Interdipendenza tra lotta sociale e proporzionale e negazione democratica del sistema Tedesco

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di Angelo Ruggeri

Questione democratica e questione istituzionale 

Le ragioni di classe del maggioritario e l’improponibilità democratica del “sistema tedesco” o “di Bonn” nato nel segno non della democrazia ma dell’atlantismo e detto Kanzlerprinzip e Führerprinzip, cioè principio del Furer

<< Au fond  la cosa non ha importanza. (…) non abbiamo bisogno di nessuna popolarità, di nessun support di qualsiasi paese (…) la nostra posizione è totalmente indipendente da miserie del genere . Da questo momento noi siamo responsabili solo di noi stessi (…). In che modo gente come noi , che fugge come la peste le posizioni ufficiali , può stare in un “partito”? Che ci fa a noi che sputiamo sulla popolarità, che dubitiamo di noi stessi quando cominciamo a diventare popolari, un “partito”, cioè una banda di asini che giura sulle nostre parole, perchè ci ritiene suoi pari ? Veramente non è una perdita, se non passiamo più per la “esatta e adeguata espressione” di queste stupide bestie con le quali questi ultimi anni ci hanno mescolato>> ( Lettera di Engels a Marx,13 Febbraio 1851, in K. Marx, F.Engels, Opere, vol. 38, pp.208 –209, Editori Riuniti, Roma,1972-1990).

 

Vi è stretta interdipendenza tra lotta di classe e lotta nelle istituzioni. I modelli costituzionali dell’Italia (1948) e della Germania di Bonn (1949) hanno dato luogo a forme di stato e di governo tra loro contrapposte. Per questo i comunisti non possono invocare, per il superamento del bipolarismo, il modello di legge elettorale di Bonn, a prescindere dal “cancellierato.

 

Si deve riproporre senza mediazioni a priori la proporzionale “integrale” contro ogni altro metodo.                                                       

Per il primato delle assemblee elettive

Lotta di classe e lotta nelle istituzioni. Se si vuole andare al fondo dei problemi di legittimazione e rilancio del ruolo dei comunisti in Italia e in Europa, e delle difficoltà che si trascinano nei vari sistemi sociali da oltre un ventennio pur in differenze attestate dalla “sinistra estrema” in Germania e dagli spezzoni di partiti comunisti in Italia, sembra indispensabile uscire dal contingentismo e dal pragmatismo dell’analisi giorno per giorno con lo sguardo alle scadenze elettorali, che si susseguono ininterrottamente (elezioni comunali, provinciali, regionali, parlamentari nazionali, parlamentari europee) e sono prese come alibi per insistiti e vani tatticismi.

Per l’uscita dal pantano in cui si è ridotta, per un complesso di cause, la politica italiana, occorre inserire le scelte per le battaglie elettorali – ed anche per adottare leggi elettorali coerenti con una strategia di lotta sociale e politica non subalterna alla “governabilità” imposta dall’ideologia di tutti gli avversari del movimento operaio e dei gruppi sociali “deboli” – in un quadro di principi che ricollochino la rappresentanza politica del lavoratori e dei loro potenziali alleati contro le devastazioni materiali e morali del capitalismo internazionale e nazionale nella stretta interdipendenza tra lotta di classe e lotta nelle istituzioni. E occorre respingere ancora e con più determinazione l’idea che si debba prospettare una cosiddetta “cultura di governo” per adempiere alle necessità di presenza coerente delle forze politiche nate e consolidate non già “per difendere i diritti”, come si recita passivizzando le masse, ma per ricostituire le basi nei rapporti di forza su cui si collocano, in drammatica diseguaglianza, i “poteri sociali” prima che “politici” delle masse, frammentate ma ben lungi dall’essersi estinte.

È infatti singolare come sia diventato di moda il termine “estinzione” – rivendicato dalla cultura marxista nel traguardare il socialismo alla fase di estinzione del diritto e dello stato, tra lo sconcerto di tutte le culture sia reazionarie e conservatrici, sia liberal-socialiste e socialdemocratiche – con l’obiettivo di demonizzare viceversa l’idea della rivoluzione sociale e della lotta di classe, identificando nella crisi del “socialismo reale” l’estinzione dei fondamenti del marxismo, e di lì procedendo in modo incalzante con gli slogan sulla questione dello stato, addirittura della estinzione del lavoro, dietro lo schermo della globalizzazione finanziaria ed economica enfatizzata da tutte le forze non solo di destra, ma anche di sinistra – con una punta di incontenibile compiacimento quest’ultima – dimenticando come in tutto il XX secolo la cultura marxista aveva corroborato a livello teorico le lotte di massa sulla base della critica del capitalismo monopolistico di stato e dell’imperialismo, nella chiara consapevolezza che lo stato fosse divenuto già da tempo una sfera di influenza del potere del capitale finanziario prima che industriale, e che fosse in atto una delle fasi del controllo mondiale del rapporto economia/politica.

Riunificare la classe nei territori

Nelle attuali condizioni quindi, per restituire coerenza al ruolo della lotta politica di movimenti e partiti comunisti e popolari nelle istituzioni e per premere sul complessivo sistema politico-istituzionale, occorre ricreare le premesse di riunificazione nei territori (e quindi in tutti i luoghi di lavoro oggi resi flessibili alle esigenze a profitto delle imprese sia transnazionali sia della galassia delle piccole e medie imprese) di quella massa di lavoratori privati contestualmente della necessaria capacità di elaborazione di un ruolo di “intellettuale di massa”, perché disarmati da quella lettura anticomunista della crisi del “socialismo reale” con cui si è cercato di oscurare che compito del comunismo era e rimane il controllo democratico del sistema di accumulazione della ricchezza, non quello di fare di un nuovo totalitarismo lo strumento per cancellare le libertà individuali.

Il rapporto governanti-governati: Questione cruciale

Si è così fatta scomparire dal dibattito imposto dalla ricerca di un rapporto coerente tra socialismo e democrazia politica la questione cruciale – proprio per la conclamata democrazia – del rapporto governanti-governati, che in tutto il mondo occidentale si è andato sempre più divulgando e irrigidendo con una varietà di soluzioni di “potere dall’alto, teorizzando una cosiddetta “democrazia costituzionale” portatrice di libertà “fondamentali” tra le quali viene sublimata la “libertà economica”, fonte della disuguaglianza tra i “poteri sociali” a detrimento delle altre libertà costitutive di un “catalogo” affidato alla tutela delle corti giudiziarie di vario livello. Ciò nell’occhiuta preoccupazione che i soggetti portatori di diritti individuali, ma appartenenti alle classi subalterne, riescano a togliere carattere “cartaceo” a tali cataloghi, facendo leva sull’autonomia sociale e sulle forme di partecipazione effettiva alla creazione delle premesse reali della legittimazione dei vari diritti della persona, “elencati” con tanto sussiego nelle “carte” dei diritti, nei manuali di diritto, e nei preamboli programmatici dei partiti dominanti.

Il revisionismo storiografico in corso ha perciò puntato sull’omologazione “totalitaria” di fascismo, nazismo e comunismo, giungendo al punto di oscurare il principale punto e obbiettivo comunista, cioè l’attacco alla proprietà privata compiuto con il sistema collettivistico, risultando più efficace quella esaltazione a sé stante dei “diritti individuali” propri della cultura liberal-liberista, che occulta, dietro il nesso diritti civili/diritti politici/diritti sociali, i valori di una democrazia “procedurale” che mantiene le diseguaglianze nei rapporti di classe, sì che solo i portatori dei diritti di proprietà e di impresa – i “diritti economici” di libertà – hanno le garanzie effettive di tutela o degli stessi diritti civili e politici.

Autonomia comunista nell’analisi dello Stato

Si spiega così perché rischia di produrre effetti esteriori e comunque soltanto marginali la denominazione (peraltro sempre più sopportata) di “comunisti” in soggetti che non si spingono oltre la “difesa” (spesso solo verbosa) dei diritti, rimanendo entro la fortemente simbolica, ma strategicamente riduttiva, concezione dello “stato sociale” che si configura come obiettivo di lotta anche dei comunisti solo se considerato come componente di una politica sociale che contesti e colpisca, con una politica economica globalmente mirata, il potere di produzione proprio del neocapitalismo, potere che – in nome del primato della “economicità” sulla “socialità” – condiziona anche i criteri della spesa pubblica in una logica di “aziendalizzazione” dello stato e di quella parte di organizzazione pubblica sopravvissuta alle “privatizzazioni”.

I comunisti devono perciò qualificare autonomamente quella concezione programmatica che, diversamente dalle analisi che a “sinistra” fanno della globalizzazione una “mitica” rappresentazione del capitalismo come struttura organica pervenuta al superamento delle contraddizioni, ponga il suo impianto sulla valutazione della realtà delle contraddizioni intercapitalistiche (interimperialistiche) riflettentisi sullo stato, che non è estinto, ma perde quella “esclusività” di potere sovrano (enfatizzato peraltro dalle concezioni di tipo “giuridico-formale”), sì che tale figura è ancor più sottomessa al capitale che in passato dopo 20 anni di politiche “neoliberiste”.

Ne viene che la necessaria difesa dagli attacchi delle forze conservatrici deve riguardare il potere sociale e politico del movimento operaio che è colpito nei diritti dei singoli in quanto delegittimato dall’impostazione di una lotta per la trasformazione dei rapporti economico-sociali, contrattaccando sul suo terreno proprio il capitalismo, senza di che verbosa e velleitaria, ma in definitiva mistificatrice, è la rivendicazione di uno stato sociale non esangue e fittizio come è nella storia dei “diritti sociali” dagli anni ’30 ad oggi, per le ondivaghe legislazioni “corporative”, democratiche o reazionarie.

La questione “istituzionale”

Quanto riferibile alla “questione comunista” dal punto di vista “sostanziale” dei contenuti della lotta di classe contro le disuguaglianze e per l’emancipazione, come segnata dalla Costituzione italiana del 1948 (la più avanzata tra quelle dell’Europa occidentale), si riflette sul punto di vista che con gravi incomprensioni viene considerato solo “formale” specie tra i gruppi dirigenti culturali e politico-sindacali di ispirazione marxista, cioè sull’aspetto riassuntivamente “istituzionale” del contesto in cui si svolge la dialettica sociale politica per tradurre in azione il programma di lotta, articolabile bensì secondo i termini imposti dalla realtà dello scontro, ma in base ad una linea teorico-politica non circonfusa nelle fumosità di “radicalismo” e di “antagonismo”, quasi del tutto assenti infatti nelle fasi di impegno per l’attuazione della Costituzione, soprattutto per il controllo sociale e politico del sistema delle imprese private e pubbliche.

La questione “istituzionale” appare così molto meno intricata nella sua funzione e nella sua portata di quanto artatamente fa credere la vulgata della cultura filosofica, politica e giuridica delle forze dominanti, e sta ai comunisti di mettere in evidenza la differenza che c’è tra la linearità del nesso tra riforme economico-sociali e organizzazione della democrazia sociale e politica nella concezione marxista dei rapporti tra società e istituzioni rappresentative, e la tortuosità deliberata e consapevole delle costruzioni – perciò intitolate alla c.d. “ingegneria istituzionale” – di marchingegni manipolatori in cui sono versati pochi “addetti ai lavori” volti a spiazzare sia il mondo della cultura, sia larga parte dei gruppi dirigenti politico-sindacali, e la quasi totalità degli stessi militanti (a tacere di chi si affida al “senso comune”).

 

Una progettualità di trasformazione della società comporta quella di una trasformazione dell’organizzazione del potere secondo l’indicazione di una “Repubblica fondata sul lavoro

Per il primato delle assemblee elettive

La prova di quanto accennato è insita nella chiarezza di una precisazione preliminare, che comporta da un lato l’inconfondibilità della collocazione dei comunisti sul terreno e sociale e politico nel ruolo non semplicemente di “sinistra”, ma di “estrema sinistra”, così come nella classificazione consueta negli anni 1945-1992 (pur con le interessate “attenuazioni” degli anni ‘80); e dall’altro la peculiarità di una concezione di strategia istituzionale fondata sulla trasformazione del rapporto tra “governabilità” e “rappresentatività” del sistema politico, rovesciando i due termini in nome della democrazia sociale e politica, e sul superamento del primato del potere esecutivo per fare delle assemblee elettive – a cominciare dal parlamento, compreso il caso del vigente bicameralismo “uguale” (o partitario) – la sede “centrale” delle decisioni, onde far prevalere la domanda sociale, bloccata dal parlamento “sovrano” della forma di governo di tipo “liberale”, oltretutto nel nome sempre più svilito dello “stato di diritto”.

Si tratta di due cardini essenziali e irrinunciabili per la proposizione della “questione comunista”, perché una progettualità di trasformazione della società comporta quella di una trasformazione dell’organizzazione del potere secondo l’indicazione di una “Repubblica fondata sul lavoro”, tanto più dopo i fallimenti dell’Europa continentale dei governi parlamentari liberali, la cui debole “autoritarietà” ha ceduto sotto i colpi di un totalitarismo portatore peraltro del medesimo interesse di classe: donde la scelta insistita e generalizzata dei comunisti per l’adozione del metodo elettorale di tipo “proporzionale” in senso nettamente contrario a quello di tipo “uninominale/maggioritario” concepito per l’affermazione dei “notabili” della politica, sia – e più visibilmente – nella fase di dominio pressoché totale della borghesia, sia – più cripticamente – nella fase del suffragio universale suscettibile di contenere il primato dei notabilati con il ricorso alle manipolazioni escogitate proprio per eludere l’espressione genuina della sovranità popolare.

I sistemi politici prima e dopo i comunisti

Le ragioni di classe del maggioritario

Per non incappare nell’indecifrabilità delle manipolazioni, occorre quindi richiamarsi alle vicende storiche dei sistemi politici, prima e dopo l’entrata in campo oltre che dei partiti socialisti, dei partiti comunisti, cioè prima e dopo il 1919 che – unitamente al 1946, anch’esso successivo ad una seconda guerra mondiale – rappresentano i due spartiacque per comprendere il rapporto tra lotta di classe e sua articolazione politico-istituzionale. Ciò che consente di porre un primo punto fermo a proposito del nesso inestricabile tra forma di governo e metodo elettorale: in quanto nell’epoca precedente il 1919, nei paesi dominati dalla borghesia, era stata acquisita la cultura del prototipo inglese (c.d. “Westminster”) con il sistema uninominale-maggioritario a un turno e senza ballottaggio, volto a garantire che la c.d. “alternanza” tra due partiti rendesse immune il sistema socio-politico di tipo “liberale” (anche in presenza del partito “laburista”, succeduto al partito liberale) dalla pressione di “minoranze” capaci di incunearsi tra gli esponenti del “bipartitismo”, solo se si fosse introdotto il metodo proporzionale “puro” (cioè non manipolato): donde la continuità storica in Gran Bretagna di un metodo maggioritario che si regge sulla convergenza ideologica dei partiti della “alternanza” nella contesa limitata alla “gestione” del potere, con riformismi comunque compatibili con la stabilità degli interessi del capitalismo in tutte le fasi, fino ad oggi.

Pertanto, con la sola eccezione di una variante del “maggioritario” (imperniata sul voto a due turni e con ballottaggio), tale metodo è valso ad equiparare al sistema inglese di governo, c.d. di “gabinetto” caratterizzato dal “premierato”, il sistema di governo notoriamente “presidenzialista” tipico degli USA, al di là delle differenze insite nella natura federale di questo stato e della rigidità della Costituzione introduttiva per la prima volta di una Corte Costituzionale: sicché i cantori delle “due più grandi e classiche democrazie” (compresi intellettuali di sinistra) hanno sempre invocato, e continuano con accentuata insistenza oggi, di copiare il sistema maggioritario o – almeno – di escogitare metodi elettorali manipolatori in grado di sortire gli stessi effetti del “maggioritario”. Tale insistenza è dovuta a ragioni che non sono intrinsecamente di fondamento politico-istituzionale, ma ben più radicatamente di classe, poiché non solo in Gran Bretagna e negli USA si è ben lungi dal passare al metodo proporzionale per salvaguardare la “governabilità” in virtù dell’esistenza di un partito solo al governo, ma – fatto ben più essenziale – le società inglese e nordamericana non presentano “fratture”, antagonismi di classe organizzati, cioè sono – come le definisce la sociologia politica – “omogenee”, a differenza delle società dei paesi dell’Europa continentale, percorse da diverse cause di conflitto sociale e culturale tra cui prevalgono quelle di classe, perciò definite “eterogenee”, e non addomesticabili con il metodo maggioritario, salvo ricorrere appunto a manipolazioni che comportano però, va subito detto – lo snaturamento delle forme di governo parlamentare di tipo liberale sino al caso limite dell’avvento del fascismo e del nazismo con un partito unico, non solo al governo, ma nell’intero sistema politico.

I diversi tragitti di Italia e Germania

Qui si innesta storicamente l’introduzione del metodo proporzionale, destinato a segnare più spiccatamente i tragitti controversi e tuttora aperti del caso italiano e del caso germanico, entrambi a partire dal 1919, con l’impatto rispettivamente nel totalitarismo fascista e nazista, e con una riapertura profondamente diversa dopo il 1946, per la sconfitta del nazi-fascismo, quando cioè le vicende sociali e politiche nei due ordinamenti fanno registrare il segno della diversa dinamica impressa al conflitto sociale dalla presenza sia dei socialisti e socialdemocratici, sia dei comunisti, in più o meno aspra contesa tra loro, vuoi dopo la prima guerra mondiale, vuoi dopo la seconda.

Una prima differenza

sta nel fatto che in Italia la proporzionale è stata introdotta nel 1919 dalla borghesia nel timore che il “maggioritario”, nella situazione sociale di quel momento, potesse addirittura capovolgere a favore del partito socialista e del neonato partito popolare gli esiti elettorali della fase precedente la guerra, come prova il fatto che in virtù della proporzionale appena introdotta i liberali persero per la prima volta la maggioranza parlamentare, essendosi rivelati i due partiti di massa i potenziali protagonisti di una svolta che – nell’asprezza di una crisi di regime che ne è seguita, per la divisione ideologica di cattolici e socialisti – ha poi segnato di sé tutto il periodo che va dal 1919 al 1945.

Una seconda differenza

sta nel fatto che in Germania – quella della tanto (eccessivamente peraltro) enfatizzata Costituzione di Weimar – il metodo proporzionale è stato introdotto in contraddizione con il carattere verticista di un sistema istituzionale che culminava nel primato del capo dello stato, a suggello di una istituzionalizzazione del primato di un “centro” socialdemocratico e cattolico pregiudizialmente contrario alle estreme comunista e nazionalsocialista, configurandosi in tal modo per la prima volta quella strategia anticomunista che discendeva dalle proiezioni nell’Europa continentale della nuova dialettica sociale e politica aperta dalla Rivoluzione d’Ottobre con la nascita dei partiti comunisti, e con la diaspora tra socialisti e comunisti destinata a tradursi in differenze strategiche, comprese quindi le conseguenti prospettive di politica “istituzionale”.

Quel che però importa rimarcare è che – al di là della lettura delle cause e degli andamenti delle diverse crisi dello “stato liberale” in Italia, e dello “stato sociale” in Germania – il metodo proporzionale scelto in contrapposizione al metodo uninominale maggioritario ha di mira e riesce a contrapporre la “rappresentatività” alla “governabilità”, poiché, se, come dimostra la storia ininterrottamente, compresa la situazione odierna – la società è “frammentata” ed “eterogenea” come in Europa, a differenza che in Gran Bretagna, solo il metodo proporzionale esalta anziché soffocare il ruolo del pluralismo sociale e politico: ma, va ben sottolineato, solo se si tratta di proporzionale “pura”, “integrale” o “totale”, senza manipolazioni ispirate a mascherare la ricerca di esiti equivalenti all’uso del metodo che assicura comprovatamente i vantaggi del maggioritario, come completamento organico della forma di governo o del “premierato” o del “presidenzialismo”, entrambi quindi pseudodemocratici e qualificabili come “autoritari”.

Improponibilità per i comunisti del “modello tedesco”

Ora, mentre i modelli costituzionali italiano del 1948 e tedesco della Germania di Bonn del 1949 hanno dato luogo a forme di stato e forme di governo tra loro contrapposte, proprio perché la caduta del fascismo e del nazismo hanno avuto sbocchi sociali e politici caratterizzati dall’opposto ruolo svolto dai partiti sul rapporto tra questione comunista e questione istituzionale, tuttavia – dopo la deriva maggioritaria del 1993 – in Italia ha preso corpo un’inclinazione a invocare il modello di legge elettorale di Bonn con un trascinamento persino di chi nel PRC ha affermato di volere “il superamento del bipolarismo, la conquista di un sistema proporzionale “alla tedesca”” a prescindere dalla natura della forma di stato e di governo ispirati al “cancellierato”, oltre che alla “economia sociale di mercato”.

Se i modelli costituzionali italiano (1948) e tedesco (1949) hanno dato luogo a forme di stato e di governo tra loro contrapposte, perché invocare il sistema elettorale “alla tedesca a prescindere dalla natura di queste?

Bonn nel segno dell’atlantismo

Un chiarimento culturale sia sui profili politici del rapporto tra società e stato sia sui profili “tecnici” (così denominati solo perché più strettamente “analitici”, ma proprio perciò “politicamente” determinati) delle forme della rappresentanza affidate ad una congerie di leggi elettorali (per lo più sconosciute ai filosofi della politica e alla maggior parte degli stessi costituzionalisti) s’impone, se si vuole uscire dalla duplice passività circa la sottovalutazione dei termini dello scontro socio-politico con il dominio della globalizzazione, vista pretestuosamente come “fatale”, e circa l’accettazione delle varianti di leggi elettorali manipolatorie offerte dagli avversari (o da alleati più o meno affini) come basi di accordi che sono scellerati se prescindono dal nesso fra metodo elettorale e forme di stato e di governo.

La ragione che sta alla base di questo richiamo consiste nel fatto che dagli esperti di “ingegneria istituzionale” – tra cui più che i giuristi brillano sempre più i “politologi” – è stata coniata un’ampia serie di marchingegni rivolti ad ottenere che i risultati delle elezioni, comunque imprevedibili, siano il più possibile equivalenti a quelli (in questo caso più facilmente prevedibili) conseguenti all’uso del metodo uninominale/maggioritario, privilegiato in Gran Bretagna e negli USA in funzione delle rispettive forme di stato e forme di governo, la cui stabilità è storicamente garantita dall’assenza di partiti comunisti e dall’emarginazione nel partito laburista delle frange “estremiste”, ciò che è condizione di un’alternanza senza pericoli per il sistema capitalistico ed è presentata come simbolo della “governabilità”. Ora, quel che viene taciuto ai militanti di partito dai gruppi dirigenti che delegano agli specialisti (soprattutto di altro indirizzo culturale) l’elaborazione e la discussione dei metodi manipolatori, è che tali manipolazioni vengono sistematicamente fatte innestandole su un impianto di leggi elettorali di tipo “proporzionale” perché i collegi sono in modo più o meno ampio delimitati per “liste” e non ristretti come quelli per l’elezione di un solo candidato, essendo quei metodi “personalizzati” simili all’uninominale, appunto allo scopo di far prevalere forze moderate e loro rispettivi gruppi di potere “elitario”, falsificando così lo stesso principio del suffragio universale.

E come si spiega allora che fra tali marchingegni volti a inseguire un “bipolarismo” equiparabile al “bipartitismo” anglosassone si insista proprio sul modello di Bonn, parlando del ritorno al proporzionale senza precisare – vuoi per ignoranza, vuoi per disorientamento – che con il concorso del bipolarismo in Germania occidentale si è piegato il pluralismo sociale e politico alle esigenze ideologiche della “stabilità” economica e politica, sia che al vertice del bipolarismo andassero i cristiano-sociali di centrodestra o i socialdemocratici di centrosinistra?

La risposta non può essere data solo circoscrivendo il discorso alle caratteristiche della manipolazione del proporzionale, ovviamente indispensabile, ma risalendo alle cause storico-politiche che hanno fatto diventare il proporzionale manipolato di Bonn il prototipo di sistemi elettorali definiti “misti” appunto perché miranti ad effetti reali propri dei “maggioritari” come emerge dalle analisi fiorite nel ristretto mondo degli specialisti e singolarmente apprezzato persino da Gianni Ferrara (proprio su questa rivista in un’intervista di Pegolo “ad audiendum verbum”, n. 1, 2003), con l’invocazione del sistema proporzionale “con sbarramento”, quale strumento di “incentivazione delle coalizioni” anima del bipolarismo. Si deve infatti sottolineare che all’opposto del caso italiano – segnato da Resistenza, Comitati di Liberazione Nazionale, Assemblea Costituente – la “Legge fondamentale” tedesca è stata elaborata da un organismo ristretto, investito del potere costituente dalle forze di occupazione “alleate”, preoccupate essenzialmente di fare di quello stato “semisovrano” una struttura di potere funzionale all’esigenza (rapidamente maturata dal 1946) di garantire il sicuro impianto delle istituzioni europee nel segno dell’atlantismo: cioè nella logica dell’incombente “bipolarismo ideologico” Est/Ovest durato fino al 1989.

La “Legge fondamentale” tedesca nasce sotto il controllo delle forze di occupazione “alleate”, preoccupate essenzialmente di fare di quello stato “semisovrano” una struttura di potere nel segno dell’atlantismo

Kanzlerprinzip

e Führerprinzip

L’embrione di quelli che si sarebbero poi sviluppati come partiti qualificanti della vita sociale e politica di Bonn, sull’onda della critica retrospettiva alla forma di governo di Weimar, si orientò – con un tipo di dibattito, proseguito nei decenni successivi, sulla preferibilità del sistema maggioritario rispetto a quello proporzionale – verso la “non costituzionalizzazione” del metodo elettorale per una ricerca della opzione tra i due metodi nella prospettiva immediata sia di escludere dalla legittimazione democratica un’estrema destra di ascendenza neonazista, sia di consolidare, con il potenziamento del centro imperniato sul bipolarismo, la forma di governo ritenuta più acconcia a salvaguardare l’”economia sociale di mercato”, e in funzione di essa la stabilità dei governi: cioè facendo del Kanzlerprinzip l’equivalente liberaldemocratico del Führerprinzip, come sottolineano i manuali.

Si è in presenza pertanto di un sistema politico-istituzionale che vede la netta prevalenza nell’esecutivo dell’organo “monocratico” garantito dall’appoggio dei poteri del presidente della repubblica, nonché da una preminenza dei vertici dello stato sul parlamento, sino al punto che il cancelliere può essere tenuto in carica (persino se posto anche formalmente in minoranza) in forza della dichiarazione di “stato di emergenza legislativa” per legittimare l’esecutivo ad attuare il proprio indirizzo legislativo anche senza la fiducia dell’organo legislativo. Né basta, perché in un clima di “libertà politica” tale per cui sia l’elezione del presidente federale sia l’elezione del cancelliere si devono svolgere “senza dibattito”, il consolidamento dei rapporti di potere a favore del vertice è sancito dall’invenzione di un marchingegno contrastante con la “libertà politica” che ha il nome di “sfiducia costruttiva”, con la singolare preclusione di un voto di sfiducia proprio dei sistemi di governo parlamentari, se non preceduto dall’elezione a maggioranza addirittura “assoluta” di un successore: non solo, ma con un completamento della gabbia di protezione del cancelliere in carica, per cui, anche quando sconfitto su una mozione di sfiducia da lui posta, il Capo dello stato può sciogliere la camera legislativa.

La vera natura del sistema elettorale “misto (tipo “mattarellum”)

È a questo punto che rivela la sua vera natura il sistema elettorale “misto” che è innescato su un meccanismo metà uninominale e metà proporzionale, per cui ogni elettore vota su due schede con una clausola di “sbarramento” che decapita la rappresentanza parlamentare. La quale sarebbe legittimata dal sistema veramente proporzionale che è solo la proporzionale pura o integrale, non a caso applicata (con modesto aggiustamento) in Italia sino al 1993, in tutte le elezioni diverse da quelle dei piccoli comuni.

La “sottigliezza” escogitata consiste nella sottrazione, dal numero dei deputati assegnati dal voto proporzionale, dei seggi assegnati e votati nei collegi uninominali con il metodo maggioritario all’inglese (maggioranza “relativa”), con uno “scorporo” per i partiti superanti la soglia del 5% e con la conservazione dei seggi maggioritari eventualmente vinti dai partiti rimasti sotto la soglia stessa, con in più la singolare risultanza di “seggi aggiuntivi” su quelli complessivamente previsti prima del voto (tramite un complicato intreccio tra ripartizione “nazionale” dei seggi, e liste presentate in ciascun Land).

La RFT, che si annette la RDT nel 1990, è stata il punto focale di una restaurazione capitalistica rinforzata istituzionalmente con l’obiettivo di cancellare l’estrema sinistra a favore del centrosinistra

La questione comunista in rapporto alla questione istituzionale si gioca quindi all’interno della visione sistematica dei rapporti che il metodo elettorale ha con il nesso forma di stato/forma di governo, per cui, come documenta la lotta di classe condotta in Italia sino alla deriva finale del 1993 (con il concorso decisivo dei progenitori del PD), la Germania occidentale, che si annette la Germania Orientale nel 1990, è stata il punto focale di una restaurazione capitalistica rinforzata istituzionalmente con l’obiettivo di cancellare l’estrema sinistra a favore del centrosinistra: ciò che in Italia non si è potuto fare con il PCI (al di là della conventio ad excludendum dall’area di governo), proprio perché i comunisti si ispiravano ai principi della forma di stato di “democrazia sociale” – oltre il cd “stato sociale” caro ai socialdemocratici tedeschi e italiani – per il controllo sociale e politico dell’economia, affrontabile con aspre lotte solo sulla premessa di un pluralismo sociale reale, perché pieno e tradotto in un sistema di assemblee elettive “centrali” e non supine ai rispettivi esecutivi, come dimostra tutta la letteratura conservatrice e liberal-socialista contro la “instabilità dei governi”, il “pluralismo estremo”, il “bipartitismo imperfetto”, come lettura artificiosa del contrasto tra centrismo e centrosinistra da un lato e Pci-Psi, e poi solo Pci, dall’altro.

E solo in Germania quindi si è avuta una situazione nella quale la socialdemocrazia si spostava sempre più verso il “centro” con la famosa Bad Godesberg di ripudio del marxismo in concomitanza con lo scioglimento del partito comunista – sulla scia dello scioglimento di quello di ispirazione neonazista – effettuata con il pretesto della incostituzionalità dei partiti volti a pregiudicare o eliminare l’ordinamento fondamentale democratico e liberale (art. 21 della Legge Fondamentale di Bonn).

I comunisti sono “proporzionalisti totali”

Ignorare tutto quel che concerne i rapporti tra struttura e sovrastruttura troppo facilmente accredita classificazioni anguste prive dello spessore sistematico che deve ispirare la strategia dei partiti, a cominciare da quelli comunisti costantemente “proporzionalisti totali” e contro gli pseudo proporzionalismi subalterni alle mene maggioritarie dei partiti “centristi”, tra cui vanno annoverati i socialdemocratici, tesi a rinverdire il parlamentarismo liberale ottocentesco, disponendosi in quella dislocazione “destra” versus “sinistra” che prescinde – negandolo – dal conflitto di classe, adeguandosi al conservatorismo forte della moderna “politologia e sociologia politica” che enfatizza come “conflittuale” la corsa spregiudicata dei gruppi di potere “lobbisti”, e in tal senso contrari alla “partitocrazia” dei partiti di massa, per la presenza tra questi del partito comunista come tipo di formazione che ha fatto trasformare i caratteri della lotta politica e quindi delle forme di stato cui vanno commisurate le forme di governo e le leggi elettorali.

C’è infatti, a riprova, la spinta vincente dei comunisti alla repulsione delle legge elettorale “truffa” del 1953, cui ha fatto da contrappeso il ruolo devastante dei DS (Pds, Pd) nell’introdurre il metodo elettorale “misto”, a sua volta nel 1993, con il parto del “polo berlusconiano” via via consolidatosi a misura della confusione nel “polo” c.d. di “sinistra”: ciò perché, prima di pervenire alla legge elettorale ora vigente, si è fatta una commistione “tecnicamente” diversa ma inquadrabile nella stessa tipologia dei metodi “misti”, compreso quello di Bonn, mescolando uninominale e proporzionale (con il c.d. “mattarellum”).

Basta la clausola di sbarramento, come quella in atto a Bonn, per produrre il tipo di esito che nell’800 si aveva con l’imposizione – più esibita e violenta – della limitazione del suffragio elettorale per motivi di censo o di livello culturale.

Quel che conta, a proposito dei metodi elettorali, è che se ne colga la funzionalità al tipo di sistema politico istituzionale su cui imperniare i rapporti di classe..

Il sistema proporzionale “personalizzato” – chiamato più o meno cripticamente “a correzione”, “a membro misto”, “a due livelli”, “a due voti” – rientra mistificatoriamente nell’ambito delle tecniche elettorali dei “sistemi forti”, da taluno addirittura definiti “dei sistemi maggioritari corretti o ibridi”: per la decisiva ragione che basta la clausola di sbarramento, come quella in atto a Bonn, per produrre il tipo di esito che nell’800 si aveva con l’imposizione (più esibita e violenta) della limitazione del suffragio elettorale per motivi di censo o di livello culturale. Oggi si ricorre disinvoltamente (ma con l’adesione di culture politiche di sinistra) a dare con una mano il diritto di voto, preannunciando poi con l’altra mano che, per la stabilità del sistema, per la sua “governabilità”, la sovranità popolare subirà necessarie amputazioni, prendendosela con quella di destra estrema per più artatamente colpire quella di sinistra estrema.

La Germania post 89

È quello che si sta facendo nella Germania post 89 per la Linke, per cui si è passati dal sistema “a due partiti e mezzo” (cristiano-sociali, socialdemocratici più liberali) al sistema a “due partiti e due mezzi” (per l’aggiunta dei verdi) ed ora “a due partiti e tre mezzi”, appunto per l’ulteriore aggiunta dell’estrema sinistra in qualche aspetto demonizzata come lo erano i comunisti, fino al punto che da oltre 50 anni essi sono messi fuori legge nel compiaciuto silenzio di tutti.

È certo interessante la riflessione proposta in questi giorni da G. E. Rusconi sul senso via via emergente della riunificazione, che sta facendo scoprire cosa si cela dietro le letture di un’esperienza della Germania Est come segnata solo dal regime dittatoriale della SED e dalle malefatte della STASI, in quanto dopo la c.d. “rivoluzione democratica” del 1989 è sorto il problema interpretativo del nesso tra i limiti per l’Est riunificato della “nuova terapia d’urto dell’economia di mercato” e la nostalgia “per uno stato percepito come garante di assistenza sociale e per una società solidale dove la vita non era commercializzata”. Si tratta di un indizio circa la necessità di abbandonare l’atteggiamento acritico che ha indotto ad eliminare il presupposto ideologico dalle analisi della realtà e dai disegni progettuali, girando intorno al problema sollevato dalla “frantumazione della comunità intellettuale comunista che ha condotto alla formazione del Partito democratico”, dove oggi “non c’è più una discussione di tipo culturale”, senza scettiche conclusioni però sulla fine del ‘900 già enfatizzata da altri (come Revelli) e accolto anche da ex comunisti, in una prospettiva di semplificazione acritica, che porta ad invocare una c.d. “nuova cultura politica”, pur di non riprendere gli attrezzi risalenti alla variegata critica marxista, che riconduce ad unità i saperi “specialistici” sottolineati da Asor Rosa come derivati di questa fase storico-sociale.

Aprire la discussione tra i militanti

Tanto più che la prima e più urgente correzione di linea – per tornare ad essere una “estrema sinistra” che ripropone una concezione di democrazia sociale – riguarda quel terreno di intervento politico istituzionale sul quale per coerenza si deve riproporre senza mediazioni apriori tra i comunisti stessi la proporzionale pura contro ogni altro metodo, non solo uninominale stile anglosassone, ma anche in tutte le varianti protese al maggioritario in modo reticente con meccanismi “misti” come quello di Bonn: che è stato invocato nell’elaborazione compiuta nell’estate 2008 da studiosi e dirigenti politici di ben 14 fondazioni “di centrosinistra, di centro, di sinistra”, tra i quali lo stesso Ferrara si è misurato, asserendo testualmente che “è quella vigente in Germania” la forma specifica di una rappresentanza “inclusiva”, atta alle esigenze “della governabilità, della stabilità ed omogeneità dei governi”.

È evidente che per poter riportare chiarezza sull’organicità dei nessi tra metodo elettorale e tipologia democratica la discussione va aperta ai militanti e non rinchiusa nei rapporti fiduciari tra gruppi dirigenti ed esperti selezionati in funzione di intese avviate lontano dalla pressione dei problemi sociali, non dimenticando che altro è elaborare modelli costituzionali con delega “ai professori”, come è avvenuto a partire dal caso di Weimar e si sta proseguendo nel mondo occidentale, contrapponendo teorie sociali e modellini istituzionali; altro è imperniare l’avvio di un processo di trasformazione per via di una costituzione che – come quella italiana del 1948 – è frutto di una convergenza di progetti di nuova società cui la c.d. “governabilità” deve essere subalterna.

Né si tratta di astrazioni perché se tale modello è ancora formalmente in vigore, nonostante la responsabilità delle sinistre che hanno aperto dal 1993 ad oggi la strada ad un costituzionalismo controriformatore, lo si deve alla intuizione di un corpo sociale che – contro i rischi di referendum che non esprimono, come il “voto elettorale”, una volontà di massa produttiva di indirizzi – tuttavia ha saputo impedire la conferma del progetto di revisione costituzionale votato dal centrodestra in un contesto nel quale le differenze dei modelli di centrosinistra, si mantenevano all’interno di un medesimo trend di compressione di tipo autoritativo dell’autonomia sociale e politica del popolo.

Non innamorarsi del modello tedesco…

Ora si tratta di invertire la tendenza di una formazione politica come il Prc che, non paga di aver assecondato l’incontro parlamentare con i partiti “revisionisti” in vista dell’alterazione della forma di governo già da due anni a questa parte, ora, con la disponibilità a seguire l’infatuazione per il regime di Bonn, rischia di contribuire a una dissolvenza che è frutto di una perdita di identità ideologica, proprio nel momento in cui più si confermano necessari in Italia e ovunque il pensiero e l’azione di forze organizzate per la lotta contro le crescenti disuguaglianze e ingiustizie del capitalismo.

La vecchia trappola della “governabilità”

Né minore allarme desta la cultura istituzionale con cui Raniero La Valle ha accompagnato la sua iniziativa socio-politica di fondare il movimento “Sinistra Cristiana” e in questi giorni la proposta di creazione di una “Costellazione democratica” per la salvezza della Repubblica. Dopo aver invocato una riforma elettorale volta alla “proporzionalità della rappresentanza”, egli ha viceversa lamentato che, prima del passaggio all’attuale sovvertimento, abbiamo avuto un sistema elettorale anche “troppo proporzionale”, da cui è derivata “un’eccessiva facilità di avvicendamento dei governi”. Il documento seguito da 500 firme – nelle more di una riforma elettorale a cui si rinuncia e a “legislazione vigente” – invita ad un “patto di legislatura” tra forze che prefigurino una maggioranza parlamentare contraria al centrodestra, distinguendo la maggioranza “governativa”, che si assume l’onere del programma di governo, dalla maggioranza “legislativa”, volta a volta funzionale alla politica, che non coinvolge la fiducia accordata a tutti i contraenti del “patto di legislatura”. Ciò non rappresenterebbe che il rilancio – da sinistra – proprio dei progetti di “governabilità” lanciati da destra sin dagli anni 1960-70, e fatti propri – nel segno del “governo di legislatura” – dal ben noto e colpevolmente dimenticato progetto del “gruppo di Milano” del 1983, ispirato da Gianfranco Miglio, con tutte le conseguenze distruttive maturate dagli anni ’90, dopo l’incubazione degli anni ’80.

La sinistra ha rinunciato alla lotta in nome dei principi della democrazia economico-sociale, puntando ostinatamente alla governabilità. Il che può condurre al primato degli esecutivi contro il parlamento anche senza revisione costituzionale.

Anche qui, come nel caso del PRC, si scinde la questione istituzionale dalla questione sociale, in contrasto cioè con il proposito di stare “dalla parte delle componenti sociali e degli interessi umani più deboli, ai quali ostacoli di ordine economico e sociale limitino la libertà e l’uguaglianza e impediscano il pieno sviluppo della persona”. Perché allora dopo aver simbolicamente evocato il “ritorno alla proporzionale senza snaturamenti maggioritari”, nell’apposito convegno nazionale il relatore Nicola Colaianni ha potuto invitare a “non teorizzare il proporzionalismo puro come DNA della Costituzione”?

Solo con un’operazione ideologica di trasfigurazione della Costituzione del 1948, instaurativa di una “democrazia sociale”, in una costituzione liberaldemocratica come quelle anglosassoni e quella tedesca – in nome di un costituzionalismo continuista e refrattario a fare i conti con la storia sociale – è possibile uniformarsi alla cultura istituzionale che, vuoi nel bipartitismo, vuoi nel bipolarismo, si avvale di una serie di congegni manipolatori volti a distinguere tra minoranza parlamentare (alla Tocqueville) e “pluralismo politico, che implica un’articolazione di minoranze al plurale, come impone il pluralismo sociale se rappresentato con l’unico strumento coerente che è la proporzionale pura. Ma se ci si converte alla liberaldemocrazia si apre – come è già avvenuto – all’arroganza del potere, che si è avvalso della scorciatoia di una sinistra che ha rinunciato alla lotta in nome dei principi della democrazia economico-sociale, puntando ostinatamente alla governabilità. Il che può condurre al primato degli esecutivi contro il parlamento anche senza revisione costituzionale, appunto con il governo di legislatura, per semplice accordo o pactum sceleris tra forze divenute sempre più furiose perché prive di autonoma progettualità.

Interdipendenza tra lotta sociale e proporzionale e negazione democratica del sistema Tedescoultima modifica: 2011-09-17T01:06:00+02:00da iskra2010
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