Come morì Giuseppe Pinelli, squarci di verità da alcune carte dimenticate

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Giuseppe Pinelli precipitò dal quarto piano della questura di Milano pochi minuti dopo la mezzanotte del 15 dicembre 1969
Saverio Ferrari  –  Liberazione  –  17/12/2011

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Giuseppe Pinelli precipitò dal quarto piano della questura di Milano pochi minuti dopo la mezzanotte del 15 dicembre 1969. Ferroviere di quarantun anni, storico dirigente del Circolo anarchico Ponte della Ghisolfa, era stato fermato dal commissario Luigi Calabresi la sera del 12 dicembre, qualche ora dopo la strage di piazza Fontana, e trattenuto illegalmente.
Come più volte è stato raccontato, dapprima si sostenne, da parte dei dirigenti della questura, che Pinelli era implicato nella strage di piazza Fontana, poi che, sentendosi perduto, si sarebbe suicidato. La conclusione giudiziaria fu scandalosa. La pietra tombale fu posta nell’ottobre 1975 dal giudice istruttore Gerardo D’Ambrosio con la sua famosa sentenza di proscioglimento, unica nella giurisprudenza italiana, per cui non si trattò né di omicidio né di suicidio. Giuseppe Pinelli, in spregio alle più elementari leggi della fisica e della medicina legale, causa un «malore attivo» fu preda, secondo questa ricostruzione, di un’«improvvisa alterazione del centro di equilibrio», che innescando «movimenti scoordinati» lo proiettò letteralmente fuori dalla finestra. Un fenomeno senza precedenti, mai più verificatosi in nessun altro luogo e in nessun altro Paese. Ma solo quella notte, a quell’ora, in quell’ufficio della questura di Milano, vittima un ferroviere anarchico.
Una ricostruzione palesemente inventata al solo scopo di non portare a processo i poliziotti e i carabinieri responsabili, tra loro il commissario Luigi Calabresi, come testimoniò Pasquale Valitutti, un altro anarchico, che lo vide entrare e non uscire da quell’ufficio prima del “volo” di Pinelli. Un atto di vergognosa sottomissione della giustizia.
Da allora sono state formulate diverse ipotesi sulla fine dell’anarchico. Alcune decisamente fantasiose. Una, in particolare, tra le ultime, ha lasciato tutti esterrefatti. A esternarla non uno qualsiasi, ma addirittura un ex commissario di polizia, Giordano Fainelli, ora in pensione, presente quella notte in questura. In un’intervista rilasciata all’agenzia giornalistica Il Velino, nel luglio 2006, raccontò che «Pinelli era stato lasciato completamente solo» e che «intorno a mezzanotte» gli «venne incontro il collega Mainardi concitatissimo» che gli disse: «E’ scappato Pinelli, non si trova più». Ma la fuga si era conclusa tragicamente: l’anarchico, attaccatosi, per scappare, alla ringhiera di una porta-finestra (secondo Fainelli del terzo piano, mentre Pinelli precipitò dal quarto) era scivolato schiantandosi nel cortile sottostante. Il motivo di questo maldestro tentativo il fatto che non potesse «più negare il suo coinvolgimento» nei precedenti attentati in agosto. Incredibile che a raccontare una frottola di questa portata sia stato un funzionario di polizia, che non solo ha fatto finta di non sapere che per quegli attentati di agosto furono poi condannati con prove inoppugnabili i fascisti di Ordine nuovo, ma che in tutti questi anni ben si è guardato di riferire il suo racconto a un magistrato. 
Uno squarcio di verità, passato sotto silenzio, c’è stato consegnato, invece, da un’altra inchiesta, questa sì incredibilmente dimenticata. Ci riferiamo a un interrogatorio accluso agli atti dal giudice veneziano Carlo Mastelloni nel corso della sua indagine riguardante l’aereo militare C-47 Dakota, in sigla Argo 16, a disposizione dei servizi segreti italiani, caduto il 23 novembre 1973 a Marghera, in cui persero la vita quattro membri dell’equipaggio. Si ipotizzò il sabotaggio da parte del Mossad israeliano come atto di ritorsione per la politica filo araba italiana. Lo stesso velivolo, alcune settimane prima, era stato, infatti, utilizzato per riportare in Medio Oriente cinque palestinesi fermati a Ostia mentre preparavano un attentato contro un aereo della compagnia di bandiera El Al. Ebbene, in una lunga deposizione dell’ex maresciallo Giuseppe Mango, dal 1965 presso la direzione centrale del ministero dell’Interno, rilasciata il 19 aprile 1997 e riguardante il funzionamento dell’Ufficio affari riservati, si parlò anche della morte di Giuseppe Pinelli.
Antonino Allegra, il dirigente dell’Ufficio politico della questura di Milano «fu convocato a Roma da D’Amato», il direttore della Divisione affari riservati, «ed entrambi si recarono da Vicari», l’allora capo della polizia, così disse Giuseppe Mango. «Allegra sosteneva che Pinelli si era appoggiato di spalle alla finestra e che improvvisamente si era buttato giù». Una ricostruzione nuova, mai avanzata in precedenza, in palese contrasto con le deposizione di tutti coloro che si trovavano in quell’ufficio, accompagnata da un ulteriore elemento chiarificatore. «Dal D’Amato medesimo seppi che al Pinelli era stata contestata una falsa confessione di Valpreda, notizia improvvisamente portata da qualcuno, credo dal capitano dei carabinieri il quale aveva fatto irruzione nella stanza piena di personale della questura». 
Evidente la concatenazione dei due eventi. Pinelli di spalle alla finestra era stato violentemente aggredito da chi, attraverso una dichiarazione inventata ad arte, gli contestava la colpevolezza degli anarchici. Una pressione anche fisica. Da qui la caduta nel vuoto. Ma anche la spiegazione dell’assenza sulle sue mani e sulle sue braccia di abrasioni. In quella posizione era caduto all’indietro, a corpo morto. Non aveva neanche potuto tentare di aggrapparsi alle sporgenze del muro. Aveva picchiato sul cornicione sottostante ed era poi finito nel cortile. Forse le cose andarono proprio così. Con buona pace di D’Ambrosio. 

tratto da: http://www.osservatoriodemocratico.org/page.asp?ID=3176&Class_ID=1001

Come morì Giuseppe Pinelli, squarci di verità da alcune carte dimenticateultima modifica: 2011-12-18T22:05:00+01:00da iskra2010
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Un pensiero su “Come morì Giuseppe Pinelli, squarci di verità da alcune carte dimenticate

  1. LETTERAAPERTA A PAOLO CUCCHIARELLIdiJoe FallisiSuPinelliIn questo caso preferisco, piuttosto che contestare la tua, darti direttamente la versione che ritengo io più verosimile. Per sapere da una fonte non poliziesca cosa possa essere successo verso la mezzanotte del 15 dicembre 1969 al quarto piano della Questura milanese, disponiamo di una sola testimonianza utile, le dichiarazioni di Pasquale “Lello” Valitutti, che si trovava in stato di fermo nella stanza accanto a quella in cui avvenne la tragedia. A mio parere non l’hai tenuta nella considerazione che indubbiamente merita. Lello affermò ai magistrati che lo interrogarono di aver visto uscire Calabresi dal suo ufficio una sola volta e di lì entrare e rimanere per tutto il tempo nella stanza dell’interrogatorio. Dunque non è vero, stando alle sue parole di cui mi fido, che al momento della caduta di Pino Calabresi fosse altrove, come invece, ad usum Delphini, stabilì la sentenza del giudice D’Ambrosio. Che davvero non so con quale faccia di palta sepolcrale poté concludere che “L’istruttoria lascia tranquillamente ritenere che il commissario Calabresi non era nel suo ufficio al momento della morte di Pinelli” (http://it.wikipedia.org/wiki/Giuseppe_Pinelli). Ma, a parte la presenza o meno di Calabresi, sono i tempi indicati da Valitutti ad essere di estremo rilievo per la comprensione di quel che poté accadere. Egli ha sempre sostenuto che circa 15 minuti prima di udire il tonfo del corpo di Pinelli precipitato nel cortile, sentì un netto trambusto provenire dalla stanza in cui si trovava Pino. Poi silenzio, fatale. Nessun grido, nessuna esclamazione, neanche una parola. E neppure in contemporanea o subito dopo quel rumore sordo. Questo è quello che penso io: Pinelli, durante gli interrogatori, deve aver capito dell’esistenza, all’interno del Ponte della Ghisolfa e del suo stesso gruppo, Bandiera Nera, di una lurida spia che informava puntualmente la questura, Enrico Rovelli, alias “Anna Bolena” per lo Stato. I poliziotti sapevano troppe cose dell’attività per la resistenza greca di Pinelli e dei suoi compagni più intimi. E quello era proprio il cavallo di Troia e il ricatto con cui tentavano di incastrare sia lui sia Valpreda… Non escludo abbia compreso anche il vero ruolo di Sottosanti, un individuo di cui si fidava troppo generosamente, e come in realtà era avvenuta la strage… avrà detto qualcosa di troppo all’indirizzo degli sbirri e di Calabresi… Il suo stato di salute, dopo tutti quei giorni di fermo illegale, già non era buono… una percossa brutale deve avergli tolto la conoscenza… a quel punto fu presa la decisione, non immediata, di sbarazzarsi del corpo, evitando così autoambulanze, ricovero in ospedale, inchieste e scandalo sui maltrattamenti. Questo fu il “balzo felino” di cui parlò lo svergognato Allegra (ibid.), in realtà la defenestrazione e caduta quasi in verticale di un corpo già privo di sensi e con addosso entrambe le scarpe – mentre la terza rimase nella mano, anzi era la mano, dei suoi assassini.Pietro, Pino… riposate in pace, amici miei, compagni. Sarete ancora, ci posso scommettere, in qualche stanzetta magica, su tra le nuvole, a giocare a scopa con l’Augusta, un bicchiere di vino sul tavolo.Milano, 15 dicembre 2010

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