Auguri a chi non si pacifica con i – beni comuni –

 

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di Angelo Ruggeri

Auguri di Buona Destra a tutte le pseudo-sinistre dei c.d. “beni comuni”,per chi non è “pacificato” e non si rassegna anche quando non si vede la luce in fondo al tunnel. 

Porgiamo i migliori Auguri anche con la scrittrice, premio Campiello, Michela Murgia che, oltre a rivendicare di essere e voler essere “intellettuale gramsciano” (“vorrei una traduzione gramsciana dell’intellettuale attuale e mai vorrei essere ricordata come una che ha scritto libri ma come una intellettuale di senso gramsciano”), la Murgia ha detto: “qualunque cosa scrivo nasce da una rabbia, non sono affatto pacificata, la scrittura va intesa come un’arma, non come rifugio o balsamo o esercizio di bella scrittura: e se anche non fosse così per tutti, è già sufficiente se è così per se stessi. 

Auguri che tutti si sentano in buona compagnia come noi ci sentiamo con la Murgia, come con Aden Arabia (alias, Paul Nizan) e anche con qualche altro, perché noi stessi, per quanto ci riguarda, qualsiasi cosa scriviamo nasce da una rabbia, dal rifiuto di una pacificazione o del sentirsi pacificati. 

Dal rifiuto di limitarci a fare il proprio dovere, perdendo qualsiasi senso della responsabilità e quindi anche della propria identità, rispetto a tutto quel che di grave e di ingiusto accade. 

Dal rifiuto di adeguarci a ciò che accade in un’epoca di assoluta mancanza di responsabilità e in cui si pensa di poter affidare ogni responsabilità agli apparati di potere, ai sistemi ed alla strutture.

Dal rifiuto di ritirarci, quindi, in un’eterna “emergenza” e un’eterna “necessità” degli ordini da ricevere e da seguire per quello che, anche gli idioti di una pseudo sinistra c.d. “radicale”, chiamano il “bene comune” (sic), pur di isolare il tema sociale dall’economia e per sfuggire all’analisi e all’eterna lotta di classe (che non è stata inventata da Marx). Ed è importante sottolineare quanto sia irrilevante che l’ordine venga da un “mono” di potere, da un presidente o generale, da un tecnico o manager o da un computer. 

Non siamo pacificati e preferiamo non “comportarci bene”, preferiamo il plebeo che grida in malo modo anziché le cosiddette “persone per bene” come quelle che sono al governo e che tali appaiono ai “buoni cittadini”, ai “Talian” che li apprezzano per quel che sembrano. 

Oggi essere proletari e plebei, significa non accettare la realtà apparente, ideologicamente mascherata da una confusa sovrastruttura che nasconde le condizioni reali (come nascondono quel che sono in realtà certe persone come Monti o come Napolitano che nel PCI già si sapeva quanto fosse pericoloso proprio per il suo manovrare oscuro dietro la facciata perbenista con cui tramava contro Berlinguer e i lavoratori). 

Citando Brecht: “Più marci sono più brillano”. Così vengono visti in modo plebeo “quelli che comandano” nel Cerchio di gesso (e come anche in Shakespeare) ed alla fine, quando compaiono in scena tutti dorati è allora che sono al massimo del marciume. E non c’è bisogno di aggiungere i capolavori come La Madre, la Santa Giovanna dei macelli, Teste tonde e teste a punta, drammi plebei nel senso più nobile del termine, dove coloro che sono al potere brillano di più, non sono solo i più marci ma sono anche i peggiori criminali (“non c’è bisogno di rubare, basta costruire una banca o un supermercato“). 

In questi giorni abbiamo scorso l’elenco della pubblicistica marxista che continua ad uscire e scoperto quantosia impressionante la quantità di volumi, ma si tratta solo di letteratura e filologia marxista ( “che fa tanto accademia e biblioteca“, diceva Pirola), mentre manca del tutto il filone del marxismo politico sociale, la teoria applicata, il metodo marxista di analisi della realtà politica e sociale attuale. Brecht invece, non faceva letteratura marxista, ma in modo plebeo applicava il marxismo e faceva analisi economica, politica e sociale marxista. Non era un perbenista, non si toglieva la responsabilità affidandola agli apparati (nemmeno a quelli della RDT e del c.d “socialismo reale”) come invece pensavano di fare molti di coloro che sono finiti a Norimberga e quelli che gestivano i campi di concentramento. 

Pensiamo.

Cosa avrebbero dovuto fare al tempo del fascismo coloro che “sceglievano” e si sentivano liberi quando venivano carcerati?

Specialmente a “sinistra”, oggi, ci si giustifica invocando lo stato delle cose, i rapporti di forza. Già, ma con uno stato di cose e rapporti di forza che erano incommensurabilmente peggiori, Gramsci e tanti altri andavano in galera. Oggi, in nome dei rapporti di forza si pensa di non poter fare nulla e la c.d. “sinistra” va – é andata e mira a tornarci – al governo (mentre Gramsci andava in carcere). 

Il rifiuto a rassegnarsi parte, necessariamente, dalla critica dell’esistente e di quanto accade, e come per l’evasione fiscale o il fatto che nulla si faccia per incassare gli oltre 90 milioni di euro guadagnati dalle macchinette da gioco che non sono un fatto meteorologico o di natura, né una categoria dello spirito umano: tutto ciò va capito e va quindi denunciato come fatto organizzato e tecnicamente consentito dalla volontà politica e delle nostre classi sociali dominanti e di governo. 

È consigliabile anche leggere i testi del più grande scrittore americano, Dashiell Hammet, per capire, quanto meno per deduzione se non per induzione, il significato dell’essere “uomini” anche nelle avversità sociali ed il rapporto organico e di natura capitalistica tra potere politico-istituzionale, criminalità economica d’impresa e grande criminalità organizzata che negli Stati Uniti – alimentando il pregiudizio razziale ed etnico – si è mistificato essere stata importata dalle comunità “straniere” immigrate.

A questo punto è importante togliersi dalla testa che il primo compito sia il “cosa proponi e come proponi di farlo”. 

Il primo compito è capire i fatti e non lasciare che l’intelligenza venga superata dagli stessi o da vizi segreti. 

Per dirla con padre Giuseppe Pirola e ricordarlo: “Il ‘da fare’ è conseguente: se l’analisi è esatta non c’è che mettere in moto il processo e il soggetto sociale del mutamento, perché ogni situazione difficile richiama facilmente rappresentanti o avvoltoi del potere.

Il modello non è “tu che cosa proponi?” ma è invece un’azione sociale guidata dalla critica. 

Caro presidente del consiglio o di un partito, qui è importante decidere insieme perché la decisione relativa ad una situazione, obiettivamente negativa, riguarda la nostra vita e quindi spetta a noi. Ora: è sicuramente frustrante che la sinistra non vada e non faccia la sinistra, ma ciò non toglie la questione di fondo. E la questione di fondo tra destra è sinistra è il “terzo”, il soggetto vero, il soggetto sociale, l’uomo sociale ed il popolo, il “terzo” che in realtà dovrebbe essere il “primo” soggetto, il primo nei fatti ed anche nelle ipocrite e false parole correnti; ma finché il “terzo” rimarrà nella condizione in cui è posto dal capitale, obiettivamente resterà in un rapporto di produzione sociale capitalistico mondializzato, che determina la vita sociale e causa conseguenze e disastri sulla stessa. L‘intellettuale organico al “terzo” – e ciascuno che voglia essere responsabile – non può recedere dal proprio compito. 

Tutto ciò giustifica lo stare dalla parte del “terzo”, parlare per il “terzo” e stare in mezzo al “terzo” e alle forze e ai movimenti piccoli o grandi che siano e che rappresentino le sue istanze”. Questo dovrebbe essere anche il compito della Chiesa di fronte ad un capitalismo che oltretutto è contro la religione.

Ecco detto: questo non è solo il “compito del vero intellettuale”, tanto più che di organici non ce ne sono praticamente più – e tra i pochi c’è la Murgia – ma è il compito di tutti, di chi sente da vicino e dall’esterno o anche sente dentro di sé il “terzo”, essere partigiano del “terzo”: vivere significa essere partigiani”, e il come lo gridi o lo scrivi ha minore o ben poca importanza rispetto al fatto che lo fai.

“Farlo” sapendo quel che sapevano al tempo del fascismo, che scrivevano non per il loro tempo presente o immediato ma per l’uomo storico; che scrivevano per il futuro che non sai se e quanto prossimo possa essere. Importante è mantenere viva una dialettica tra le diverse e opposte concezioni del mondo, della vita, e dell’uomo che non è ancora uomo per cause storiche, per causa storica del capitalismo che, in quanto storico, non solo non è eterno ma storicamente già finito. Stante, però, alla non-contemporaneità tra tempo fattuale e tempo destinale, tempo dei fatti e tempo del senso della storia umana, per dirla con Nietzsche: “Dio è morto, ma il suo cadavere è sempre presente”; per dirla con Bloch: “il capitalismo è finito ma non finisce ancora di finire”, e possiamo aggiungere, anzi, che nella sua lunga agonia stia dando i più tremendi colpi di coda. 

Tutto sta nel come si intende essere e voler essere: cioè nel segno non ideologico e dell’uomo in carne ed ossa inteso nel senso storico e universale marxiano, o anche dell’universalismo cattolico non solo di un Padre Pirola. Per quanto ci riguarda e per come siamo stati educati all’universalismo e al modo di intendere, l’essere comunisti significa avere il senso della storia e porsi entro la storia che nessuno ha esplorato più di Gramsci, e questi solo poco meno di Marx. 

L’uomo della storia e l’uomo dei bricchi 

Per cui la differenza fondamentale è quella che corre tra “l’uomo della storia” e “l’uomo dei bricchi”: i bricchi, le cime delle colline o delle montagne oltre il quale l’uomo dei bricchi non sa vedere quel che invece vede o sente l’uomo della storia, che supera i bricchi sia nello spazio che nel tempo, e si raccorda con il fine del movimento storico: che è un nuovo ordine in cui l’uomo (che non è ancora uomo per cause storiche….ecc.) possa sviluppare il suo potere creativo, superando la divisione del lavoro e la divisione tra gioco e lavoro. Una nuova cultura e una nuova civiltà, e per dirla con Aden Arabia, “una nuova Grecia in cui i militanti della rivoluzione sociale, lavoratori e proletari, prenderanno il posto degli eroi pitici”.

Il che non esclude che questo possa essere anche molto pericoloso per l’uomo della storia come persona (taluni, non reggendo sul piano personale la differenza tra realtà quotidiana e il fine del movimento storico, hanno finito per morire di dolore, rinunciando alla vita o impazzendo: ad es. Althusser, ma non solo). 

Pensare in senso storico e quindi scrivere con rabbia, come dice la Murgia, o gridare, come dice Pirola, senza assoggettarsi all’empirismo e ad un pragmatismo (del “cosa proponi e cosa e come facciamo”) espressivo dell’egemonia culturale di stampo anglosassone del capitalismo finanziario, di un capitalismo burocratico delle Borse e dello Spled (di cui 6 mesi fa nessuno sapeva e parlava) che ha distrutto l’unità del pensiero e quindi anche la filosofia la quale ha perso il suo ruolo di asse unificante del pensiero: perché si è voluto rompere il nesso irrefutabile tra filosofia e storia.

All’opposto va inteso che tutti gli uomini sono filosofi e che la filosofia è la storia degli uomini. Anche per questo, da tempo, si cerca di cancellare lo studio della storia e della geografia nelle scuole e nelle Università, perché la storia mantiene aperta la possibilità della filosofia: come diceva Gramsci “il marxismo è la vera filosofia. 

Questo non significa, ovviamente, rinunciare ad intervenire nell’immediato, ma, anzi, ci si deve applicare con la critica, con la teoria critica della storia, la critica dell’economia capitalistica e la critica del diritto dello Stato specialmente di quello liberale e autoritario. Intervenire nell’immediato avendo sempre, però, un occhio rivolto al processo storico, significa non lasciare che la realtà quotidiana superi l’intelligenza. Non si deve rinunciare a “proporre” ma si deve inquadrare la proposta nella prospettiva storica, facendo un’analisi diacronica e non solo sincronica dei processi in corso. Tenendo presente, anche, che prima occorre “distruggere” e poi costruire; che la cosa che più conta è mettere in moto il soggetto sociale del mutamento, mettere in moto sia il processo che il “terzo”, e continuare sempre a “scrivere” e a “gridare”, essendo coscienti che occorre il tempo necessario e che questo può essere ma anche non essere quello nostro personale ma che sarà quello della storia. 

Ci sono voluti venti anni per vedere passare sul fiume i cadaveri delle idiozie e degli idioti che le hanno sostenute per tutto il ventennio. E ci vorranno, forse, altri 20 anni (ma potrebbero essere di meno o di più) per vedere nuovamente rotolare le teste (in senso metaforico o forse, non solo). Certo “nel tempo lungo saremo tutti morti”, questo diceva e importa di più a borghesi come Lord Keynes, meno importa a plebei e proletari ai quali preme di più non rassegnarsi mai, anche quando sembra che non ci sia alcuna luce in fondo al tunnel: non fosse stato cosi, come avrebbero fatto tutti gli antifascisti – in condizioni ancora peggiori ed impossibilitati a parlare – a resistere, a scrivere, pensare e fare in un periodo in cui non sembrava esserci alcuna possibilità di fuoriuscire dal tunnel? 

In troppi, durante questo ultimo ventennio, hanno taciuto e tacciano, o si sono  adeguati e si adeguano, nonostante non ci sia un plateale regime come nell’altro ventennio. Lo stalinismo, più di quanto si attribuisce a Stalin, è quello di chi tace, di tanti della c.d. “sinistra”, di tanti “pacificati” e “rassegnati” che, senza più l’alibi di dare la colpa a Stalin, tacendo acconsentono, da anni, a quella che è la situazione reale nonostante non ci fosse e non ci sia (almeno per ora) la prospettiva di essere carcerati come Gramsci e tanti altri. 

Dare la colpa a un “capo” di turno, o allo stato delle cose o ai rapporti di forza è solo un alibi per dire che se taccio e acconsento non è colpa mia ma sua. Se si è taciuto e si tace ancora adesso e ci si “pacifica” e ci si rassegna, vuol dire che c’è una specie di “fascismo” o “stalinismo” introiettato e diffuso proprio da chi ad essi contrappone quella che chiama “democrazia” occidentalista, ma si comporta come quando vigeva il “fascismo” e lo “stalinismo”.

Si tace e ci si comporta come non ci fosse “democrazia”, si acconsente e si segue qualunque “capo”, rinunciando a vedere al di là dei “bricchi” della propria vita e del proprio naso. Non si riesce a togliersi dalla testa che il primo compito non è il “tu cosa proponi”, forse perché si è infettati dai virus diffusi da pseudo intellettuali, giornalisti e giornali (che secondo i liberali rappresentano “l’opinione pubblica” – sic), senza, invece, innescare una dialettica critica che li contrasti o dica cose diverse – anzi si uniscono al coro – dalle “corazzate” giornalistiche del capitalismo che, con oscurantismo ditirambico, gridano: “è l’ora dei sacrifici” ed esaltano chi li impone pur sapendo che non serviranno a nulla. 

Chi ha detto che non può andare diversamente da così?

Chi lo dice?

Perché viene gridato?

Come se 30 anni di sacrifici precedenti avessero portato qualche beneficio se non, e sempre più, solo a pochissimi avvoltoi, come li chiama Pirola. E allora perché si crede loro nonostante si sappia che i “sacrifici”, non solo non risolveranno i problemi ma li aggraveranno maggiormente?

E i primi a sapere che nulla si risolverà ma che la situazione si aggraverà sono proprio coloro che impongono i sacrifici.                                            

Allora la domanda che occorre porre a tutti e a cui rispondere è: perché lo fanno?           

La risposta è che c’è una strategia che punta a prolungare ed aggravare il ciclo di una crisi che, anche se terminasse, sarebbe solo una pausa a cui seguirà un’altra crisi, inevitabilmente e come sempre. Pur sapendo tutto ciò si punta, invece, a prolungare al massimo il ciclo di questa crisi: la cancelliera a nome di tanti altri e veri poteri ha detto che durerà 10 anni.                         

Gli obiettivi a cui molti lavorano non sono solo di guerra economica e cruenta, come una guerra guerreggiata, ma di guerra alla democrazia o meglio a quello che di questa resta, come espressione minima di dialettica sociale e di una qualche sovranità popolare che permetta di mettersi al riparo, nelle future crisi, dalle possibili insorgenze contro i poteri capitalistici. 

Forse dovremmo buttare via i giornali e i telegiornali che non sono più, o affatto,la preghiera del mattino dell’uomo moderno”, come diceva Hegel, ma sono solo una fonte unilaterale e veicolo di diffusione dell’infezione del pensiero unico liberale (dopo che il liberalismo è morto e sepolto dalla crisi del 1929) che fa sembrare a tutti che non ci sia altro da fare che esaltare un governo che, comunque lo si voglia chiamare, è e resta un governo extraparlamentare per definizione. 

Per di più questo è un governo di Larga Intesa-San Paolo: quella San Paolo che è stata condannata per aver rifilato ai Fondi pensioni dei metalmeccanici e soprattutto ai lavoratori Fiat dei titoli spazzatura, mentre lei, la San Paolo, investiva in titoli “buoni”. Pur condannata, questa banca, non ha rimborsato nulla ai pensionati che hanno perso tutti i risparmi di una vita, perché il ministro dell’epoca trattenne la lettera che doveva dare l’avvio al rimborso fino al giorno dopo la scadenza dei termini di legge previsti (mi pare fosse “entro 30 giorni” dalla sentenza). 

Una vicenda che dovrebbe aiutarci a capire come sia meglio prendere le notizie e buttare via i giornali ci viene dal fatto che in questi giorni, dietro i titoli del Corsera: “Banca Intesa fa pace col fisco”, ci sia il fatto che giornali e giornalisti hanno nascosto che tale Banca, che ha al governo i suoi massimi dirigenti e cioè Passera e Fornero (e con supervisore della banca Bazoli “banchiere di Dio” – Papa Luciani si rigirerà nella tomba…) sia stata uno dei grandi evasori e che ora si accordi col fisco pagando un decimo di quel che avrebbe dovuto. 

Sono tutti banchieri e professori confindustriali della Bocconi o, come il Ministro della Giustizia, della “Luissche sono al governo ma non tirano fuori il loro 740; e, come un tempo fece Giolitti, evidenziano le tendenze anti-parlamentari caratteristiche della borghesia ambrosiana a cui non piace il popolo.       

Sono tutti in conflitto d’interessi giganteschi, un esempio è Passera che, come banchiere, ha avuto già da prima le mani in pasta in tutto quello di cui ora si occupa come ministro delle infrastrutture, compreso il finanziamento, con Lui a capo, dato dalla sua Banca (che è pure “socio”) alla compagnia del Treno privato di Montezemolo, Della Valle e di quel Punzo, socio fondatore e ideatore dell’interporto di tale Treno, che è stato prosciolto solo per decadenza dei termini, dall’accusa di essere amico ed in affari con il Boss camorrista Alfieri.

Fosse stato Berlusconi…

Per questo avevano provato – specialmente con il Corsera controllato da tutti i grandi gruppi del capitalismo italiano e con La Repubblica dei capitalisti e di De Benedetti – a rendere apparentemente, meglio presentabile il comitato d’affari del governo, con la presenza dei dalemoni e veltrusconi. Questi però sono stati sconfitti dal voto delle urne. Ora ci sono riusciti grazie al voto permanente dei mercati con l’attuale governo extraparlamentare, grazie a Napolitano di cui, mentre si discuteva se fosse meglio D’Alema o Napolitano a capo dello stato, abbiamo avuto modo di dire che, proprio per la sua attitudine ad agire dietro le quinte e sotto traccia, Napolitano era molto più pericoloso di D’Alema, e persino più pericoloso di Berlusconi. Ma tutto questo ormai è cronaca. 

Abbiamo visto come centro destra e centrosinistra abbiano fatto a gara per chi fosse il più virtuoso nell’applicare i famosi vincoli di Maastricht. Dal canto loro le “sinistre” c.d. “radicali”, confinate dalla sconfitta elettorale a domandarsi se, e come, sopravvivere con i simboli ma senza i principi del comunismo e del marxismo, siano state colpite dal boomerang della ricomparsa, da loro vissuta come imprevista dello Stato e ritorno dell’intervento pubblico (che non era mai venuto meno) e parlano di “beni comuni”, al punto che, pur di non essere marxisti e dire no alla lotta di classe, dicono che sia un “bene comune” persino il lavoro. 

Non c’è più un comunista: questa è la ragione di questa crisi inarrestabile. È una crisi universale delle classi dirigenti di tutto il mondo.

Le “sinistre” c.d. “alternative” si uniscono al coro delle rivendicazioni dei “diritti civili” e dei “beni comuni”, pensando di sfuggire alla lotta di classe ed isolando il tema sociale dall’economia, che è cosa impossibile perché per fare il “pubblico” e i c.d. “beni comuni” devi fare la lotta contro il privato che è privato d’impresa capitalistica. Infatti, appena tocchi il capitale, questo reagisce e ti mette sotto come è successo alla Fiat e non si ferma solo perché tu gli dici che il lavoro è un “bene comune”.

In tali condizioni c’è solo da sperare che la vera destra capitalistica e il suo attuale governo extraparlamentare siano buoni con tutte le pseudo sinistre, che non approfittino troppo del fatto che non ci sia più un comunista nella c.d. “sinistra radicale” dominata dalla confusione. 

Il superamento di tale confusione implicherebbe una radicale autocritica sull’abbandono dell’analisi di classe e della teoria marxista le cui conseguenze si vanno stratificando, senza prospettive di recupero, essendo le posizioni di tale “sinistra” assimilabili a quelle di una “sinistra borghese” pre-società di massa e ad un ribellismo pre-marxiano,  arrabbiato (o anche luddista) quanto inefficace e non duraturo, destinato a “voler essere senza riuscire ad essere”. Vi è l’assenza di un’analisi di classe critica dello stato, dell’economia capitalistica e dell’indicazione degli strumenti per il cambiamento radicale e non solo teorico, manca  il Partito Comunista con la sua teoria della prassi, capace di unificare, non solo organizzativamente, ma anche culturalmente e teoricamente, il proletariato e le forze sociali di massa.

Quindi Auguri, che il governo della vera destra e della boria dei potenti, incarnata dal governo Monti, sia un poco clemente con la pseudo- sinistra. 

Auguri di Buona Destra alla pseudo sinistra “radicale” dei c.d. “beni comuni”. 

Auguri a chi non si pacifica con i – beni comuni –ultima modifica: 2012-01-02T08:53:00+01:00da iskra2010
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