO NEL MERCATO NE’ LO STATO NELL’ARENA INTERNAZIONALE.
 
Al suo centro, nel periodo contemporaneo, c’è il capitale, non inteso però soltanto come entità materiale, ma anche con i rapporti sociali di produzione tra le classi, in cui i conflitti oltrepassano anch’essi le linee nazionali
Ed infatti, oggi come oggi, ben si vede che E’ IL MODO DI PRODUZIONE CHE DA IL SEGNO ED IL SIGNIFICATO AI RAPPORTI CONFLITTUALI TRA GLI STATI E DUQNUE ALLA POLITICA ESTERA DI CIASCUN PAESE.

Il pensiero marxista sui rapporti internazionali insiste sulla loro storicizzazione,sicché diversamente ad esempio da quello realista, distingue tra l’espansione e la conflittualità nell’epoca capitalistica da quella pre-capitalistica, usando il termine imperialismo solo per il periodo in cui vige il modo di produzione capitalistico,e non per quando gli stato cercavano semplicemente di espandere il proprio potere e controllo territoriale e per una generale aggressività innata tra gli uomini. Sicché, similmente, l’imperialismo non può essere limitato al mero colonialismo, che vi era in alcuni casi anche prima del capitalismo.
Non è riducibile ad economicismo e determinismo(cioè al solo predominio degli interessi economici nella formazione della politica estera degli stati) ne a terzomondismo.
Inizia con la borghesia dappertutto portata a “FICCARSI, STABILIRSI, STRINGERE RELAZIONI” inevitabilmente creando “un mondo a propria immagine e somiglianza” (Marx-Engels- Manifesto del Partito comunista)

Si sviluppa con Lenin che rende visibile e comprensibile la miriade di fenomeni a cui ci si trova di fronte e connessi e sono parti di una stessa realtà sociale, dando “un quadro generale del sistema capitalistico mondiale nei suoi rapporti internazionali” (Lukacs- 1970), per cogliere “la realtà del processo complessivo, la totalità dello sviluppo sociale” mondiale, tappa per tappa ma senza perdere ogni sfumatura di ciascuna realtà concreta e nazionale.
Concentrazione della produzione; fusione delle banche; esportazione dei capitali che avrebbe accelerato lo sviluppo capitalistico in generale, ma anche il parassitismo nei paesi esportatori; divisione del mondoda parte della grandi società per azione (capitalismo anonimi  transnazionali); divisioni del mondo da parte delle grandi potenze: queste le cinque caratteristichedell’imperialismo fase suprema del capitalismo, individuate da Lenin collegando ad esse una crescente interconnessione dello stato e della economia per proteggere e sostenere l’espansione economica e delle multinazionali.

In piu Lenin contestualizzava questo come la fase “piu recente” e non ancora “finale”, e le nuove tappe preconizzate da Lenin e da quella che definisce la legge dello sviluppo ineguale, si sono viste nel secondo dopoguerrra, fino all’oggi quando è solo grazie alla scuola e all’interpretazione marxista dei rapporti internazionali che si può capire e cogliere che con le imprese transnazionali l’imperialismo e il capitale finanziario suo aggressivo protagonista, non esporta piu solo i capitali ma esporta i rapporti sociali e il sistema di produzione e di riproduzione capitalistica. Spesso precedendo anziché seguire l’intervento militare che in ogni caso esplicita solo in modo piu eclatante la unilateralità dominante di un potere che coniuga i contenuti di un dominio che è intrinsecamente espressivo di un imperialismo sia politico che economico, disvelando le ambiguità tenute nascoste dietro la enfatizzazione della globalizzazione volta ad imporre l’oppressione di un potere di classe con l’esportazione dei rapporti sociali e di produzione capitalistica, nel quadro di una conflittualità intercapitalistica economica e politica che talvolta assume le forme della lotta armata intercapitalistica diretta o indiretta e che assume anche le forme dell’intervento militare, coperto da neologismi mistificanti quale l’intervento militare c.d. “umanitario”.

Immunità dei poteri e delegittimazione dei dirittiultima modifica: 2011-08-28T00:25:00+02:00da iskra2010
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