Con Marx e senza Marx – Dal conflitto di classe al “mercato politico” (settima parte)

 

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di Salvatore d’Albergo

Nel coinvolgere sempre più giuristi delle accademie e magistrati nell’acutizzarsi di una lotta politico-sociale in cui si andava inserendo una reazione di estrema destra (con le ricadute in forme organizzate di terrorismo, inquinato da incursioni di servizi deviati del c.d. “doppio stato”), “DeD” si è trovata nel pieno di una battaglia delle idee che per la maggior parte degli anni ’70 ha visto convivere le forme di elaborazione dislocate sui vari fronti dell’approfondimento teorico e dell’analisi puntuale: puntando sia ad applicare la critica di tipo marxista alla configurazione della natura e del potere dell’impresa e dell’esplicazione anche contrattuale della sua presenza nel mercato, sia a porre una crescente attenzione alle problematiche sempre più pressanti derivanti dall’intreccio tra i rapporti politici, economici e sociali, con il ruolo delle istituzioni.

Problematiche che l’attivismo costante dei comunisti, volto a contrastare la strategia del centro-sinistra in nome di una progettualità alternativa richiamantesi in ogni campo ai principi costituzionali, trovavano nella questione della “centralità” del Parlamento (culminante nella rete delle assemblee elettive, resa dinamica dal nuovo intervento del regionalismo) il perno di un impegno contestualmente proiettato ad incidere sul sistema delle imprese, a partire dalla socializzazione del potere nell’ambito delle imprese a partecipazione statale: con effetti articolati a raggiera sui vari fronti dell’organizzazione del potere, nel cui ambito veniva acquistando una peculiarità destinata ad attraversare tutte le fasi successive dagli anni ‘70 fino ad oggi, il complessivo campo riguardante le alternative tra monopolio e pluralismo, tra pubblico e privato, tra socialità ed economicità, anche nel nuovo settore nelle comunicazioni di massa potenziate dalla articolazione del servizio radio-televisivo.

In tal modo la “questione comunista” – dibattuta dai giuristi (12) in un confronto serrato sulla qualità e gli effetti della lotta per la riforma della società e dello stato – si andava dipanando in un contesto di crescita ed estensione della democrazia di massa prodotta da un fermento pervasivo di tutti i settori della vita sociale: in nome di quella “partecipazione” dotata di angolature diverse ed anche contrapposte, ma tali comunque da coinvolgere criticamente gli assetti di potere nella società e nello stato, in nome di “bisogni” corrispondenti ad una “domanda sociale” che premeva per incidere sia sulla produzione di “beni” che sulla produzione di “servizi”, alla luce della nuova “qualità della vita” valutata in modo integrale (diritto di famiglia, divorzio).

In tal senso il “territorio” aveva assunto un ruolo determinante per una nuova visione delle questioni sociali, esaltandone la funzione di legittimazione di poteri antagonisti del potere tradizionale, dalla cui crescita poteva discendere la nascita di “diritti” in quanto derivanti da processi di trasformazione reclamati da movimenti, partiti, formazioni sociali, in un conflitto perciò divenuto sempre più aspro, muovendo dal ruolo dell’ideologia per investire con forme organizzate – anche inedite, come i “consigli di quartiere” nelle città, e i “consigli di zona” nell’interrelazione dei settori produttivi – quei centri del potere capitalistico puntellati dagli “apparati ideologici di stato”.

Nel contempo, e su tali presupposti, la questione delle alleanze assumeva gradi di maturazione e sviluppo diverse, dal campo della “unità sindacale” a quello di un pluralismo politico condizionato dai tentativi mai abbandonati di isolare i comunisti che, viceversa, nel sistema delle assemblee popolari puntavano ad esaltare la capacità di orientare le maggioranze “legislative” – proiettate in Parlamento a rivendicare riforme socio-istituzionali – in contrasto con le maggioranze “governative” su cui arbitrariamente si insisteva ad onta della crescente difficoltà della Dc di unificare le formazioni anticomuniste in inesorabile perdita di consenso: in un contesto parlamentare nel quale il partito neo-fascista (che era stato l’avventuristico puntello del governo monocolore Tambroni del 1960) vedeva ridurre il proprio ruolo di puntello alle forze più conservatrici, come sancì esemplarmente la sua esclusione dal consiglio di amministrazione della Rai-tv a complemento della “riforma” democratica del servizio pubblico nel 1975.

Non è un caso, quindi, che nel vivo di tale andamento del conflitto sociale e politico – quando cioè maturavano le condizioni elettorali risalenti alla fecondità della “proporzionale pura” per la possibilità che i comunisti “governassero” non solo dal parlamento ma anche dai vertici dell’”esecutivo” centrale (oltre che da quelli regionali, provinciali e comunali, in numero dilagante) – le forze conservatrici e reazionarie in forma anche di potere “occulto” abbiano lanciato una controffensiva tale da confermare con il “piano di rinascita della “P2” (che seguiva nel 1975 il documento della “Commissione Trilaterale” del 1973, contro la “complessità” della democrazia) come il terreno privilegiato della cultura dei gruppi di potere organizzati dal capitalismo sia ripetutamente quello delle questioni “istituzionali”, necessario ad affermare la capacità di tenuta delle pretese di dominio economico-sociali: ciò che spiega anche perché abbia scelto tale terreno , a sua volta, quella parte della cultura della c.d. “sinistra riformista” che, per contribuire ad arrestare la capacità di influenza dei comunisti, si è poi destreggiata nel contrastarne pregiudizialmente la compatibilità stessa con la democrazia, lanciando a sua volta un offensiva ideologica imperniata sulla c.d. “inesistenza” di una teoria marxista del diritto e dello stato.

Va infatti sottolineato come la controffensiva anticomunista – che per i tornanti degli anni ’80 e ’90 ha provocato progressivamente gli esiti devastanti che sono sotto i nostri occhi – abbia seguito due strade destinate a incontrarsi , nel senso che mentre le forze reazionarie hanno aperto il fronte delle “riforme istituzionali” volte a destrutturare la Costituzione del 1948, dal canto suo la cultura liberal-socialista impersonata da Bobbio (divenuto nel tornante degli anni ’70 cattedratico di “Filosofia della politica”, dopo aver vissuto un’intera esperienza di cattedratico di “Filosofia del diritto”) ha innescato una più diretta e mirata polemica contro la stessa proponibilità di una strategia di “via al socialismo”, all’ombra di un comportamento velato di ambiguità perché sul piano personale egli intendeva considerare i comunisti non come “nemici” da combattere, ma come “interlocutori” di un dialogo sulle ragioni della sinistra, ponendosi “né con loro, né senza di loro” (13).

Ed è già del 1973 un primo intervento sulla “Democrazia socialista”, seguito da quello “sull’esistenza di una dottrina marxista dello stato” (14), con un interrogativo su “Quale socialismo?” (15) : in termini tali da contribuire ben prima della fine degli anni ’80 (e soprattutto della crisi del “soviettismo”) a quell’ondeggiamento del Pci come componente della crisi generale del sistema politico-istituzionale, nel passaggio dalla fase della “democratizzazione” alla fase della “modernizzazione, sulla spinta cioè delle “riforme istituzionali” egemonizzate dalla cultura della destra sociale e politica (ad oggi rivendicate da Gelli, come frutto visibile delle sue pressioni).

Quel che è valso a Bobbio l’effetto di avallare le inclinazioni di quella che si è poco per volta palesata come “destra” comunista verso la prospettiva di una alternativa “di sinistra” anziché “democratica” per le suggestioni del “craxismo” combattute strenuamente da Enrico Berlinguer, è infatti riassumibile nelle tesi secondo cui “concettualmente” si deve distinguere tra democrazia “politica” e democrazia “sociale”, perché in concreto la tradizione culturale che risale agli antichi classici non potrebbe consistere che nella democrazia politica, per il carattere prevalente di democrazia “come metodo” e quindi per gli aspetti “formali” che vi ineriscono: donde la tesi della “incontrollabilità democratica (cioè dal basso) del potere economico”, in contrasto con quella secondo cui il processo di democratizzazione non può peraltro dirsi compiuto se non vengono intaccate dalla democrazia “l’impresa e l’apparato amministrativo”, cioè quelli che egli ha definito “i due blocchi di potere discendente gerarchico in ogni società complessa” (16).

Il che è tanto più singolare se per un verso si è sostenuto che il sistema capitalistico “non si piegherebbe” mai nei confronti di qualunque tentativo democratico di trasformazione (donde l’inevitabilità della “violenza” capitalistica); e per un altro verso si è individuata alla fine degli anni ’60 una teoria “funzionale” del diritto, imperniata non già sull’esistenza dei principi della costituzione italiana sulla programmazione dell’economia, ma solo sui principi di “incoraggiamento” – in funzione c.d. “promozionale” del diritto – delle attività economico-sociali, che quindi sono ispirati anziché al controllo, al “sostegno” del ruolo del sistema di potere delle imprese (17).

Le due linee eversiva e riformista procedevano senza incontrarsi né contrastarsi, come se le questioni teoriche potessero solo sorvolare quello che si profilava come contrasto (anche violento) sia sul “campo” (ove operavano “autonomi” e “terroristi”) sia nel “palazzo” (sino a culminare nel “caso Moro”), mentre il sindacato a sua volta con i “contratti-riforma” sviluppava una strategia di attacco al potere dell’impresa e degli apparati amministrativi (che Bobbio riteneva “immuni”), oltre i limiti cui si era potuta spingere la pressione del partito comunista per l’introduzione di misure di controllo istituzionale delle strategie delle imprese pubbliche coinvolgendo (come nel caso emblematico della Rai-tv) il ruolo del parlamento e delle assemblee regionali e un nuovo uso della “società per azioni” a totale partecipazione pubblica.

Il nesso tra democrazia rappresentativa e democrazia diretta ha avuto in tale contesto una riproposizione su basi tali da configurare una convergenza tra strumenti di democrazia di massa come quelli volti a collegare “soggetti sociali” e istituzioni pubbliche e private (concernenti propriamente la democrazia sociale), e strumenti di democrazia politica come l’iniziativa legislativa “popolare” o più diffusi come il referendum, di cui non va peraltro dimenticato che l’avvio per l’abrogazione del divorzio risale all’iniziativa di un “comitato promotore” clericalmente ispirato: non perdendo di vista che ciò è stato poi occasione di un seguito da parte di movimenti e partiti che si sono affiancati al partito radicale in una strategia di attacco spostato sul terreno della “abrogazione” di leggi variamente distribuite nell’ordinamento (sia dell’epoca fascista, sia della fase repubblicana).

Profilandosi in tal modo una divaricazione (se non vera e propria contrapposizione) tra strategie riguardanti gli assetti del potere economico per socializzarne la funzione e strategie rivolte agli aspetti della “soggettività” dei singoli cittadini nei “rapporti civili”, piuttosto che in quelli sociali (o della “comunità politica”, come in materia di pace e di rapporti internazionali).

La Rivista, organizzatasi nel frattempo con un “comitato scientifico” di 50 membri (con una prevalenza di docenti delle varie specializzazioni, su un manipolo di magistrati e di esponenti di partito), e con un “comitato editoriale” attorniante fino al 1984 il direttore Luigi Berlinguer, ha continuato a svolgere il suo impegno su tutti i versanti dell’organizzazione dell’impresa sottoposta a incidenza negli assetti concernenti il ruolo del sindacato e il conseguente potenziamento dei diritti dei lavoratori, spaziando anche sui rapporti internazionali a loro volta condizionati dal “bipolarismo” armato da missili che mettevano in gioco la pace “del terrore”: avendo nel contempo una spiccata attenzione ai problemi istituzionali e di funzionalità interpretativa caratterizzante una magistratura sempre più coinvolta nelle dinamiche della riforma culturale e operativa, prodotta dalla dialettica tra le correnti del CSM (18).

Sicché, soprattutto a distanza di tempo e alla luce degli svolgimenti successivi agli anni ’70, risalta il fatto che in “DeD” abbiano trovato sbocco le critiche di giuristi la cui formazione culturale li trovava estranei all’impostazione strategica della “questione comunista” ( Rodotà, M.S. Giannini, Guarino, Fois), mentre non vi ha trovato spazio una adeguata replica all’operazione ideologica e politica di Bobbio , intesa a enfatizzare la denuncia che per Marx non sarebbe rilevante “un’articolata” teoria dello stato (essendo per lui rilevante solo “chi governa”, e non come “si governa”), nel contesto di una presa di distanza da una “democrazia sociale” i cui valori portanti proprio in quella fase erano stati rilanciati nel mondo cattolico dal Vaticano II di ispirazione “giovannea”.

Attivandosi da ogni parte l’obiettivo di delegittimare la strategia istituzionale dei comunisti, che ne stava supportando la capacità di spezzare il blocco imposto dalla Dc al sistema politico per un trentennio, sul presupposto secondo Bobbio di una presunta “incompatibilità” con la democrazia politica del processo di transizione al socialismo, che ha poi dato luogo ad una replica di Cerroni più in termini di esistenza di una “scienza politica” che di una “scienza giuridica” marxista (19) ciò che si spiega col fatto che il filosofo marxista a tal proposito aveva già esplorato la strada che “DeD” aveva cercato di seguire con la nuova serie del 1973.

Si era venuta a creare così una situazione per cui, giocando sulla separatezza dei due fronti culturali del “diritto” e della politica” che i marxisti puntavano viceversa a ricomporre nell’”unità organica” contestata da Bobbio, il partito socialista “autonomista” ha potuto inserire una strategia volta a scomporre la politica istituzionale del Pci che – qualunque giudizio si formuli sul rapporto tra la politica del “compromesso storico” e della “solidarietà nazionale” – puntava a fare della “centralità” del parlamento la base istituzionale del superamento del centro-sinistra in vista di equilibri volti a ricostituire, nelle nuove condizioni sociali e politiche, un rapporto tra i partiti di massa che riecheggiasse il nesso tra elaborazione ed attuazione dei principi costituzionali, in una critica fase che reclamava l’esigenza di contemperare il consolidamento della democrazia con la tenuta dell’ordine pubblico, messo a repentaglio con spinte dall’alto e dal basso eversive e contestative.

Tenendo ben presente che tutte le analisi politologiche e giuridiche relative alle condizioni della democrazia tendevano a spostare sul terreno “sovrastrutturale” – in nome della deviante c.d. “autonomia del politico” – la preminente questione “strutturale” concernente i rapporti tra politica ed economia e quindi – in termini analitici – la legittimità o meno dell’adozione sul terreno legislativo (oltre che del ruolo del sindacato) di interventi sull’assetto di potere normativo e istituzionale rivolto a vincolare le grandi imprese a uno sviluppo produttivo “programmato”, secondo criteri cioè di “finalizzazione sociale” come prospettato dall’art. 41 C.: sì che lo stesso Psi (con riflessi sui rapporti nella Cgil) aveva subito lacerazioni (con le dimissioni dal governo del Ministro Giolitti), di fronte alle alternative sollevate dalla proposta che le imprese si “conformassero” agli indirizzi politici, implicando ciò una convergenza verso scelte ispirate alla visione dei comunisti circa la “democraticità” di una programmazione presentata – viceversa – dal centro-sinistra come “tecnocratica” e “verticistica” per la “politica dei redditi”.

Tale questione che aveva raggiunto il suo acme tra gli anni ’60 e ’70, non aveva perso il suo carattere di catalizzatore degli schieramenti culturali e politici anche sui contrasti ribaditi negli anni che vanno dal 70 al 78, e così si spiega il ripetuto focalizzarsi del pensiero di Bobbio sull’antitesi tra democrazia politica e democrazia sociale, e dal canto suo il qualificarsi della svolta “craxiana” prospettante anche una “grande riforma istituzionale” per contestare – insieme – centralità del parlamento e disegni di controllo sociale e politico delle imprese, in nome dell’autonomia del “mercato” e contro l’invasività dello stato.

 

In tal senso risaltavano su “DeD” le posizioni alternative di Barcellona e Galgano, a latere di quelle di Predieri ed Amato nel Psi, per una dialettica che è comprensibile risalendo ai presupposti teorici su cui non solo Cerroni ma anche lo stesso Barcellona si era impegnato (20) sfociando nella valutazione dei “problemi istituzionali del caso italiano” (21): nel momento stesso in cui era stato nitidamente precisato il ruolo di “partito di massa e di governo delle classi dominanti” della Dc, poi messo in crisi dal Psi (22) .

(segue)

 

(12) nelle annate ’74-75 di “DeD”

(13) donde una raccolta di suoi scritti, enfaticamente intitolati “Né con Marx né contro Marx”, a cura di C. Violi,

1997

(14) in quaderni di Mondo operaio, 1973

(15) entrambi ripubblicati in Quale socialismo? 1976

(16) come sottolineato in Bobbio “Il futuro della democrazia”, 1984

(17) Bobbio, Dalla struttura alla funzione, 1977

(18) i due “Quaderni di Democrazia e Diritto”, rispettivamente sull’antifascismo e sul nuovo ruolo del parlamento,

sintetizzavano l’impegno specialmente dei costituzionalisti, ormai coinvolti più ampiamente che nella

fase precedente.

(19) nel dibattito pubblicato nel Quaderno n. 4 di “ Mondo operaio”

(20) Barcellona, in L’educazione del giurista, 1973; Stato e mercato, 1976, sulla scia dell’impostazione intorno alla

concezione “alternativa” del diritto

(21) Barcellona in La repubblica in trasformazione, 1978

(22) Cassano, Il Teorema democristiano, 1979

 

Con Marx e senza Marx – Dal conflitto di classe al “mercato politico” (settima parte)ultima modifica: 2012-03-12T08:22:00+01:00da iskra2010
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