Note sulla crisi sistemica e sulle prospettive per i comunisti – Globalizzazione e imperialismo.

 

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di G. Bruno 

1. Crisi trentennale e soluzioni fallimentari del capitale: ristrutturazione toyotista anni ’80; New Economy e globalizzazione anni ’90; grande gelo e conflitti tra imperialismi negli anni 00

Che gli Stati nazionali non fossero stati superati da un supercapitalismo globalizzato transnazionale, impalpabile quanto fantomatico, è da tempo dimostrato: la teoria per cui il potere politico statuale fosse stato soppiantato dal dominio economico riconducibile ad una struttura di tipo “imperiale” delocalizzata e unificata (versione post-moderna del superimperialismo alla Kautsky o extra-capitalista dell’imperialismo unitario alla Lotta Comunista), di cui si sono sciacquati la bocca i figliocci delle teorie di Negri e Hardt, è risultata infondata, confutata dall’esplicita conflittualità che Lenin, aggiornando la teoria marxiana del capitalismo, aveva definito come conflitto tra nazioni imperialistiche.

La globalizzazione – intesa come ineluttabile processo di integrazione e unificazione del mercato planetario basato sulla concezione mercantile della New Economy di fine anni ’90, ipotetica soluzione alla crisi da sovrapproduzione ed energetica degli anni ’80 in quanto contraltare finanziario all’economica “reale” di merci fondato sulla “qualità totale” e sull’organizzazione toyotista del lavoro (coinvolgimento e piena collaborazione dei lavoratori in funzione del rendimento e dell’efficienza della produzione; flessibilizzazione esasperata dell’organizzazione del lavoro in funzione della massima produttività) – è stata drasticamente smentita dalla rottura del quadro unitario nel primo decennio del XIX secolo e soprattutto dalla crisi sistemica ormai conclamata che devasta le economie dei paesi a capitalismo avanzato dell’occidente imperialista. La globalizzazione si è pertanto rivelata per quel che realmente è, cioè il capitalismo nella sua fase imperialistica integrato e organico su scala globale, che potremmo definire come fase di sviluppo del capitalismo imperialistico verso aggregati tendenzialmente sovranazionali e continentali in collisione tra loro a vari livelli (produttivi, commerciali, finanziari, politico-diplomatici e, in prospettiva, militari.

Questa definizione ci permette di descrivere due fenomeni:

1) la globalizzazione non esclude, ma accentua, il conflitto interimperialistico, come sta emergendo chiaramente in questi ultimi mesi sul piano economico, commerciale e militare;

2) il ruolo degli Stati, anche di quelli nazionali, non è esaurito, ma viene interpretato e riorganizzato (anzi, accentuato) per funzionare massimamente come strumento per lo sfruttamento dei lavoratori e la repressione del dissenso sociale, dell’opposizione politica, perfino della devianza esistenziale individuale o collettiva.

Analizzando questi due aspetti peculiari, possiamo riconoscere come la cosiddetta globalizzazione non abbia prodotto il superamento dei conflitti tra stati nazionali, nonostante la tendenza alla creazione di aree commerciali e politiche a dimensione sovranazionale di cui l’Unione Europea è un esempio. La costruzione europea ha perseguito per alcuni anni l’ambizione di divenire un polo autonomo in concorrenza innanzitutto economico-commerciale, poi ideologico-culturale e scientifico-tecnologica, infine politico-militare, per poi ridimensionarsi ad un ruolo sub-imperialistico in cui le compagini nazionali si sono riposizionate nell’abito dell’alleanza con il partner occidentale principale (almeno dal punto di vista politico-militare), cioè gli Stati Uniti d’America, o alla ricerca di spazi e relazioni autonome con i nuovi protagonisti della scena planetaria del XXI secolo (Cina, India e Russia in particolare).

Per quanto riguarda il primo punto, risulta infatti evidente che l’episodio drammatico dell’abbattimento delle Twin Towers ha avviato una guerra permanente che ha permesso al capitalismo statunitense, mettendo sotto tiro i cosiddetti stati-canaglia (Afghanistan e Iraq quelli già colpiti, nel mirino restano i regimi di Iran, Siria, Corea del Nord -sulla Libia di Gheddafi occorrerà un’analisi a parte- e infine, taciuto come un desiderio inconscio rimosso e censurato, ma fortemente perturbante, la Cina!), di posticipare una crisi poi esplosa nel 2007, diffusasi in brevissimo tempo e trasformatasi da crollo finanziario in una vera e propria crisi di sistema (qualcuno parla addirittura di crisi di civiltà, come quella che ha colpito il mondo, a partire dall’Europa allora (epi)centro politico, economico e militare del pianeta, nel periodo compreso tra il 1914 e il 1945, delimitato da due guerre mondiali e funestato dai fascismi diffusi dall’Italia in molti paesi e dal nazismo in Germania).

La “favola bella” della globalizzazione buona finisce allora: il brusco risveglio statunitense, lo choc che ha travolto i paesi occidentali, l’imbarazzo persino dei movimenti no-global e contro la guerra hanno causato un arretramento delle forze politiche della sinistra, ma al contempo hanno aperto gli occhi sulla natura del sistema e della crisi: gli Stati hanno riacquistato centralità politica e militare a partire dagli USA, impegnati a contrastare un nemico ben più potente e insidioso per il loro dominio di Bin Laden o di qualunque dittatore alla Saddam Hussein (peraltro allevati proprio dagli USA in funzione di contenimento e contrapposizione a pericolose derive regionali di regimi radicalmente antioccidentali come l’Iran), la peste della crisi da sovrapproduzione di merci e capitali.

Questa strategia era peraltro già stata sperimentata alla fine degli anni ’90 con la guerra nei Balcani, lo smembramento della Yugoslavia e la criminalizzazione di Milosevic da parte della NATO, per stroncare la resistenza alla penetrazione imperialistica europea (soprattutto tedesca) e “liberare” il territorio allo scopo di sviluppare il cosiddetto “Corridoio 8” per il trasporto del petrolio attraverso Macedonia, Kossovo, Albania e servire i paesi occidentali sempre più voraci di risorse energetiche (non dimentichiamo inoltre un episodio che avrebbe potuto diventare addirittura un casus belli, il bombardamento a Belgrado dell’edificio che ospitava la televisione cinese: una vera e propria provocazione che non fu fortunatamente raccolta).

La guerra alla Yugoslavia rientrava in una strategia iniziata nell’89 con il crollo del Muro di Berlino e dei paesi a democrazia popolare del blocco sovietico e che nell’escalation della guerra all’Iraq del ’91 per il controllo dei pozzi petroliferi del Kuwait e dell’Iraq stesso approfondì le contraddizioni politico-sociali interne all’Unione Sovietica contribuendo a creare le condizioni per il crollo stesso dell’URSS. La “fame” di energia e la necessità di controllare i territori dove sono le risorse energetiche principali del pianeta ha portato tra la fine del XX e l’inizio del XXI secolo ad una criminale proiezione neocolonialista giustificata inizialmente con la forma surreale di “interventi di polizia internazionale” e poi, più ipocritamente, come “guerre umanitarie”, “operazioni di peacekeeping” e altre amenità di tale fatta.

In realtà, assieme alle necessità indicate, i paesi capitalistici hanno in primo luogo l’esigenza essenziale di alimentare gli investimenti militari per uscire dalla crisi economica di sovrapproduzione attraverso le spese militari e la produzione di armi; in secondo luogo, al controllo delle fonti energetiche si unisce la volontà di posizionamento strategico-militare in vista del confronto, inevitabile, con i paesi asiatici (dal Pakistan, all’India fino alla già citata Cina, obiettivo strategico della politica statunitense per il mantenimento del dominio politico ed economico del pianeta, e senza dimenticare il nemico della Guerra Fredda, la Russia post-socialista).

Dal 2007 ad oggi, anche l’UE ha mostrato crepe sempre più ampie sul piano economico, finanziario e persino politico-militare, evidenziate soprattutto nell’ultima guerra di Libia contro Gheddafi in cui Francia e Inghilterra hanno giocato d’anticipo sugli altri paesi dell’Unione per accaparrarsi un posto d’onore per la spartizione del petrolio e del gas libico a guerra finita, ma anche dal ruolo della Germania in tandem con la solita Francia nell’imporre regole draconiane e oltremodo penalizzanti per i paesi più deboli (Islanda, Grecia, Portogallo, Spagna e persino Italia): la linea Sarkel-Merkozy dimostra che lo spirito, e soprattutto gli interessi nazionalistici, non sono né sopiti né superati, tant’è che sempre più emergono proposte di ritorno alle monete nazionali o ad altri tipi di moneta fuori dall’euro, tutte comunque in rigorosa difesa protezionistica delle economie nazionali o addirittura regionali (questo è il vero obiettivo della Lega Nord, al netto di tutti i deliri grotteschi e violentemente disgustosi contro meridionali e immigrati).

Rispetto al secondo punto, il ridimensionamento degli Stati in funzione puramente repressiva e di strumento al servizio dei vari strati della classe dominante (alcuni anche in lotta tra loro) è risultato fondamentale per la salvaguardia dei profitti e delle rendite della borghesia imprenditoriale e finanziaria (produttiva e speculativa) in una fase di caduta dei profitti, a costo di rompere il patto/compromesso sociale del dopo guerra, di produrre un indebitamento progressivo ed esponenziale che grava sempre di più sulle spalle delle fasce popolari e impoverisce persino il ceto medio -piccola e media borghesia- fino alle masse proletarie autoctone e migranti, e infine di ricacciare le masse popolari in una sottomissione umiliante rispetto alle conquiste del secondo Novecento che garantivano una soglia minima di diritti, reddito, salario indiretto sociale (servizi di pubblica utilità (sociale) e risorse di interesse comune (quelle che oggi vengono definite beni comuni come la protezione dell’ambiente e la difesa del territorio dalle speculazioni e dalla militarizzazione, etc.), salario differito (previdenza e pensioni), mediante politiche di dominio classista, veicolate attraverso l’ideologia dominante e propagandate articolatamente da televisioni, stampa, editoria e cultura accademica universitaria che hanno assunto i principi dell’aziendalismo liberistico come prevalenti, se non unici, criteri di lettura dei processi economico-sociali nell’attuale fase storica. Viene dunque riproposta, dal potere culturale dominante, l’ideologia liberista ottocentesca che riduce le funzioni dello Stato a mero strumento di garanzia degli interessi e della sicurezza (delle proprietà, dei profitti, delle rendite, delle ricchezze e dei privilegi) delle classi padronali e possidenti con azioni a carattere puramente repressivo e militare, cioè uno Stato gendarme all’interno e sceriffo sul piano internazionale.

La crisi economica, entrata in una fase parossistica, rende accentuato il ruolo statuale anziché allentarlo come era (apparentemente) avvenuto durante il ventennio precedente, almeno nelle dichiarazioni di intenti, tant’è vero che Merkel per la Germania e Sarkozy per la Francia hanno stretto un patto di ferro per affrontare l’attuale crisi del debito sovrano dei paesi dell’eurozona della UE (da Grecia a Irlanda, Spagna e Portogallo e, naturalmente, Italia) e riuscire a salvare gli Stati insolventi sull’orlo del “fallimento” sostenendo con miliardi e miliardi le banche nazionali, struttura portante del sistema vizioso che ha innescato la crisi e la sta enormemente ampliando; da questo salvataggio dipende anche la loro stessa sopravvivenza in quanto una crisi dell’UE, inevitabile se la Grecia dovesse crollare (e ancora di più per l’Italia) sotto i colpi del debito insoluto, trascinerebbe anche la Germania e la Francia in una spirale di crisi inevitabile e senza sbocchi.

2. L’acme della crisi e il punto di non ritorno

Proviamo dunque a tracciare alcune linee di analisi sull’attuale fase storico-politica del capitalismo per ragionare in termini concreti e pratici sulla crisi del sistema capitalistico attuale ed elaborare risposte credibili e prospettive praticabili. Vorrei porre alcune questioni da discutere e affrontare sia dal punto di vista analitico che da quello pratico e politico.

Innanzitutto, come abbiamo detto, l’idea che gli Stati nazionali starebbero svanendo nella nebbia eterea della globalizzazione, è da tempo stata confutata sulla base di quelli che sono ormai evidenti conflitti inter-imperialistici, che si sono accentuati negli ultimi tre/quattro anni con riflessi di protezionismo e di chiusure nazionalistiche emersi come tentativo di rispondere alla crisi politico-economica scaturita dagli Stati Uniti ed estesasi per contagio ai paesi dell’area economica occidentale (Eurolandia, Giappone).

Fin dall’inizio del movimento No-Global gli antimperialisti di formazione marxista hanno messo in discussione l’analisi di una globalizzazione che avrebbe inglobato e sussunto le formazioni statali e le borghesie nazionali ad un super-sistema integrato delle multinazionali, che avrebbero dovuto dettare agli Stati nazionali le loro condizioni: una visione da superimperialismo revisionista di kautskiana memoria, che nel giro di pochissimi anni ha comunque perso la sua credibilità con il riemergere delle spinte nazionaliste e gli spintona menti neocolonialisti dietro cui si maschera lo scontro tra imperialismi concorrenti i quali, da strettamente e prevalentemente commerciali, presentano sempre più violente discontinuità, e scivolano precipitosamente verso cripto-conflitti (con)tenuti all’interno di alleanze politico-militari come la NATO. Faccio una breve digressione per specificare che, se assumiamo questa impostazione per leggere e interpretare il contesto internazionale, possiamo comprendere in modo più chiaro l’intervento in Libia da parte della Francia e dell’Inghilterra, prima, e poi dell’Italia nell’ambito dell’impegno NATO come una operazione di guerra coloniale con l’obiettivo di integrare la Libia nella struttura imperialistica occidentale in posizione ovviamente subalterna piuttosto che come un’operazione di “aiuto” (per quanto interessato al gas e alle commesse petrolifere) a sostegno di una rivolta “spontanea” e popolare al regime di Gheddafi nel quadro della “primavera araba”.

Se gli Stati nazionali non si sono dunque estinti, né tantomeno hanno abdicato alla propria funzione di strutture al servizio degli interessi delle classi dominanti, hanno sempre più chiaramente il ruolo di sostenere le proprie borghesie di riferimento nell’ambito di una concorrenza capitalistica trasferitasi dal livello interno nazionale alla dimensione monopolistica che comporta la specificità imperialistica dello scontro tra Stati. La novità emersa tra fine del XX e inizio del XXI secolo è la scala, più che la natura, dello scontro in atto, che ha assunto estensioni realmente planetarie con l’emergere di protagonisti di proporzioni continentali per dimensione demografica e oltretutto in rapida crescita per capacità produttive (il BRIC, acronimo che indica Brasile, Russia, India e Cina).

È stato dunque necessario per la sopravvivenza delle borghesie europee che gli Stati a dimensione nazionale si dotassero di nuovi strumenti economico-finanziari (mentre debole è la parte politico-istituzionale) adeguati alla sfida del XXI secolo: è stato creato così l’euro, una moneta in grado di competere su scala mondiale con il dollaro e lo yen cinese, stabiliti i principi dell’Unione Europea sull’ideologia neoliberista (rigore monetario, privatizzazioni, riduzione della spesa pubblica di pubblica utilità e interesse comune, collettivo e sociale) e delineata una formazione politico-costituzionale dai caratteri spiccatamente imperialistici, confermati dalla proiezioni della politica estera dell’UE, centrata sulla propaganda retorica degli interventi “umanitari”, di fatto operazioni militari neocolonialiste, guerre di rapina per le materie prime e spoliazione delle risorse energetiche, imposizione di principi “occidentali” capitalistici nel sistema economico-sociale e “democratici” in quello politico-istituzionale.

Il progetto è risultato però monco e debole in quanto l’UE non è stata ancora in grado di costituire una struttura politico-istituzionale credibile e soprattutto di dotarsi di un esercito unitario proprio: i paesi europei hanno dovuto così mantenersi in un ruolo di sub imperialismo rispetto agli USA, i quali detengono la supremazia militare a livello planetario con una concentrazione d’armi formidabile per gli investimenti spropositati nel settore bellico (più di un terzo delle spese militari mondiali, ammontante a circa 1600 mld di dollari nel 2010, sono statunitensi, mentre la somma delle spese dei Paesi dell’UE è molto inferiore, approssimativamente un sesto delle spese mondiali).

Ad accentuare l’instabilità sistemica è inoltre il trascinante sviluppo economico di aree come quella indo-cinese e quella sud-americana, che hanno aggravato lo squilibrio del capitalismo neoliberista il quale già versava in gravi difficoltà per l’accentuarsi della crisi da sovrapproduzione e per la significativa flessione dei profitti, con una concorrenza commerciale e finanziaria su scala mondiale che diventa sempre più ingovernabile e a cui i tentativi di rispondere con politiche neoliberiste sono ormai talmente fallimentari da essere evidenti a tutti.

Diventa dunque inaccettabile continuare a proporre lo smantellamento del settore pubblico statuale e il trasferimento dei servizi di pubblica utilità (sociali) e la svendita delle risorse di interesse comune (beni comuni) naturali, demaniali e patrimoniali dello Stato ai privati per sostenere i profitti, la contrazione e compressione salariale e previdenziale dei lavoratori, la finanziarizzazione dell’economia, le guerre regionali giustificate come difesa da nemici antioccidentali e degli interessi dei paesi democratici contro le pretese oscurantiste di chi si oppone alla devastazione ambientale, sociale e culturale delle proprie società e intende resistere alla violenza dell’occupazione “democratica” dei propri paesi: le politiche bipartisan di destra e di centrosinistra sono da respingere sul piano politico, da battere sul piano programmatico e da rovesciare sul piano ideologico-culturale.

3. Un mondo nuovo è possibile? Solidale, democratico, comunista

Vista in questa prospettiva, nei quindici/vent’anni tra la metà anni ’80 del XX e l’inizio del XXI secolo la globalizzazione ha rappresentato il tentativo, da parte delle borghesie imperialistiche dislocate su scala planetaria, di “governare” la conflittualità crescente costruendo un quadro economico mondiale in chiave neoliberista (in sostanza un ritorno ai meccanismi di capitalismo “puro” del XIX secolo in cui la lotta di classe si esprimeva direttamente sulla feroce contrapposizione tra interessi divergenti e senza alcuna mediazione politica né alcun ammortizzatore sociale), veicolando l’ideologia aziendalista ed economicista come unico orizzonte possibile della storia. Tuttavia, il sistema è arrivato comunque ad una crisi da sovrapproduzione di merci che appare chiaramente irrisolvibile mantenendo questa linea liberista, aggravata oltretutto da una forsennata e dissennata speculazione finanziaria la quale, anziché “risolvere” il problema, ha aperto contraddizioni economico-sociali ancor più gravi, a cui i governi compatibili e assoggettati alle logiche di mercato (sia di destra che di centrosinistra) hanno continuato a rispondere con la ricetta delle privatizzazioni massicce e della contrazione dei salari reali, sociali (servizi come sanità, istruzione, trasporti) e differiti (previdenza e pensioni) per far fronte al crollo sempre più possibile del sistema stesso.

Giunti ormai addirittura alla sovrapproduzione di capitali, che non possono più essere investiti neppure in attività di mera speculazione truffaldina dopo il bluff e il crollo dei titoli spazzatura negli USA che hanno scatenato la crisi, la corsa verso l’estrazione di profitto è praticamente arrivato al capolinea: il rischio è che da questa crisi se ne esca in chiave regressiva “da destra”, cioè con la continuità delle politiche neoliberiste declinate in varie formule politiche (di destra, in senso autoritario, populista e bellicista; oppure di centro, in chiave moderata e interclassista, che difficilmente può reggere nelle condizioni di crisi attuale; o infine nella formula “riformista keynesiana” del centro”sinistra”, che dovrebbe comunque restringere diritti, salari e garanzie dei lavoratori per poter reggere), con l’ulteriore arretramento dei salari, dei diritti e delle condizioni materiali dei lavoratori e delle masse popolari in generale, composte in sostanza da chi non possiede alcun mezzo di sostentamento autonomo in proprio. Questi scenari implicheranno (implicherebbero) l’inasprimento della repressione interna e il ricorso alla militarizzazione sempre più massiccia della società, fino all’estrema ratio della guerra per la risoluzione delle contraddizioni insolubili tra aree e formazioni politico-sociali di scala continentale.

Per evitare l’inasprirsi delle contrapposizioni, occorre elaborare una diversa soluzione politico-economica della crisi, se davvero la cosiddetta globalizzazione, come parrebbe, ha concluso il suo ciclo e non ci sono più i margini economico-sociali per salvaguardare almeno formalmente gli spazi di “democrazia” istituzionale e sociale, mentre ci si incammina a grandi passi verso pericolose restrizioni dell’agibilità politico-sociale a carattere tecnocratico, versione “post-moderna” del totalitarismo nazifascista. Abbiamo di fronte una sola strada per non cadere nel baratro che può trascinarci, oltre la devastazione di enormi masse popolari sospinte verso la miseria e la fame, verso uno scenario apocalittico con una guerra immane combattuta con armi ipertecnologiche (droni, aerei telecomandati, armi chimiche e biologiche etc.): quella del rovesciamento delle politiche dominanti che hanno portato il sistema capitalistico occidentale sull’orlo del crollo, e l’avvio di una transizione verso un sistema di altra natura socialmente sostenibile e fondato sulla giustizia e non sullo sfruttamento e sul profitto: un mondo senza classi, fondato su principi di equità e solidarietà sociale, su una democrazia reale che non escluda, ma coinvolga i cittadini per mezzo di meccanismi di partecipazione, che sottragga la proprietà e il controllo della produzione sociale ai privati e la restituisca alla collettività in forma pubblica, che avvii la trasformazione della società in direzione socialista. Nella prospettiva ideale e storica del comunismo.

L’alternativa è una crisi di civiltà dalle conseguenze imprevedibili, in ogni caso distruttive per l’ambiente e l’ecosistema terrestre, per le specie animali e per l’umanità in generale, ma soprattutto per le classi popolari in particolare.

4. Scene di farsa all’italiana

A fronte di questo scenario, occorre analizzare la natura propria della crisi italiana, che poggia su sacche strutturali di enorme parassitismo di cui è intriso il nostro sistema democratico-rappresentativo nazionale e locale (soprattutto nella versione maggioritaria, ma certo non possiamo sottovalutare la situazione della cosiddetta “Prima Repubblica” in cui la versione proporzionale era dominata dalla clientelare Democrazia Cristiana), ma non solo.

La connotazione di classe di questo strato parassitario “di Stato” (la cosiddetta “casta”), che si caratterizza come escrescenza/plusvalenza del “funzionariato di Stato” nella sua composizione manageriale (con compiti direzionali nelle aziende sanitarie, ex municipalizzate, esternalizzate, cooperative, etc.), amministrativa (funzionariato dirigenziale degli uffici pubblici), politica (presidenti, sindaci, assessori, consiglieri, etc.), rappresenta una “anomalia” italiana del funzionamento del sistema statale occidentale, ma nessuno Stato nel XX secolo ha potuto fare a meno del ruolo insostituibile degli investimenti e dei settori pubblici per sostenere e sviluppare il sistema stesso. Tuttavia, questo strato parassitario non comprende tutti quanti i dipendenti pubblici statali, al di là della loro definizione giuridica e formale, in quanto nella seconda metà del Novecento si sono estese le competenze dello Stato nell’offerta di servizi per tutti i cittadini, anche per le fasce che precedentemente erano escluse da diritti fondamentali come assistenza sanitaria, istruzione e formazione culturale, copertura previdenziale e assistenziale: se il capitalismo di stato, infatti, è tale non in quanto composto astrattamente di “capitale”, ma perché è al servizio del meccanismo capitalistico che ha come cardine la proprietà privata e come finalità prioritaria l’estrazione di profitto (e pertanto non può annullare la sua essenza profonda radicata nell’interesse privato, legato cioè ad una parte di società privilegiata che gode privatisticamente della ricchezza sottratta alla stragrande maggioranza della popolazione e derivante dai profitti), il patto/compromesso politico-sociale uscito dalla Resistenza e stipulato con la Costituzione aveva creato le condizioni perché i lavoratori e i settori popolari potessero rivendicare l’applicazione di diritti riconosciuti e da mettere in pratica realmente.

La Costituzione repubblicana, garante di una società borghese, con caratteristiche solidali e progressiste (almeno sulla carta), stabilisce la fondazione di un assetto dinamico in cui le classi nelle sue articolazioni e stratificazioni si confrontano (e scontrano) dialetticamente attraverso il dibattito istituzionale e parlamentare da un lato; la pressione delle mobilitazioni di piazza e del conflitto sociale nei luoghi di lavoro, nei territori e nelle questioni civili dall’altro. La Costituzione delinea e definisce l’obiettivo di mantenere la lotta di classe all’interno di un quadro istituzionale e costituzionale compatibile ed equilibrato: questo quadro costituzionale, dagli anni ’90 ad oggi, è saltato per l’intenzione dichiarata da parte del padronato di forzare tale assetto, trascinando il mondo politico e gli esecutivi in una esplicita lotta di classe senza quartiere. Chi ne sta subendo le conseguenze – oltre ai lavoratori immediatamente collocati nei luoghi della produzione di merci e, dunque, di profitto, in cui la contraddizione tra gli interessi dei lavoratori e quelli degli imprenditori/padroni sono auto evidenti e a diretto contatto – sono i lavoratori “di base” del pubblico impiego, cioè di quella struttura pubblica che sostiene i servizi di pubblica utilità sociale rivolti alle fasce più deboli, mentre ne trae sempre più vantaggio quello strato parassitario composto da settori manageriali, da sacche di corruzione, da collusioni con i poteri criminali che negli ultimi dieci/venti anni si è esteso a dismisura, come effetto diretto della lotta di classe scatenata dalla borghesia nazionale, europea ed internazionale.

L’articolazione della macchina statuale non può pertanto essere definito come una sorta di iper-capitalista in cui opererebbe esclusivamente uno strato di “borghesia di Stato” parassitario e rapace: esso esiste senza dubbio, come abbiamo detto, e rappresenta la superfetazione di quella maggioranza di borghesia nazionale che in Italia, per inettitudine, persegue la strada del profitto in modo parassitario attraverso l’occupazione dello Stato stesso. Non va però dimenticato che dal 1948, nell’ambito repubblicano e costituzionale e attraverso le lotte tra gli anni ’50 e ’60, pur tra mille contraddizioni (anche in seno al popolo!), si è ampliata progressivamente – fino agli anni ’70 – la redistribuzione della ricchezza nelle forme di salario sociale indiretto e differito (servizi pubblici – servizi di pubblica utilità e comune interesse – previdenza e pensioni) oltre a quelli reali, e la struttura del capitale pubblico statuale è stata quella che ha garantito questa erogazione di servizi sociali (almeno fino a quando non è iniziata la privatizzazione/svendita del patrimonio e dei servizi pubblici statali), il pagamento dei dipendenti pubblici (tra cui gli stipendi dei lavoratori della scuola che, tra gli stipendi ministeriali, rappresentano circa un quarto del totale e che noi giudichiamo giustamente risicati e insufficienti), la produzione di opere pubbliche (anche quelle di utilità sociale hanno bisogno di risorse economiche che, se non le mettono i privati, devono entrare in qualche modo nelle casse statali).

Lo strato parassitario che vampirizza molte risorse economiche pubbliche è elemento strutturale del caso italiano, ma non è la connotazione “di Stato” cha fa di questi settori della borghesia una “casta parassitaria” quanto piuttosto la sua vocazione al servizio del profitto (che nel sistema misto non può che estrarsi anche dalle aziende produttive pubbliche oltreché da quelle private).

Il carattere di classe dello Stato imperialista non deve comunque essere sottovalutato, come accade sovente per le critiche di parassitismo e corruzione alla “casta politica” italiana mosse da parte dei movimenti per la legalità: essi “dimenticano” come il parassitismo sia determinato proprio dall’estrazione del profitto, cioè dallo sfruttamento del lavoro dipendente (manuale, operaio, produttivo quanto ormai anche intellettuale, impiegatizio, riproduttivo). Questa “dimenticanza” provoca la difficoltà di concepire la trasformazione politica della democrazia autoritaria in democrazia realmente rappresentativa, limitandosi ad invocare la “legalità” e il rispetto delle “regole”: occorre rovesciare il processo politico-elettorale che ha irrigidito la dialettica politica tra istituzioni e società svuotando le istituzioni di rappresentatività sociale con l’esclusione delle organizzazioni dei lavoratori, dei settori critici e antagonisti e soprattutto i comunisti. Bisogna innanzitutto ricostruire la dialettica che consenta di superare il concetto di governabilità rigida a favore di una reale democrazia che restituisca rappresentanza ai lavoratori nelle istituzioni, nei luoghi di lavoro, nei territori.

Occorre prefigurare una prospettiva istituzionale e politico-amministrativa di altro tipo, che sia guidata e controllata dalle masse oggi sottoposte allo sfruttamento del capitale innanzitutto nel lavoro, poi nella gerarchia del potere sociale e politico, nella diseguaglianza e discriminazione sessista e razzista, nella gestione del territorio, nella sottrazione di diritti e risorse ambientali, culturali, artistiche. Senza questa rivoluzione radicale negli obiettivi politici, che prefiguri un nuovo quadro politico-istituzionale sostanziale, è difficile pensare che il movimento/i prefiguri una trasformazione epocale in chiave anticapitalistica: senza mettere in discussione il dominio della borghesia, che consente il mantenimento dell’attuale assetto di potere all’interno dello Stato, e senza rovesciare lo strato parassitario permettendo l’emergere dei settori statuali di pubblica utilità e interesse comune (sanità, istruzione, previdenza e assistenza), nessun movimento potrà realizzare alcun obiettivo, neanche quelli “minimi” di carattere fiscale e redistributivo.

La nazionalizzazione dell’economia produttiva (esproprio delle aziende di produzione strategica) e finanziaria (degli istituti bancari) deve passare inevitabilmente dalla contrapposizione a quello strato parassitario, che va espulso dai nodi strutturali dello Stato e della società per permettere l’affermarsi di una gestione pubblica fondata sui lavoratori stessi: prefigurare un tale scenario è indicare una strada per la soluzione della disoccupazione verso una (tendenziale) piena occupazione, significa operare una rivoluzione nei rapporti di classe nazionali ed internazionali. L’utopia non consiste in questa prospettiva, ma nell’idea che possano realizzarsi profonde riforme sostanziali, “di sistema”, semplicemente enunciandole.

Nessuna patrimoniale, nessuna riforma progressiva, nessuna lotta all’evasione potrà inoltre mai realizzarsi finché esiste un sistema politico-elettorale non permeabile e largamente rappresentativo, ma invece autoritario, e istituzioni che negano la democrazia reale attraverso processi selettivi di delega e di mancata partecipazione popolare. Per non far pagare la crisi ai lavoratori subalterni (dipendenti) e ai precari (esercito di riserva), ma ai settori privilegiati e protetti dell’alta e media borghesia è necessario aumentare la ricchezza rappresentativa con istituzioni sempre più ampie e partecipate, non di una diminuzione del numero dei parlamentari, né l’eliminazione delle assemblee locali: la democrazia imporrebbe un allargamento del numero dei rappresentanti istituzionali, mentre una diminuzione dei delegati comporta una sostanziale restrizione di spazi, idee, interessi e rappresentanza democratica.

Sarebbe pertanto necessario un ripensamento della natura delle istituzioni stesse: un parlamento ampio ed eletto secondo una legge rigorosamente e puramente proporzionale è un organo maggiormente democratico in quanto garantisce la presenza di rappresentanti di settori sociali e territoriali oggi esclusi. Un problema ulteriore da affrontare è quello di come evitare che le diseguaglianze economiche, e dunque il potere reale che separa gli individui, incidano nella rappresentanza: il principio liberale di “una testa, un voto” dovrebbe essere integrata con la rappresentanza di classe. Gli Stati Uniti d’America adottano un sistema elettorale diseguale proprio per garantire la supremazia della classe padronale: la “democrazia” statunitense è esattamente un sistema discriminatorio a favore della classe borghese. Una democrazia reale, che si ponga l’obiettivo di rivoluzionare gli assetti sociali e i rapporti di classe fondando uno Stato dei lavoratori, deve adottare provvedimenti a garanzia dei settori più avanzati, coscienti e organizzati delle classi popolari.

Il problema fondamentale in questa fase è come e chi debba ricostruire le condizioni per rimuovere dall’occupazione dello Stato e dei nodi strategici della società civile quello strato parassitario, quella “borghesia parassitaria” collegata ai (e garante dei) settori di padronato e di speculazione privata.

Come rompere quel dominio e costruire un nuovo meccanismo sociale di comando a carattere solidale anziché fondato sullo sfruttamento del lavoro? La questione preliminare da affrontare è dunque quale sia il soggetto sociale nonché quello politico che dovrebbe avere il compito di questa impresa: per quanto plurale, composito e non monolitico, occorre individuare il/i soggetto/i sociali e politici su cui far leva per la trasformazione del quadro politico e sociale attuale. I lavoratori, oggi frammentati, precarizzati, frullati nei meccanismi di espulsione/ricatto dalla produzione, restano il riferimento principale su cui costruire alleanze e blocchi sociali e politici, coordinati nella prospettiva di un cambiamento radicalmente alternativo di sistema, in quanto centrali rispetto alla contraddizione determinante dell’attuale sistema che ha il suo cardine nell’estrazione dei profitti: questa contraddizione resta incentrata tra la valorizzazione del capitale (investito in attività produttive o in speculazioni finanziarie) e la difesa del lavoro produttivo di merci (materiali e immateriali che siano) dallo sfruttamento.

5. Obiettivi minimi e programma di transizione

Veniamo infine ad alcuni possibili obiettivi immediati per uscire dalla crisi senza far pagare la crisi al lavoro dipendente (stabilizzati) e all’esercito industriale di riserva (precari e migranti) rispetto alla crisi, ma alle banche, al padronato, alle rendite finanziarie, all’evasione fiscale e ai poteri criminali.

Anni fa era stata elaborata una proposta di “moratoria” del debito per i cosiddetti Paesi del Sud del mondo: si trattava di un consolidamento del debito che congelava il pagamento degli interessi; una soluzione che potrebbe/dovrebbe essere adottata in primo luogo dai paesi dell’UE sottoposti all’attacco speculativo dei “mercati internazionali”. Per far ciò occorre una volontà politica che attui una convergenza tra gli Stati più “deboli” affinché si costituisca una alleanza per richiedere la revisione/annullamento dei parametri di Maastricht, che stabilisce rigidamente condizioni di stabilità insostenibili per l’Italia come per la Grecia, il Portogallo, la Spagna.

Una soluzione concertata e collettiva da parte di più Paesi avrebbe un effetto decisivo: il rischio di vedersi peggiorare le condizioni imposte ai popoli debitori verrebbe diluito e alleggerito da una “concertazione” tra Stati contro le regole imposte dall’imperialismo franco-tedesco e si creerebbero le condizioni politiche per una decisione su scala europea di non pagamento del debito innanzitutto alle banche private, i maggiori protagonisti di questa crisi con i loro “prestiti”.

Rompere questa spirale permetterebbe di liberare risorse per coprire le perdite dei risparmiatori che detengono titoli o hanno investito in fondi-pensione, sottraendo le rendite alle agenzie di investimento finanziario e restituendole ai creditori senza ulteriori interessi. Per questo occorre un governo sociale radicalmente nuovo, perché un governo (soprattutto di centrosinistra) che cercasse le compatibilità provocherebbe l’esclusione/espulsione dall’euro con ricadute economico-sociali pesantissime. Infatti, se da un lato la svalutazione aumenterebbe le capacità di esportazione, dall’atro i costi delle materie prime e dell’energia salirebbero alle stelle, ricadendo sulla popolazione stessa. Solamente un governo coerentemente antiliberista potrebbe aprire nuovi scenari di consolidamento/congelamento del debito, ma per far questo occorre ricostruire alleanze intorno ad un asse politico-sociale rigorosamente di classe.

Allo stato attuale, non è possibile pensare ad una uscita dall’euro: le condizioni politiche e sociali non lo consentono poiché il ripristino di una valuta nazionale, come una lira fortemente svalutata, favorirebbe le esportazioni, ma renderebbe i costi delle materie prime e dell’energia insostenibili; al contrario, un esecutivo che consolidasse il debito (magari di concerto con altri Paesi europei sottoposti alla bufera finanziaria) avrebbe il sostegno dei settori di classe della popolazione, e si incamminerebbe verso l’azzeramento/annullamento o cancellazione del debito allo scopo di salvaguardare i salari e le spese di carattere sociale e previdenziale, di interrompere il pagamento degli interessi ai grandi gruppi finanziari e speculativi nonché di rinegoziare le condizioni del Trattato di Maastricht a partire dalla denuncia dei vessatori Patti di Stabilità.

Lavorare per costruire questo quadro politico sia necessario per determinare le condizioni in cui proporre la patrimoniale, l’imposizione fiscale fortemente progressiva, la diminuzione drastica delle spese militari, la tassazione delle rendite finanziarie. L’obiettivo di non pagare il debito deve scaturire dai connotati di classe del debito stesso, che significa innanzitutto non restituire alle banche quanto erogato come credito in funzione di interessi ormai inestinguibili se non a condizione di smantellare la struttura sociale e di svendere il patrimonio pubblico.

Occorre fare una scelta di campo, rivendicando la formula del non pagamento del debito nelle forme iniziali del consolidamento e, in prospettiva, della cancellazione, unito a proposte di nazionalizzazione delle banche, delle aziende e delle fabbriche che minacciano il trasferimento all’estero. È in questa ottica che andrebbero perseguite alleanze politiche non solo in chiave di movimento, ma nella prospettiva della costruzione di blocchi sociali alternativi al blocco dominante borghese, diviso tra lo schieramento populista di destra (che rappresenta piccoli e medi imprenditori ed evasori fiscali) e quello di centro(sinistra) (nuovamente rappresentativo dei poteri forti di Confindustria e padronato) e attratto da figure come Montezemolo o Della Valle (un tempo Marchionne, che oggi è lanciato in una battaglia di restaurazione assolutistica del potere aziendale).

Lo Stato, occupato da bande parassitarie e da quella borghesia che agisce per rafforzare la sponda politica della dittatura economica padronale e tra cui annoveriamo sicuramente anche i manager delle aziende (post)pubbliche, è allo stremo: per ricercare e trovare gli strumenti al fine di trasformare lo Stato in una macchina al servizio delle masse popolari e non più dei capitali privati, delle rendite parassitarie e speculative, dei funzionari-manager bisogna misurarsi con quei settori che si pongono il problema di trasformare la mobilitazione sociale in uno sbocco politico a partire dalla parola d’ordine del non pagamento del debito alle banche, come nell’assemblea del 1° ottobre.

Concludendo, alcune riflessioni in merito alla questione della democrazia.

I comunisti debbono delineare un progetto in cui si definisca se il potere può o debba passare attraverso il riappropriarsi delle istituzioni rappresentative (attraverso una battaglia fondamentale per il proporzionale puro, senza il quale qualsiasi ipotesi di partecipazione elettoralista è destinata al fallimento), oppure se sia necessario rimanere fuori delle istituzioni per organizzare campagne di pressione indirizzate alle istituzioni politiche mediante i vari movimenti.

Certamente, l’idea di contrapporsi alla “casta” politica e impadronirsi delle risorse economiche sottratte dallo strato parassitario per gestirle direttamente attraverso cittadini organizzati in comitati (con meccanismi decisionali tutti da inventare) è quella che oggi pare riscuotere più consenso, ma è anche quella più problematica.

La questione di quale allora potrebbe essere la forma di organizzazione sociale (quali rapporti sociali e di proprietà) e quali i meccanismi tra la dimensione socio-economica e quella politico-istituzionale resta del tutto aperta: riproporre la forma di consigli omogenei socialmente e territorialmente nei luoghi di lavoro, di studio, di quartiere, oppure sviluppare luoghi assembleari sul modello dei movimenti, in cui ciascuno porti le proprie istanze in maniera trasversale e specifica, di scopo (sulla difesa dei beni comuni, dei territori, dell’ambiente, dei diritti civili) piuttosto che obiettivi più marcatamente di classe?

La questione non è puramente teorica, ma strettamente pratica e politica: i comunisti si dovranno confrontare con tali problemi strategici, per individuare i percorsi più efficaci a costruire alleanze e mobilitazioni adeguate alla trasformazione rivoluzionaria della società nel XXI secolo.

(1 novembre 2011) 

Note sulla crisi sistemica e sulle prospettive per i comunisti – Globalizzazione e imperialismo.ultima modifica: 2012-02-01T08:25:00+01:00da iskra2010
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