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Cybergal
L’economia del dono è la categoria della sussidiarietà che sta alla base di una comunità organica tradizionale e di una organizzazione sociale ed economica corporativa e neo-corporativa.
E’ il proliferare delle cooperative sociali del cosiddetto “terzo settore”, che stanno, mano mano, sostituendo il nostro welfare liberale/borghese, con le attività ausiliarie in materia di salute, ambiente, produzione di alimenti, servizi a persona e a famiglia, ecc. .
Il problema di sostanza non è quale sia il livello di qualità delle attività sussidiarie erogate dalle cooperative sociali e se esse siano comparabili rispetto alle medesime prestazioni offerte, o una volta offerte, dal servizio pubblico; ma perché si è introdotto il paradigma economico e culturale del dono alla comunità, che convive con lo scambio capitalistico lavoro/salario/bene/servizio.
E, soprattutto, si è ben operato per creare una categoria che sta in opposizione e contrasto al collettivismo comunista.
Da far dimenticare e cancellare, dalla memoria politica e critica, come le altre: classe, capitalismo, imperialismo, ecc. .
Esempio di operazioni di smantellamento delle categoria e invenzione di altri para/paradigmi: sostituire il concetto economico di lavoratore intellettuale con quello del lavoratore cognitivo, per dare un significato apparentemente innovativo alla medesima categoria di lavoratore, per distinguerla e coniarne una nuova e differente, solo nella forma superficiale.
Così ci sarà un senso di identità neocorporativa speciale, e non la coscienza di appartenere alla medesima classe lavoratrice.
Ricordiamo la contrapposizione fittizia tra garantito e non garantito?
Stessa zuppa, in salsa negriana anni 2000.
Il “dono” reazionario di Zarelli-Negri non sfugge a Cybergal
La nostalgia del dono
di Eduardo Zarelli – 07/10/2011
Fonte: Arianna Editrice
Quando il “mercato” delude (come oggi), si fa ancora più intensa la
nostalgia, e il bisogno, di dono.
Il mercato (nella sua accezione economica, non quello fisico, che ha
ancora un contenuto relazionale forte), è il luogo dell’incontro e
scambio con le merci e gli oggetti. Il dono è il modo dell’incontro
con la vita, e con l’altro. Mentre il modello culturale dominante
indebolisce le relazioni col vivente e l’incontro tra persone per
sostituirlo con la brama del consumo, il dono ristabilisce un’intimità
umana. Avvicina le persone, consente all’uno, donatore e ricevente, di
vedere il volto dell’altro, anche nel senso di penetrarlo intimamente,
e lasciarsene penetrare.
Agli inizi degli anni ’80 veniva fondato in Francia il M.A.U.S.S.
ovvero il Movimento Anti Utilitarista nelle Scienze Sociali. Il
Movimento nasceva dalla necessità di compiere un’opera di critica
della ragione utilitarista, che era divenuta (e che continua ad
essere) la filosofia sociale ed economica dominante. Al concetto
dell’homo oeconomicus moderno, tutto compreso in un paradigma
egoistico, funzionale, razionale, e dunque utilitarista (è l’egoismo
del macellaio a far sì che la carne che vende sia la migliore al
miglior prezzo possibile, sosteneva Adam Smith), gli antiutilitaristi
contrappongono la riscoperta dell’opera di uno scienziato di inizio
secolo, Marcel Mauss, centrata sulla possibilità di ricreare, così
come era stato per le società arcaiche, un individuo olistico, in cui
l’economia diventa un elemento all’interno di un tessuto di
interrelazione e interdipendenza tra i componenti di un gruppo o di
una società. Alain Caillé (uno dei fondatori e massimi esponenti del
M.A.U.S.S.) ha rintracciato nella “economia del dono” questa
possibilità. Dono significa donare, ricevere, restituire, ossia
costruire una intesa tra individui, in cui, contrariamente ai dettami
dell’economia come la conosciamo, lo scambio può essere non razionale
e dunque non avvenire alla pari (esempio classico: il prezzo si forma
dall’incontro aritmetico fra domanda e offerta). Al contrario, in
Caillé lo scambio non è dominato dalla razionalità ma dalla relazione.
L’economia classica prevede una serie di rapporti di forza (la domanda
e l’offerta dell’esempio) in perenne ricerca di equilibrio (la
formazione del prezzo), soddisfatto il quale il legame si scioglie.
Nell’economia del dono, è appunto il continuo disequilibrio
determinato dal dono a costituire necessariamente una serie di
relazioni, aspettative, interdipendenze, su cui si fonda la formazione
dell’homo politicus. Immaginiamo che un soggetto paghi per un bene o
una prestazione un prezzo maggiore del suo valore effettivo. Crea così
un vincolo reciprocitario verso la controparte, un legame, che si
protrae oltre la portata economica dello scambio, un debito morale che
prima o poi potrà essere saldato. Immaginiamo che tali relazioni si
instaurino ad ogni scambio tra tutti i membri di una comunità. Si
verrà a definire in questo modo un altissimo livello di coesione e
connessione sociale. Ormai esistono solo echi di comunità che si
sostengono su un’idea o un ricordo di economia del dono, ma è altresì
interessante gettare il nostro disincantato occhio occidentale verso
oriente.
Il Bhutan, un piccolo Stato localizzato nella catena dell’Himalaya, ha
deciso che il principio guida nella sua politica economica sarà la
ricerca della felicità del proprio popolo e non più la ricerca della
crescita economica così come misurata dal Pil. L’indicatore della
“Felicità interna lorda” è stato ideato nel 1972 dall’ex re del
Bhutan, Jigme Singye Wangchuk. La felicità interna lorda, sosteneva,
poggia su quattro pilastri: promozione della sostenibilità,
conservazione e promozione dei valori culturali, conservazione
dell’ambiente naturale, istituzione di un buona opera di governo.
Il PIL è un indicatore impreciso dello stato dell’economia e della
società poiché misura solo le transazioni commerciali mentre
esternalizza i costi sociali ed ecologici. Considera la distruzione
come sviluppo e la regressione nel benessere dei popoli come
progresso. Inoltre considera misure correttive, per esempio l’aumento
dei costi per la sicurezza o la riduzione delle cure sanitarie, come
“crescita” piuttosto che come costi. Se questi costi fossero invece
presi in considerazione, la crescita sarebbe negativa e lo sviluppo
economico sarebbe antieconomico. Il Pil distrugge l’autosufficienza,
crea debito e dipendenza da costose importazioni.
L’agricoltura industrializzata (chimica) è per l’agricoltura ciò che
il Pil è per l’economia. Come il Pil, esternalizza i costi dello
sconvolgimento dei processi ecologici e della disintegrazione della
società. La distruzione della fertilità del suolo compromette la
produttività agricola, il decadimento dei valori sociali mina la
capacità produttiva delle comunità rurali. La non sostenibilità
dell’agricoltura chimica è basata su semi costosi e non rinnovabili,
su costosi prodotti chimici che esauriscono il già scarso capitale del
contadino, su monocolture che aggravano ulteriormente i rischi di
perdita del raccolto a causa di parassiti, malattie e cambiamento
climatico con conseguenza della riduzione della nutrizione per ettaro.
Ciò che infatti viene regolarmente ignorato nella narrazione sulla
rivoluzione verde, cioè lo sviluppo produttivo indotto in modelli
economici di sussistenza e reciprocità, è il calo della produzione
globale, l’aumento dei costi di coltivazione e la distruzione del
suolo. In controtendenza, espressione di un paradigma al tempo stesso
arcaico e futurubile, il modello di una agricoltura biologica
espressione della tradizione locale offre ciò che l’indicatore della
felicità interna lorda è per la società. Entrambi massimizzano il
benessere delle persone nel bene comune delle loro comunità. L’attuale
primo ministrò del Bhutan ha infatti dichiarato: «Il nostro obiettivo
è diventare il primo Stato sovrano al mondo ad essere completamente
biologico nella sua produzione. L’etichetta “cresciuto in Bhutan” sarà
sinonimo di coltivazione biologica. Lo sviluppo del biologico è la
chiave per mettere in pratica in questo paese l’indicatore della
felicità interna lorda».
Le domande che noi occidentali possiamo quindi porci sono allora
queste: cosa abbiamo da guadagnare da un modello di sviluppo come
quello capitalistico finanziario? La nostra cultura e storia non trova
forse corrispondenza con ideali che si accostano maggiormente ad
economie del dono o similari, basate sulla collaborazione, la
reciprocità, la coesione, la comunità?
In un contesto di economia della decrescita, comunque della
“post-crescita” o come è stato magistralmente definito, di “piacere
della misura”, ovvero un sistema economico che produca più valore e
meno merce, l’economia del dono può essere il paradigma della sobrietà
e del “bene comune” su cui riflettere ed essere in definitiva più
persuasivo dello sviluppismo consumista dominante.