Con Marx e senza Marx Dal conflitto di classe al “mercato politico” (nona parte)

 

Marx Karl 8.jpg

di Salvatore d’Albergo

Per addentrarsi nella comprensione dello svolgersi della fase 1986-1997 occorre ancora una volta, e forse con più fondamento, tener conto dei protagonismi di destra e sinistra del partito, che si sono marcati tramite le distinte e ambigue interpretazioni della denuncia di Berlinguer della “questione morale” e del ruolo dei partiti, non già in termini equivalenti alla tradizionale critica di destra contro la “partitocrazia” perché fondata sui partiti di massa: ma in una tensione a rinnovare anche il “partito nuovo” togliattiano, non già cedendo alle pretese di “controllo” dall’esterno e dall’alto dell’organizzazione di partito (come si sollecita oggi anche dal centrosinistra), ma rendendolo più adeguato ai cimenti richiesti contro il crescente distacco negli anni ’80 tra popolo e gruppi dirigenti, perché “nuove generazioni entrino in campo” per continuare la lotta anticapitalistica per la trasformazione in senso socialista.

E’ così avvenuto che nel respingere la “diversità” rivendicata da Berlinguer, la destra migliorista e governativista dopo la morte del leader carismatico è stata poi imprevedibilmente surclassata da una sinistra portatrice di analisi sulla nuova fase del capitalismo, divenute persino dissacranti, come nell’affermazione di Ingrao secondo cui già dall’ingresso dell’Italia nel Patto Atlantico (1949) si sarebbe avviato il “rovesciamento reale dell’ipotesi emancipativa delle relazioni sociali prospettata nella Costituzione (30); passando così dalla convinzione che “dentro le righe della costituzione” c’è l’indicazione di un programma che “sposta le basi sociali dello stato (31), alla constatazione poi che la “costituzione nasce e muore contemporaneamente” per il sopravvenire della Nato. In linea con quella che poi è divenuta un’interessata litania, secondo cui dopo le lotte degli anni ’60 e ’70 “c’è stata una sconfitta”, non ci si avvedeva di precludere la possibilità (proprio in quella fase di crisi) di aprire brecce favorevoli ad una reale “democrazia di base” in contrasto con gli obiettivi della c.d. “democrazia referendaria”, gestita in nome della democrazia diretta da gruppi di vertice della borghesia, anche tramite i partiti, oltre che con i nuovi “comitati promotori” valorizzati addirittura come soggetti “costituzionali”.

In tal modo la questione istituzionale, invece di rapportarsi come in precedenza ai termini sociali della “questione comunista”, ha finito per neutralizzarsi, perdendo la sua specificità a causa dell’ormai consolidato orientamento ad accettare la discussione dei progetti “revisionistici” sollecitati da Dc e Psi, in termini differenziali sul piano delle forme “modellistiche”, ma equivalenti perché “omologhe” sul piano “ideologico”, poiché tale risulta la qualità della convergenza in nome della “stabilità” di sistema tra i partiti dell’”alternanza”, ormai rivelatasi dopo la morte di Berlinguer come l’unico criterio di commisurazione delle leggi elettorali e delle conseguenti forme di governo: contro cioè i processi di trasformazione come tali destinati a provocare le “instabilità” contestate dai gruppi di potere legati al capitalismo dell’intero occidente, a partire dagli Usa e dalla Gran Bretagna.

Non si può non rilevare che il valore simbolico e perciò isolato della proposta di Ingrao sul c.d. “governo costituente” del 1986 aveva però implicazioni sottese, a partire da quella accattivante perché convergente con le critiche diffuse (ma mascherate da una serpeggiante denuncia delle infiltrazioni mafiose e di poteri criminali), contro il corrompimento delle istituzioni, a partire dalle elezioni locali e dalla individuazione nei voti di “preferenze” di una inconsapevole formalizzazione di pericolosi circuiti opachi e criminogeni, donde l’inopinata uscita di Occhetto sul traghettamento del partito all’interno di quel campo di rapporti culturali, sociali e politici che era stato sino alla prima metà degli anni ’80 considerato il quadro di riferimento di una lotta irrinunciabile per la trasformazione imperniata sui Principi Fondamentali e sulla Prima Parte della Costituzione, cioè per una democrazia più avanzata a partire dai rapporti politico-istituzionali.

Si andava così delineando un orientamento – cui di lì a poco si è cercato di dare copertura, addebitandolo essenzialmente alla caduta del “socialismo reale” – volto alla salvaguardia di gruppi dirigenti ormai sganciati dalla tradizione culturale e politica del marxismo e della lotta di classe, fuori dall’orbita con cui avevano operato nella logica di un partito “antisistema”, senza tener conto che l’adesione al sistema medesimo sotto lo slogan del valore ormai solo generico della “democrazia” implicava un confuso e acritico coinvolgimento sulla scia di indirizzi tracciati dai partiti non più marxisti dell’Europa occidentale, la cui ortodossia “socialdemocratica” era oltretutto incerta e non generalizzabile: con inevitabile trascinamento verso una cultura “istituzionale” che sino a quel momento era stata sottoposta a critica in nome della “centralità del Parlamento”, la cui impostazione aveva come referente “sociale” l’attacco al potere del sistema delle imprese in una fase del capitalismo che se non era ancora nel pieno della “transnazionalità”, era comunque già di segno nettamente “multinazionale”, in quella che era stata enfatizzata – per “comprimere” la democrazia – come “complessità” (coniugando, con una sorta di terrorismo ideologico, la sociologia di Luhman, con il dispiegarsi della tecnologia informatica, e con le pressioni della “Trilaterale”, cui seguì il progetto della “P2”, esplicitamente e concentratamente ispirata da una cultura “istituzionale”).

Scavalcando così la “destra migliorista” che non poté certo sollevare obiezioni contro un’operazione che non aveva nulla di “sinistra” nonostante la “soggettività” dei protagonisti della creazione del PDS, la deviazione di Occhetto comportava nel lavoro di “DeD” l’assunzione di un paradigma diverso da quello posto in campo nel 1973, sì da accentuare gli effetti delle divaricazioni non clamorose ma sottilmente insinuatesi in una elaborazione sempre più articolata (la Rivista era divenuta persino “bimestrale”, da “trimestrale”), ma posta in condizione di scivolare più o meno lentamente o incisivamente quando i colpi dell’autonomia “craxiana” contribuirono a quei contraccolpi sfociati in quella che si è chiamata “seconda repubblica” mascherandone gli ascendenti politico-culturali gravitanti sul terreno della revisione della forma di governo dietro le vicende (pur significative della non fortuita capacità di una parte della magistratura di mantenersi essa almeno caposaldo della democrazia uscita dalla Resistenza) che hanno preso il nome di “tangentopoli”: quando cioè si è passati dalla forza ispiratrice di un nuovo tipo di “governo democratico dell’economia” all’uso di strumenti di un “diritto penale dell’economia”, assurto di recente ai fasti della degenerazione della lotta culturale e politica.

Da tutto ciò è derivato, che nella Rivista si tentasse – ed è avvenuto a più riprese, sino ad oggi – l’impegno per il recupero di valori della società posti a presidio di “diritti” vecchi e nuovi, puntando a latere della deriva delle istituzioni a fare i conti con esigenze e bisogni tuttora avvertiti a livello di massa, per fare da “controspinta” con referendum abrogativi (cui aggiungerne, se possibile, anche di “propositivi”), volti a contrastare l’imporsi di normative (specie in materia ambientale) insensibili alla necessità di tutelare il territorio e i soggetti che vi gravitano: ma assistendo con progressiva presa d’atto, e con più o meno organica rappresentazione dell’evolversi lento ma ininterrotto della nefasta strategia delle riforme istituzionali (mai abbandonata dopo l’esito “interlocutorio” dei lavori della “Commissione Bozzi”). Mentre aveva lasciato tracce insinuanti il lavoro politico-culturale (non sottoposto alla critica che avrebbe meritato) del “gruppo di Milano” guidato dal Miglio (32) (poi profilatosi persino come “leghista”) ed orientato addirittura a perseguire l’elaborazione di una “nuova Costituzione”, radicalmente opposta al modello di quella del 1948, investendo non solo la Seconda Parte ma anche la Prima (e coinvolgendo poi, come “dialogante” anche Augusto Barbera, membro allora del comitato scientifico di “DeD”) (33).

Va quindi notato come a partire dal passaggio degli anni ’80-’90 la Rivista abbia cercato di istituire una coerenza tra l’attenzione all’uso dei referendum come veicolo comunque idoneo a dare sbocco ad espressioni sociali e politiche della società civile, – nella quale peraltro hanno sede le contraddizioni più acute tra gli interessi di classe – e la illustrazione (più distaccata che critica) dei tentativi ripresi verso la revisione ormai non più indicabile con l’ambigua formula di “istituzionale”, perché esplicitamente e oltranzisticamente “costituzionale”: finendo per essere in definitiva acquiescente al comportamento che a latere assumevano i gruppi politici “ex comunisti” ed “ex democristiani” (confluiti poi con gli esponenti che hanno dato vita al PD), che nel segno del “bipolarismo” centrodestra/centrosinistra, dietro la ripetuta ma mistificatoria volontà di introdurre solo “adattamenti”, “ammodernamenti” alla Seconda Parte della Costituzione, hanno ingaggiato una contesa che in realtà ha assunto i contorni del passaggio dalle riforme di c.d. “dettaglio” contenuto nelle leggi costituzionali entrate in vigore tra il 1948 e il 1992 (cioè degli “emendamenti”), a ben più incisive riforme “organiche”. Che avrebbero dovuto essere pregiudizialmente inibite anche alla luce di una sentenza della Corte Costituzionale (n.1146/1988) tanto enfatizzata, perché ha parlato di “alcuni principi supremi che non possono essere sovvertiti o modificati nel loro contenuto essenziale” da leggi di “revisione costituzionale” anche se “non espressamente menzionati”: sicché è singolare che non si sia pensato a considerare contenuto “essenziale” il nucleo di principi concernenti la “forma di governo” funzionale all’attuazione della “forma di stato” di democrazia sociale, da quei costituzionalisti che si sono tanto adoperati per formulare proposte tutte sul piano inclinato delle ben più oltranzistiche (e più conseguenti) modellistiche care al centrodestra.

Negli anni della sedimentazione di quanto è esploso dopo l’entrata in campo di Berlusconi – affrontata questa con la inevitabile tensione critica, quando però il centrosinistra ormai si limitava a giustapporsi alla deriva politico-istituzionale – in “DeD” ci si è limitati a fare da contrappunto a quel che veniva precipitando (per gli impulsi persino del Presidente Cossiga) in seno alla seconda “Commissione bicamerale” (De Mita/Jotti), e resta certo significativa di una sorta di attendismo la serie di articoli (di Pasquino, Barbera, Cantaro, Salvi ed altri) (34), che puntualizzavano i termini delle questioni elettorali e di alcune forme di governo straniere, ma privandoli delle connessioni con la “questione sociale” che nell’avvio della nuova serie era stata assunta (anche se con i “distinguo” suaccennati) a criterio qualificativo del modo di valutare i problemi del diritto e dello stato in senso “democratico” e non “autoritario”.

Solo in tal modo si sarebbe potuta prospettare una critica che andasse – come era necessario – oltre l’enunciazione “esplicativa” dei modelli che erano assunti da parte dei “craxiani”, ma anche da correnti della Dc, e omologate ideologicamente dalla categoria concettuale della “governabilità”, che fa tradizionalmente della “stabilità” istituzionale il corrispettivo della “stabilità” del sistema economico, cioè capitalistico: con, o senza, la c.d. “globalizzazione”, ostentata dalla cultura della “sinistra” post-comunista, più che da quella conservatrice consapevole e forte comunque della continuità tra le fasi di crisi/sviluppo del capitalismo nel passaggio tra 800, 900 e 2000.

Ciò avrebbe ovviamente comportato che il notevole spazio che la Rivista ha sempre dedicato alla varietà delle questioni teoriche e operative relative ai “diritti” dei singoli, dalla “cittadinanza sociale” alla “cittadinanza politica” – con i numerosi fascicoli “tematici” meritevoli comunque di considerazione anche a se stanti – proseguisse anche negli anni ’90 e a seguire quell’uso del marxismo che non si è ancora spiegato perché debba ritenersi affossato con le rovine dell’89 sovietico, rimanendo poco influente lo svolgimento di una “filologia” di un marxismo consegnato solo alla “storia del pensiero”, e presa come politicamente asettica.

In carenza di ciò, le vicende che a più riprese hanno avuto corso – con le revisioni costituzionali del 2001 (appannaggio del centrosinistra), e del 2005 (imposta dal centrodestra, e cassata quest’ultima dal referendum del 2006, passato poi sotto silenzio incomprensibilmente, o “pour cause”) – sono state accompagnate da una scarsa considerazione critica, a partire dal ruolo della già menzionata Commissione De Mita/Jotti, in cui è documentata tra i refusi poi ripresi dalla Commissione D’Alema del 1997, la prima discussione sulla riforma “federalista” (nei confronti della quale i responsabili di Rifondazione comunista dal canto loro si sono limitati a dire che, si chiamasse regionalismo “forte” o “federalismo”, l’essenziale era procedere nella direzione prospettata).

Quel che soprattutto merita rilevare è che sempre in carenza dei presupposti di una valutazione dei rapporti della questione istituzionale con quella sociale, anche i saggi succitati non hanno posto nella debita evidenza l’interconnessione che c’è tra i modelli dei metodi elettorali e i modelli delle forme di governo, coonestando così una separazione che contrasta con la realtà sia istituzionale che sociale – persino se prese arbitrariamente come a sé stanti : ciò che non sfugge ai conservatori moderati (oltre a quelli reazionari simboleggiati dal documento della “P2”) che non deflettono dal perseguimento sempre lucido dei loro obiettivi, sino al punto che Bognetti (uno dei protagonisti del “gruppo di Milano” diretto da Miglio) non ha avuto neppure difficoltà ad affermare che il modello del 1948 è ispirato alla “democrazia sociale”, per sostenere però che esso sarebbe stato alterato dal protagonismo perverso del Pci (35).

Si è così trascurato di precisare quali sono gli ascendenti ideologici dei modelli di forma di governo sia francese che tedesco, come se si potesse prescindere dai contesti socio-politici delle rispettive evoluzioni istituzionali, deformando cioè un’analisi che dovrebbe essere complessiva con le discettazioni tecnicistiche – oggi addirittura imperanti – sull’uninominale “a doppio turno” e sul “proporzionale” (misto a “uninominale” o a vocazione “maggioritaria”) con “abbattimento alla base”, come se non fossero l’una e l’altra soluzione manipolative della lineare “rappresentatività”, in precisa funzione da un lato di una forma di governo dominata dal doppio (ma chiamato “semi”) presidenzialismo francese, e dall’altro lato dal “cancellierato” germanico. E soprattutto prescindendo dalla identificazione delle cause di due modellistiche, univocamente rivolte a escludere la “sinistra estrema” (o “rivoluzionaria”) dal circuito del potere di indirizzo politico: particolarmente in Germania con una pervicacia tale oggi, che appare ancor più sorprendente l’apologetica dei giuristi “pro centrosinistra” (ma anche sinistra c.d. “radicale”), per il metodo elettorale “tedesco” (o di Bonn), dove quel che conta è appunto la più emblematica “manipolazione” del proporzionale in senso “maggioritario” (enunciando così “una“ soluzione ”proporzionalistica”, come si va propagandando, a scapito della proporzionale integrale.

E in proposito, merita rimarcare il fatto che Barcellona e Cotturri (nonché Cantaro) – protagonisti particolarmente incisivi dell’avvio dell’”uso del marxismo” nella critica politico-istituzionale, e continuatori vicendevolmente della conduzione di “DeD” – non hanno intrecciato le loro assidue analisi con quelle di altri collaboratori che viceversa hanno concorso alle elaborazioni “revisioniste” di “Astrid”, l’Associazione che (come sezione dell’”International Association for reiventing government”) persegue lo studio delle regole della democrazia maggioritaria e bipolare nonché della attuazione della riforma federale italiana (sotto la presidenza di Bassanini, che si era espresso in senso “revisionista” nella stessa “DeD”) (36).

(segue)

 

(30) Ingrao, in Crisi della giurisdizione e crisi della politica, 1989

(31) Ingrao, in Masse e potere

(32) in AA.VV., Verso una nuova Costituzione, 1983, 2 voll.

(33) in AA.VV, Verso una nuova Costituzione cit.

(34) “DeD” del ’90 (n.2) e del ’91 (n.3-4)

(35) AA.VV., Verso una nuova Costituzione, cit.

(36) in “DeD” 1984, n. 1-2

 

 

Con Marx e senza Marx Dal conflitto di classe al “mercato politico” (nona parte)ultima modifica: 2012-03-16T08:17:00+01:00da iskra2010
Reposta per primo quest’articolo