Ratzinger o fra Dolcino? 2 parte

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Cristianesimo, socialismo e marxismo

Da Amos fino a Roux ed a Fauchet. Un percorso plurimillenario, quello intessuto dalla “linea rossa” di matrice religiosa nel mondo occidentale, che tra l’altro non si è certo concluso con il 1794: anche se proprio tra quest’anno ed il 1880 essa trovò il suo punto più basso, (con l’eccezione del periodo della  storia europea compreso tra il 650 ed il 750) in un nadir da cui si riprese solo molto lentamente.

Nel secolo in via d’esame, infatti, mancarono in primo luogo pensatori ed utopisti di matrice cristiana-socialista di alto livello, almeno in parte paragonabili a Moro, Campanella, Morelly ecc.

Operarono certamente personaggi interessanti come il celebre prete Robert de Lamennais (1782-1854). Oltre ad una sincera scelta di campo a fianco degli operai (“Cos’è oggi il proletario nei confronti del capitalista?”, affermò nel 1840: “Uno strumento di lavoro”), per cui venne scomunicato nel 1832, in un suo testo del 1848 egli si autodichiarò “socialista”, intendendo tutta via il collettivismo solo come “il principio di associazione” ammesso come “uno dei principi fondamentali dell’ordine che deve stabilirsi “, ma sempre in coesistenza con il diritto di proprietà, inteso come “garanzia per l’indipendenza dell’individuo”.[1]

Oppure come Buchez (1796-1865), un uomo e pensatore che era “insieme fedele al ricordo dei giacobini (che vuole riabilitare), democratico, repubblicano socialista e cattolico di stretta osservanza dogmatica, anche se non praticante” (Droz), e come Cabet, autore dell’utopia comunista dell’abbondanza di Icaro (“Voyage en Icarie”, 1839) ed allo stesso tempo fervente cristiano, convinzione espressa nel suo “Le vrai christianisme suivant Jesus-Christ” del 1846. [2]

In Germania le linee fondamentali del comunismo religioso vennero riprese ed attualizzate da W. Weitling, un sarto tedesco che tra il 1838 ed il 1845 invitò i lavoratori tedeschi ad attuare una rivoluzione sociale intransigente togliendo ai “ricchi ed ai potenti” “i mezzi per nuocerci“: la comunione dei beni e la fraternità creata tra gli uomini avrebbero permesso di attuare finalmente gli ideali di Gesù e del cristianesimo primitivo. [3]

Apprezzato in una prima fase da Marx ed Engels, Weitling tuttavia manifestò rapidamente tendenze fortemente egocentriche e tentò di creare un vero e proprio culto della sua personalità, cercando di dimostrare non solo che Gesù era stato il primo comunista, ma che il suo successore non era altro che lui stesso: ben presto Wleiting sparì, come una splendida ma fuggevole meteora, dal panorama politico tedesco.

Si trattò di pensatori di discreto livello ed anche capaci di acquisire una certa popolarità, ma molto distanti dai precedenti giganti della corrente collettivistico-religiosa: non risulta pertanto casuale che, sul piano della genesi e sviluppo politico, ai movimenti organizzati allo stesso tempo di matrice religiosa e socialista, la loro principale (ma debole) espressione nel corso dell’Ottocento venne alla luce in Inghilterra, in contemporanea con la crisi del cartismo.

Il socialismo cristiano inglese venne fondato nell’aprile del 1848 da J. Ludlow, F. Maurice e C. Kingsley, mentre la sua trama cultural-organizzativa continuerà fino al 1855. Aliena da qualunque opzione rivoluzionaria ed apertamente ostile alla principale espressione del tempo della corrente antagonista nel movimento operaio inglese, il cartismo, la tendenza socialista-cristiana dell’isola tuttavia contestò “il capitalismo, condannando in termini veementi la sfrenata concorrenza, l’idolatria della “merce”, l’avvilimento degli esseri umani ridotti allo stato di cose. Non si tratta soltanto di una reazione sentimentale, anche se essi traboccano d’indignazione di fronte alle miserabili condizioni di vita imposte ai lavoratori, quanto piuttosto di una posizione di principio contro il regno di Mammone, contro il dominio materialista del profitto. Nulla è più antisociale e più anticristiano di un’esistenza rivolta interamente all’arricchimento individuale. Per la scuola di Manchester il fine dell’umana esistenza consiste nell’appropriazione, ma è una prospettiva fallace quant’altre mai, poiché in tal caso l’egoismo regna sovrano e la società è condannata al male e alla disperazione. La concorrenza del Laisser-faire contrasta dunque con il piano di Dio, il quale vuole l’amore reciproco tra gli uomini e chiede che essi siano “compagni di lavoro, e non rivali”… I fondamenti teologici, anche se non sempre espliciti, rappresentano una componente non meno importante del movimento. In primo luogo, il socialismo cristiano si salda su una lunga e sempre viva tradizione cristiana che risale alla Chiesa primitiva, quella che predica la comunione dei beni, che esige la giustizia sociale, che prende le parti dei poveri e dei diseredati. In secondo luogo, sotto l’influenza del Coleridge e della Giovane Inghilterra, e sulla scia di alcuni socialisti continentali, i socialisti cristiani si propongono di riconciliare la Chiesa col popolo. Agli operai che mettono in dubbio la buona fede del clero, Kingsley risponde che la salvezza sta nel seguire “il vero demagogo””. [4]

Sul piano invece del profetismo religioso di matrice antagonista, durante il secolo preso in esame emersero solo due esperienze significative, seppur assai diverse tra loro: la prima fase della storia di mormoni, contrassegnata per lungo tempo (1829/1844) sia dalla poligamia che dalla creazione di comuni rurali fondate in parte sulla “legge della consacrazione” e sui rapporti di produzione prevalentemente collettivistici, e la predicazione protosocialista di Davide Lazzaretti nella zona dell’Amiata tra il 1872 ed il 1878, conclusasi con l’uccisione nell’agosto 1878 da parte degli apparati statali borghesi, di una bella figura politico-religiosa e di un degno erede della grande eresia cristiana sopra esaminata. [5]

La “linea rossa” religiosa subì indirettamente le conseguenze della forza d’attrazione esercitata nel periodo in esame dal comunismo di matrice atea, suo “cugino-concorrente”, già durante il Diciottesimo secolo pre-rivoluzionaria con la presenza di esponenti notevoli come Meslier, Mably ed A. Weishaupt, quest’ultimo fondatore (ateo e comunista) dell’organizzazione massonico-rivoluzionaria degli Illuminati di Baviera, tra i cui fini segreti e riservati agli iniziati di più alto livello gerarchico si trovava anche l’abolizione sia della proprietà privata che della religione.

Dopo il 1794, inoltre, la pratica di rivoluzionari comunisti ed atei quali Babeuf/Buonarroti, le analisi economiche sviluppate dalla scuola  del “socialismo” (ricordiamo Gray, Hodgskin, ecc.) e soprattutto il gigantesco lavoro scientifico e rivoluzionario compiuto da Marx ed Engels assieme ai loro più stretti collaboratori e referenti politici (Bebel/Liebknecht, P. Lafargue, il primo Kautsky del 1880/1891, il Plechanov rivoluzionario del 1880/1903) tolsero via via spazio di manovra e respiro alla versione alternativa e filocollettivistica della religione, stretto in una sorta di morsa tra la “linea nera” imperante nell’ancora fortissima chiesa “neocristiana” (nelle sue diverse varianti cattoliche, protestanti ed ortodosse) ed il socialismo di ispirazione marxista.

La debolezza della “linea rossa” religiosa nel mondo occidentale risultava ormai tale, nel periodo in via di analisi, da far ritenere a Marx ed Engels che essa costituisse solo un fenomeno del passato ed in via d’estinzione, priva tra l’altro in quella fase di qualunque potenziale antagonista e rivoluzionario: Lamennais, che ispirò ai due grandi rivoluzionari tedeschi una dura critica al “socialismo religioso” nel Manifesto del 1848, non equivaleva certamente ad un Dolcino, uno ZizKa o un Muntzer, Cabet risultava molto lontano dalla visione utopica raggiunta da Gioacchino Fiore o Morelly in passato, Weitling dimostrò molto presto i suoi limiti e le sue smanie egocentriche.

Ma tutto cambia, e qualche volta ciò avviene in senso positivo: la tendenza collettivistica di matrice religiosa riuscì lentamente a risollevarsi dal periodo critico attraversato dal 1794 al 1890, partendo innanzitutto dall’esperienza svizzera, americana, russa e britannica.

Negli Stati Uniti emersero già alla fine dell’Ottocento i primi embrioni della teologia nera: il pastore afroamericano H. McNeal Turner rilevò nel 1896 che “dio è nero”, e cioè che l’ente divino si identificava con gli oppressi, mentre l’uomo bianco aveva “colorato” e storpiato la Bibbia a suo esclusivo vantaggio contro la popolazione nera. [6]

Sempre negli Stati Uniti, dopo il 1880 iniziarono a risuonare in modo forte ed autorevole per un certo periodo le tesi socialiste-utopiche di matrice cristiana di E. Bellamy e W. Rauschenbusch, mentre quasi nella stessa fase il grande romanziere L. Tolstoi rese famosi in Russia e nel mondo le tesi dell’anarchia cristiana non-violenta.

Quando gli operai svizzeri iniziarono ad organizzare il proprio sindacato ed il partito socialdemocratico, attorno al 1888, a loro volta una minoranza dei pastori protestanti che già guardavano con simpatia ai bisogni politico-materiali delle masse popolari decisero di impegnarsi al loro fianco: tra di loro si trovarono sia H. Kutter, che affermò che “le promesse di Dio si compiono nei socialdemocratici”, e soprattutto L. Ragaz (1888-1945), il quale contribuì in seguito a fondare nel 1907 la rivista “Neue Wege”. Seppur su posizioni non-rivoluzionarie, i socialisti religiosi della svizzera si espressero a favore delle lotte operaie: quando venne sconfitto uno sciopero degli operai edili di Basilea nel 1903, Ragaz affermò pubblicamente e dal suo pulpito che “il cristiano deve sempre schierarsi dalla parte del debole, dalla parte di coloro che nella lotta sociale tendono verso l’alto. Il cristiano deve sapere che siamo fratelli, … non deve solo guardare a se stesso e pretendere che Dio guardi a tutti gli altri, ma  riconoscere che come figli di Dio siamo responsabili gli uni degli altri. Per la prima volta Ragaz espresse anche la convinzione che nel movimento operaio si manifestasse una forma, inconsapevole e forse persino istintiva, di cristianesimo”. [7]

Nel 1929 Ragaz sintetizzò la sua posizione rispetto al socialismo nello scritto “Da Cristo a Marx, da Marx a Cristo”. La sua tesi fondamentale era che socialismo e cristianesimo fossero “in realtà una cosa sola come due metà di un unico anello, e il regno di Dio li comprendesse entrambi, perché l’attesa del regno di Dio è attesa di un nuovo cielo e una nuova terra nei quali abiti la giustizia. Il cristianesimo abituale, che invece vede solo il nuovo cielo e si accontenta della terra vecchia, è politicamente conservatore o addirittura reazionario: esso cerca Dio senza cercare il suo regno, diventando così oppio dei popoli, e rigetta gli impulsi provenienti dal flusso ardente del regno di Dio. Così, per esempio, quando nel 1525 Lutero si pronunciò contro la rivoluzione dei contadini, l’anello che univa socialismo e cristianesimo venne definitivamente spezzato. Secondo Ragaz, il reale cristianesimo e il vero socialismo dovevano unirsi in un socialismo etico, in cui materialismo ed idealismo si riferissero l’uno all’altro in una dialettica bipolare”. [8]

In Gran Bretagna uno dei principali fondatori ed il primo grande leader del partito laburista, lo scozzese Keir Hardie (1856/1915), rappresentò a partire dal 1887 una forma particolare di sintesi tra forti convinzioni socialiste ed un sentito fervore evangelico, tra l’appello all’organizzazione alla lotta di classe e una sincera fede cristiana: mistura e condensazione che del resto costituivano il brodo di cultura collettiva e la matrice principale del movimento socialista britannico, sia alla fine dell’Ottocento che per buona parte del secolo successivo. [9]

E proprio nel corso della prima metà del Ventesimo secolo la “linea rossa” religiosa prese via via ulteriore slancio, con l’opera e la scelta di campo  socialista di teologi famosi come P. Tillich e K. Barth, oltre che di intellettuali impegnati come J. Maritain e Mounet.

Va sottolineato come l’eroico e geniale D. Bonhoeffer (1906-1945), uno dei cristiani tedeschi più impegnati nella resistenza contro l’abominio nazista, in una lettera del gennaio 1935 a suo fratello sottolineò in modo “rosso” e comunitario che “il rinnovamento della Chiesa verrà da un nuovo tipo di monasticismo che avrà in comune con il vecchio una completa mancanza di compromessi in una vita vissuta in pieno accordo con il Sermone della Montagna nell’insegnamento di Cristo”, con l’esaltazione dei poveri e degli oppressi, della “sete di giustizia” e del “guai a voi, ricchi” …

Nel 1936 Maritain pubblicò a sua volta il  celebre libro “Umanesimo integrale”, dedicato in buona parte all’analisi delle relazioni contraddittorie tra cristianesimo, socialismo e marxismo/umanesimo marxista, nel quale emerse, seppur sotto forma cauta e prudente,  una scelta di campo in gran parte filo collettivistica, seppur profondamente pervaso di spirito cattolico.

Nel terzo capitolo della sua opera Maritain aveva criticato severamente il marxismo, ritenendo che esso fosse una sorta di parareligione alla quale il materialismo dialettico costituiva la teologia dogmatica, il comunismo la fondamentale espressione etico-sociale e l’ateismo “dogmatico” il primo assioma della nuova fede. Ma dopo aver anche contestato duramente l’uomo frutto del liberalismo borghese (fariseo ed ipocrita, ateo nei fatti e devoto a parole, la cui falsa coscienza dissimulava precisi interessi economici), l’autore esaminò in modo dialettico i risultati di due decenni di rivoluzione bolscevica, respingendo da un lato l’ateismo di stato e forma politica dittatoriale ma lodando allo stesso tempo la liquidazione del sistema capitalistico ed il regno del profitto all’interno dell’ex-impero zarista, nella distruzione “del selvaggio della forza-lavoro umana alla fecondità del denaro”. [10]

Secondo il giudizio di Maritain, nonostante i suoi molti errori i meriti del socialismo marxista risultavano in ogni caso innegabili, dato che esso ha “amato i poveri” ed era stato il primo a denunciare i guasti della società capitalistica, tanto che lo si poteva criticare efficacemente “solo rimanendogli sotto molti punti debitori”. [11]

Nel quarto capitolo, dopo aver condannato alla radice la società capitalista dominata dal “culto dell’arricchimento terreno”, divenuto l’architrave della civiltà post-medioevale, il teorico francese delineò i punti fondamentali per la costruzione di una nuova struttura socioproduttiva che permettesse l’affermazione di un “umanesimo integrale” di matrice cristiana, indicando come obiettivi prioritari una volta compiuta la “liquidazione del capitalismo” ( Maritain):

–          l’accesso a tutti della proprietà privata, non più riservato ad “un piccolo gruppo di privilegiati”

–          l’uso per il bene comune della proprietà privata

–          la comproprietà cooperativa,  non spersonalizzata dei mezzi di produzione

–          la gratuità nell’accesso ai beni tesi a soddisfare i “bisogni primi”

–          un ordinamento neocorporativo per la gestione dei processi socioeconomici, allo stesso tempo pluralista e democratico

–          fortissime limitazioni alla “trasmissione ereditaria del denaro/proprietà. [12]

Venne pertanto delineato un modello alternativo di rapporti di produzione prevalentemente ascetico-collettivistico, attraverso i quali “una certa povertà privata” (intesa come “rinuncia allo spirito di ricchezza”) “crei l’abbondanza comune, la sovrabbondanza, il lusso, la gloria per tutti”. [13]

La lezione di Maritan venne in seguito sviluppata e radicalizzata in Italia dal cristianesimo comunista (i “cattocomunisti) principalmente attraverso l’elaborazione di Franco Rodano (1920-1983). Quest’ultimo diventò uno dei principali promotori, durante la lotta clandestina contro il regime fascista, del Partito Comunista Cristiano (1942) ed in seguito del Movimento dei Cattolici Comunisti, successivamente unificatosi nel 1945 con altri gruppi nel partito della Sinistra Cristiana, prima che quest’ultimo a sua volta si sciogliesse confluendo in larga parte all’interno del potente Partito Comunista Italiano. [14]

Rodano costituì anche il principale teorico di questi gruppi politici in via di maturazione, dato che a lui si deve il principale elemento distintivo dei “cattolici comunisti”, la distinzione da essi effettuata tra materialismo storico (accettato nelle sue linee generali) e materialismo dialettico e correlato ateismo, invece rigettato in toto.

Sia la scienza della società che la prassi scientifica marxista venivano da Rodano distinte nettamente  dalla concezione generale del mondo di tipo materialistico, visto che a suo avviso i primi due elementi e punti fermi non potevano valere sul piano metafisico né  prestarsi ad estrapolazioni di tipo ateistico. Secondo Rodano ed il filone del cattolicesimo marxista, se il marxismo ed il comunismo avevano combattuto la religione là dove si erano affermati, non dipendeva dai limiti delle contraddizioni intrinseche a tale scienza sociale, bensì dal fatto che la Chiesa cattolica aveva tardato a riconoscere l’importanza del marxismo e del comunismo e li aveva invece sempre combattuti con estrema durezza.

La lotta di classe veniva considerata da Rodano come la forza motrice principale della storia, in piena sintonia con Marx, e da tale assioma egli faceva discendere che qualsiasi atteggiamento e scelta interclassista, all’interno di una società e di un’economia organizzata su base classista,  invece necessariamente non avesse senso: la dottrina sociale della Chiesa cattolica andava pertanto ripensata e riscritta tenendo conto di questo dato di fatto, dove la Chiesa doveva chiarire da quale parte stava e di quale classe sociale prendeva le difese.

L’influenza politico-teorica della tendenza legata a Rodano si rivelò molto più estesa della (limitata) forza organizzativa e dello scarso consenso ottenuto da essi tra i credenti italiani, contribuendo infatti sensibilmente a modificare nel 1946 e nel 1962/63 alcune tradizionali posizioni assunte in questa sfera dal partito comunista italiano, dalla seconda forza politica per importanza nell’Italia del dopoguerra. Aveva pertanto ragione, almeno su questo aspetto, E. Berlinguer quando scrisse nell’estate del 1983, subito dopo la morte di Rodano, che la sua opera aveva fornito “una prova concreta e significativa  della validità di due principi che egli ha serenamente professato e praticato e che, anche con il suo personale contributo, sono acquisiti  al patrimonio teorico e ideale del Partito comunista. Il primo è la distinzione e l’autonomia reciproca della politica e della fede religiosa (o della convinzione filosofica o del “credo” ideologico). Il secondo è l’affermazione – fatta da Togliatti, formulata in una tesi approvata dal X congresso del partito e sviluppata nelle tesi del XV congresso – secondo la quale un cristianesimo genuinamente vissuto non soltanto non si oppone, ma è anche in grado di sollecitare un azione che può contribuire alla battaglia per la costruzione di una società più umana, più libera e più giusta di quella capitalistica”. [15]

A partire dal 1962/63, il PCI scoprì (correttamente) che in alcune situazioni storiche la coscienza religiosa poteva diventare una potente “anfetamina dei popoli”, anche se dopo un decennio rovinò la sua acuta intuizione con l’assurda e autodistruttiva politica del “compromesso storico” con il Vaticano e la Democrazia Cristiana, legate strettamente con il capitalismo statunitense e nazionale.

Il processo di spostamento a sinistra, verso posizioni più o meno apertamente contraddistinte da una scelta di campo collettivistiche, coinvolse in buona parte anche il selezionato ordine dei gesuiti, che per più di quattro secoli (dal 1530  al 1957) era stato l’avanguardia delle tendenze più aggressive e filoclassiste della chiesa cattolica, seppur organizzando allo stesso tempo (ennesima manifestazione concreta dell’effetto di sdoppiamento in campo religioso) le splendide reducciones del Paraguay: tra il 1965 e la fine del 1979, i gesuiti si orientarono sempre più chiaramente a favore del processo di edificazione di “un mondo più giusto”, come affermò il loro (notevole) “Quarto Decreto” del 1 marzo 1975.

Come ha notato G. Zizola, i gesuiti “furono i principali difensori della politica papale anche quando dava prove schiaccianti di miopia e di immobilismo in campo sia teologico che pastorale e politico. I gesuiti furono confidenti e confessori delle corti d’Europa. Non costruirono solo gloriose cattedrali agli avamposti orientali del cristianesimo ma assicurarono anche la formazione delle classi dirigenti in Europa e nelle due Americhe aprendo alla Chiesa le vie di un’alleanza con la borghesia divenuta, col tempo, troppo soffocante per non essere ridimensionata.

L’operazione di sganciamento comincia negli anni del Concilio Vaticano II, quando i gesuiti, usciti dalle corti e dai salotti, scoprono gli operai nelle fabbriche, i poveri nelle periferie delle megalopoli, la miseria e l’ignoranza diffusi nel Terzo Mondo. I legami con le classi dominanti in Occidente subiscono allora una seria messa in questione anche per un ritorno alla “povertà” voluta da Ignazio per i suoi: specialmente in America latina e Centrale, i gesuiti assumono posizioni in contrasto con i regimi militari e con gli episcopati conservatori. Contemporaneamente si mette in moto un processo di rinnovamento interno che scuote le strutture di un ordine creato per essere “la guardia e il corpo armato per la difesa e l’incremento della Chiesa e della Santa Sede”. Nel 1965 viene eletto generale Pedro Arrupe, un basco che è stato testimone in Giappone del fungo atomico di Hiroshima. La sua politica è nuova: dà spazio alla consultazione della base, incoraggia ricerche e esperienze di inculturazione nei “nuovi mondi” (i poveri, gli induisti, gli atei, la classe operaia, gli emarginati, le culture moderne). Gesuiti sono alcuni tra i maggiori teologi che hanno fatto il concilio, da John Courtney Murray, americano, principale redattore della dichiarazione sulla Libertà Religiosa, a Karl Rahner a Henry de Lubac. Gesuiti sono i primi cattolici che obiettano pubblicamente alla guerra in Vietnam, i fratelli Barrigan, che sono messi in galera negli Stati Uniti. In India si aprono i primi ashram fra cristiani e induisti, e si avviano esperimenti di reciproca “impollinazione” tra Vangelo e culture orientali. In America latina le università dei gesuiti, i loro centri culturali e i famosi collegi diventano fonti di coscientizzazione sociale. Dei gesuiti cadono assassinati da sicari di destra.

Dopo il Concilio Paolo VI pensa ai gesuiti come allo strumento più adatto e  fidato per realizzare in modo controllato il rinnovamento dell’istituzione. Pochi come i gesuiti sono “esperti” nel dialogo col mondo e capaci delle mediazioni culturali necessarie. Tuttavia questo quadro strategico subisce delle variazioni che inquietano il papa e ne turbano il disegno: la stessa Compagnia non riesce a contenere i contraccolpi della crisi generale della Chiesa e diventa perciò proporzionalmente meno adeguata al compito affidatole dal papa. I settori conservatori , dentro e fuori l’Ordine, sono allarmati e rovesciano sulla scrivania di Montini messaggi spaventosi: la disciplina si allenta – protestano – si insegnano teologie difformi dal magistero, si elaborano, nelle riviste, teorie sociali e politiche “preoccupanti”.

L’Ordine subisce un salasso impressionante di effettivi: dal 1965 al 1974 calano da 36.038 a 29.436, con un ritmo di 800 defezioni l’anno. La divisione tra conservatori e progressisti è tale che Arrupe convoca nel  1974-75 una congregazione generale straordinaria per tentare un accordo sull’interpretazione del rinnovamento. Il tentativo fallisce. Paolo VI scende in campo personalmente deluso, per bloccare alcune risoluzioni tendenti a togliere il carattere sacerdotale della Compagnia e ad allentare il vincolo speciale di soggezione al papa. “Potrà la Chiesa confidare come sempre in voi?” scrive Paolo VI ad Arrupe, il 15 febbraio 1975, rigettando certi decreti dell’assemblea. “Come potrà ora affidare alla Compagnia, con l’animo sgombro da timori, la prosecuzione di compiti tanto importanti e tanto delicati? Dove andate?”. La reprimenda prosegue nella lettera del 7 marzo: “Noi non possiamo –  scrive Montini – condividere questa ipotesi di metamorfosi di un istituto religioso. Siamo dell’avviso che occorra sì aggiornare, adattare, vitalizzare la Compagnia, ma non trasformare, non deformare”.

La “linea rossa” religiosa venne sviluppata nella penisola italiana, verso la metà degli anni Sessanta, da personaggi autorevoli come Giulio Girardi, Don Milani (“Lettera a una professoressa”) e Don Mazzi, con la comunità cristiana fiorentina dell’Isola. [16]

Grazie alle lotte operaie ed al dirompente movimento del Sessantotto, la tendenza collettivistica all’interno del cristianesimo ottenne un ulteriore slancio sia in Italia che nel mondo occidentale, Stati Uniti inclusi, dando vita ad esperienze interessanti come quella dei Cristiani per il Socialismo, all’opera ed agli scritti dell’ultimo Martin Luther King (1965/68) ed alla teologia della liberazione nera (James Cone), agli scritti di J. Moltmann: fenomeni collegati allo spostamento di segmenti significativi di credenti ed intellettuali politici su posizioni apertamente anticapitalistiche, come ad esempio avvenne in Italia alle ACLI, dopo il congresso di Vallombrosa dell’agosto del 1970.

In Italia la spinta dal basso di ampi settori di giovani cristiani verso gli ideali socialisti e la “linea rossa”, rimanendo in gran parte credenti, divenne assai forte e radicata tra il 1967 ed il 1976. “Non siamo in molti a ricordare oggi” scriveva vent’anni dopo Filippo Gentiloni, il “vaticanista” del “Manifesto”, “la forte presenza cattolica nel ’68. La sinistra l’ha forse rimossa… Eppure, fra i protagonisti – leader e no – del ’68, molti, moltissimi si erano formati all’ombra dei campanili e nelle varie associazioni cattoliche (scout, Acli, Azione Cattolica. Fuci, e altre sigle meno note). Da molti anni il cattolicesimo italiano stava mostrando la sua vitalità in mille rivoli, che sfociarono tutti o quasi nelle assemblee sessantottesche, quando molti compagni a Pisa, Trento, Milano e altrove (forse un po’ meno a Roma e a Torino) si accorsero con meraviglia che accanto a loro si trovavano i cattolici: tutt’altro che spoliticizzati, spesso li scavalcavano “a sinistra”… La presenza cattolica costituisce senza alcun dubbio uno degli specifici del ’68 italiano: non fu così né a Nanterre né a Berkeley né a Berlino”. [17]

Uno dei simboli dei “cattolici del dissenso italiano” divenne la comunità dell’Isolotto, fondata nel 1954 da don Mazzi in un quartiere popolare di Firenze. Tutto cominciò con una lettera aperta di solidarietà ai cattolici di sinistra che il 14 settembre 1968 avevano brevemente occupato il Duomo di Parma: il 22 settembre, tre assemblee di credenti fiorentini, tra cui quella dell’Isolotto, inviarono alla rivista “I protagonisti” una lunga missiva, firmata da quattro preti e centodue laici, nella quale si affermava che “viviamo in una Chiesa che non ha a fondamento i poveri, gli oppressi, i rifiutati, gli affamati e assetati di giustizia… Una Chiesa che ammette indiscriminatamente alla mensa eucaristica sfruttati e sfruttatori… commette un tremendo  sacrilegio… La Chiesa è di fatto a servizio di coloro che strumentalizzano il Vangelo per tappare la bocca ai piccoli… La nostra coscienza cristiana ci impedisce di essere d’accordo col Papa quando vi accusa di mancanza di amore per la Chiesa”. [18]

Il caso dell’Isolotto costituiva solo la punta dell’iceberg, visto le dimensioni di massa assente dal “dissenso” cristiano e dalla “linea rossa” religiosa in Italia tra il 1967 e coinvolgendo più di un giovane italiano su dieci.

“In otto anni, dal 1966 in avanti, il dissenso praticamente raddoppia, interessando nel  1974 il 12% dei giovani fino ai ventidue anni, soprattutto studenti superiori o universitari e giovani operai, nelle aree urbane e nelle regioni del nord e centro Italia. Tutti questi cattolici votavano a sinistra: il 42% per il PCI, il 32%  per i gruppi di estrema  sinistra, il 25% per il PSI. Non per nulla il PCI e il Psiup in quell’anno proposero ad alcuni credenti di tali “gruppi spontanei” un posto nelle loro liste elettorali.

L’origine evangelica non impediva infatti che nei gruppi spontanei fosse “prevalente l’impegno politico; a esso segue l’impegno sociale e civile e a forte distanza l’impegno religioso (solo il 13% dei gruppi studiati l’hanno come impegno prevalente). Essi si collocano a sinistra, dichiarando un’assoluta laicità, rifiutando ogni possibile qualificazione confessionale, condannando il capitalismo, l’imperialismo e l’integrismo e s’impegnano per la costruzione di una “nuova sinistra”, partecipando alle lotte del Movimento operaio, del Movimento studentesco e alle lotte popolari”. [19]

Fu comunque l’America Latina, a partire dagli inizi degli anni Sessanta e fino ai nostri giorni, a costruire la nuova punta avanzata ed il focolaio principale della “linea rossa” religiosa all’interno del mondo occidentale contemporaneo.

[1] Droz, op. cit., pag. 445/449

[2] J. Guichard, “Introduzione al marxismo”, pag. 71, ed. Cittadella

[3] Droz, op. cit., pag.451/452 e pag. 463/464

[4] Op. cit., pag.650

[5] E. Hobsbawm, “I ribelli”, pag. 101/103, ed. Einaudi; J. Krakauer, “In nome del cielo”, pag. 88/234/235, ed. Corbaccio

[6] E. Beltramini, op. cit., pag. 98

[7] “Cent’anni di socialismo religioso”, in www.neuewege.ch

[8] “Leonhard Ragaz”, in it.wikypedia.org

[9] W. H. Fraser, “Keir Hardie: radical, socialist, feminist”, in etudesecossaises.revues.org

[10] J. Maritain, “Umanesimo integrale”, pag. 89, edizione Borla

[11] Op. cit., pag. 132

[12] Maritain, op. cit., pag. 214/219/220/221

[13] Op. cit., pag. 229

[14] G. Tassani, “Dalla Sinistra Cristiana al PCI di Berlinguer: la traccia di Rodano”, in www.katciu-martel.it vol. quarto, Editori Riuniti; PAG. Spriano, “Storia del partito comunista italiano”, vol. quarto, pag. 90, Editori Riuniti

[15] E. Berlinguer, “Quaderni della Rivista Trimestrale”, n. 75-77, giugno-dicembre 1983

[16] E. Mazzi, “Cristianesimo ribelle”, pag. 108/110, ed. Manifestolibri

[17] R. Beretta, “Cantavamo Dio è morto. Il ’68 dei cattolici”, pag. 16/17, ed. Piemme

[18] Op. cit., pag. 95

[19] Op. cit., pag. 118

Ratzinger o fra Dolcino? 2 parteultima modifica: 2012-02-28T11:00:00+01:00da iskra2010
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