“Globalizzazione” dei disavanzi di stato, dell’economia di guerra e degli armamenti.

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Di Angelo Ruggeri

Piccoli “nuovi Bismark” (Blair, Amato, D’Alema, Fischer, ecc.) si aggirano per l’Italia e l’Europa svelando il riformismo come “real-politic”, cioè come “realismo regressivo” o reazionario che parte dalla realtà per conservarla, contrapposto al “realismo progressivo” di chi parte dalla realtà per trasformarla

 

Guerra preventiva”. O imperialismo?

(Pubblicato 6-10-02 col titolo L’imperialismo di una guerra inutile”: di Angelo Ruggeri)

Le conseguenze del mancato controllo sociale dell’economia d’impresa capitalistica

nell’attuale situazione del capitalismo.

La “Globalizzazione” del capitalismo finanziario, “globalizzazione” dei disavanzi di stato, dell’economia di guerra e degli armamenti come valorizzazione del capitale ed ineluttabile spinta espansiva insita nell’accumulazione capitalistica.

Riparliamo, per favore, di “imperialismo”. “Cosa c’è di più ‘imperialista’ di una ‘guerra preventiva’ ?”, ha chiesto a Blair il leader liberale inglese. Nessuno in Italia ha osato tanto.

Il termine, “imperialismo”, è di quelli che ha caratteri concettuali forti, specifici, anche per la storia, poco revisionistica, che evoca, storia che in Italia si vuole o riscrivere o dimenticare. Importante, sia per quanto riguarda la descrizione di un fenomeno che si presenta con tratti distintivi e marcati, sia per il problema squisitamente storiografico relativo alla periodizzazione dell’età contemporanea, di cui si parla anche come età dell’imperialismo.

La storia. Coniato in Francia per Napoleone III, entrò nell’uso comune proprio in Inghilterra, con l’espansionismo del governo Disraeli, verso l’880. Ed è in Inghilterra che il liberal-fabiano (da Quinto Fabio il temporeggiatore), Hobson, nel ‘902 l’individua come nesso tra economia capitalistica ed espansione e spartizione del mondo, con ogni mezzo, fino alla guerra.

Ma è la scuola marxista (dalla Luxemburg a Bucharin), soprattutto Lenin, a porre con estrema chiarezza sia le questioni attinenti alla natura dell’imperialismo, al suo collegarsi, con elementi di continuità e di differenza, allo sviluppo del capitalismo, sia la questione del posto che il fenomeno occupa nella storia contemporanea, assumendo il concetto di “fase” e storicizzando l’imperialismo come forma e “fase” suprema del capitalismo monopolistico che si concentra in trust sovranazionali, e usa lo stato, la scienza, il capitale finanziario nato dalla simbiosi tra capitale industriale e bancario, per dominare il mondo.

Tesi che trova elementi di grande importanza soprattutto in Francia, dove a partire dagli anni ’80, avviene un “rapido incremento del capitale finanziario” – peculiarità storica del fenomeno – “mentre il capitale industriale decadeva, determinando un grande intensificarsi della politica annessionistica (coloniale)”.

Il “secolo lungo”. E’ la fase del “secolo lungo” (non “il secolo breve” che mistifica il titolo del libro di Hobsbawm, che in inglese è “il secolo degli estremi”), iniziato con le lotte di fine ‘800 per la spartizione delle risorse mondiali; che ha dato luogo in tutto il ‘900 a conflitti inter-capitalistici-imperialistici e a lacerazioni di classe, tra cui 2 guerre mondiali e la Rivoluzione d’Ottobre; e arrivato, per successive acquisizioni, all’attuale cosiddetta “globalizzazione” del capitalismo che si concentra e centralizza in “200 trust e monopoli che dominano il mondo e le menti” (“Le Monde diplomatique”, 4/’97).

Dunque, non è un “nuovo capitalismo”, diverso da quello di Marx e Lenin, come mistifica la “sinistra di sistema” di piazza o di governo che li ha abiurati. Tanto che, nel ‘97, come già ricordato in altra occasione, il finanziario “New Yorker” proclamò Marx “il prossimo grande pensatore”. Un genio, per i capitalisti, che affrontò la “globalizzazione” già nel 1848, nel più famoso “Manifesto” politico di tutti i tempi, come ineluttabile spinta espansiva insita nell’accumulazione capitalistica che porta la borghesia a creare “ un mondo a propria immagine e somiglianza”.

L’età contemporanea. E’ il capitalismo e la fase dell’età contemporanea, o dell’imperialismo, diversa dell’età moderna, e dal colonialismo, e che inizia, appunto, quando la frattura dialettica tra capitalismo e le forze antagonistiche che tendono a rovesciare il suo meccanismo economico e sociale, diventa – nella realtà e nelle coscienze – potenzialmente eguale in tutto il mondo, proprio per la progressiva “globalizzazione”.

Le tre scuole dei rapporti internazionali. Ne risulta potenziato lo sviluppo della teoria marxista dell’imperialismo, la sola delle 3 principali scuole dei rapporti internazionali – la “realista” (nazionalista), a cui si riferisce Kissinger per intendersi; la “pluralista” (liberale); la “marxista” –, la cui ultima tappa (fine anni ‘60) coglie il fenomeno dell’internazionalizzazione del capitale, come esportazione “del modo di produzione” e “riproduzione dei rapporti sociali capitalistici”, dove non c’erano. Con l’insediamento di filiali di imprese transnazionali, che mantengono forte il loro insediamento nazional-statale d’origine. Che permette a trust e monopoli di usare lo stato sia come committente che come sostegno dei kombinat politico-industriali-militari, per politiche economico-commerciali e militari aggressive, contro gruppi e paesi capitalisti concorrenti e quelli capitalisticamente “meno sviluppati”. Confrontando la teoria marxista con la connessione tra struttura e sovrastruttura, e con relazioni globali che come oggi avvengono tra strutture sia politico-statali, sia economico-mercantili”. A disdoro della scuola “realista” (nazionalista) – Kissinger ad es. -, che riconosce solo la conflittualità tra stati, senza distinguere tra capitalismo e precapitalismo; e di quella “liberale” per la quale gli attori solo gli individui o le singole famiglie e aziende.

Il rafforzamento dello stato. E’ ancora imperialismo, quindi. Anche perché il “liberismo”, non ha indebolito ma rafforzato lo Stato come sostegno delle imprese, proprio perché ha privatizzato e ridotto il sostegno sociale e alle privatizzazioni; e ne ha rilanciato l’uso imperialistico, con tante guerre (più le prossime) in 10 anni di “nuovo ordine”, non più frenato dal contrasto dialettico imperialismo-socialismo che è venuta meno, e con “stati socialisti” avversi: che erano la vera novità rispetto ai tempi di Lenin, ora sostanzialmente azzerata.

Dipendenza e impero. Non ha quindi senso parlare genericamente di sfruttamento capitalistico o “dipendenza” tra Paesi e da un Nord che drena ricchezza. Forzando un “terzomondismo” che non spiega “come” si produce questa ricchezza, con lo sfruttamento che avviene in un “modo di produzione” che viene imperialisticamente diffuso in tutto il mondo, anche al Sud.

Né ha senso parlare, in un mondo in cui c’è evidente concorrenza e gerarchia tra capitalismi (e paesi) dominanti e dipendenti, di “sistema imperiale”: un ultra-imperialismo con cui Toni Negri (come il “rinnegato” Kautsky contro cui è “L’Imperialismo” di Lenin), vorrebbe rendere concordi stati e capitalismi tutti. Quasi ripetendo, pedissequamente, sul piano mondiale, quella che è stata la storia della formazione dello stato unitario (uno più forte che unifica tutti i più deboli). E ricopiando la storia dell’impero romano traslata da Asimov sul piano galattico, in cui per Negri l’indistinta moltitudine che sostituisce popoli e classi diventa, come per Asimov, la “Seconda Fondazione” della “Trilogia galattica”: può solo disturbare l’impero, che rimane comunque invincibile.

La teoria come arma di lotta. Necessita piuttosto studiare i rapporti di produzione e le alleanze di classe e le tendenze e strutture del capitalismo contemporaneo, distinguendo anche tra le leggi del moto del capitale e quella che è la cosciente attività ideologica e politica dei soggetti che operano. Ovvero ricordando che, nell’analizzare la complessità del mondo attuale, ha rilievo l’uso degli strumenti di analisi. E quindi che il ricorso al marxismo si configura esso stesso come strumento di lotta contro il capitalismo e l’imperialismo; e il suo abbandono come una componente importante del successo imperialistico nel dividere la classe operaia all’interno dei singoli paesi, e nel contrapporre una contro l’altra le singole parti della classe operaia internazionale.

Tutte le trasformazioni del capitalismo si spiegano solo nel contesto globale dei rapporti dialettici tra stati – proprio della scuola marxista -, in cui si globalizzano le relazioni ma si concentrano e centralizzano potere e produzione in strutture politico-statali ed economico-mercantili che sono in continua lotta nel mondo, per cercare di dominarlo e da ricondurre al processo di accumulazione e necessità di valorizzazione dei capitali attraverso la mobilità ed espansione continua.

Il volano del capitalismo. Eppure, ciò nonostante, la categoria d’analisi dell’imperialismo, molto usata fino al ’75 ma poco oggi anche da chi vuole essere contro la guerra ma non sa bene come, perché non sa quanto “pesi” nell’economia capitalistica e viene sistematicamente ignorata nella sua reale dimensione e portata, la spesa militare. Tanto che, sparita l’Urss, è stata incrementata con un ordine “vigilato” da armamenti e smaltimenti di guerra. Questo perché lo scopo non è mai stato e non è l’equilibrio fra potenze, ma l’equilibrio sulle risorse e nell’economia mondiale.

Il pacifismo imbelle. La crisi dell’accumulazione capitalistica, da ben prima dell’11 settembre richiede, soprattutto nell’Angloamerica, il frequente uso del suo volano: la guerra, contro cui si rischia un pacifismo imbelle, magari rifacendosi all’art. 11 di una Costituzione che non è per un generico pacifismo, ma per la rimozione della causa economico-sociale che determina, insieme, disuguaglianze di classe e guerra. Un pacifismo impotente se, dai “noglobal” ai girotondini, ecc., non si indica un “fine” socialista, contro il meccanismo di accumulazione capitalista e ci si riduce alla Tobin Tax, in quanto non si sa di formazione del capitale, plusvalore, sfruttamento salariato, ecc. Il che fa pensare di certi movimenti, quel che Brecht dice ne “L’abicì della guerra”: ”era nemico del loro nemico, è vero, ma c’era in lui una colpa che non ha perdono”. Per lo smarrimento della potenza teorica e pratica, generato anche da chi da “antisistema” e “per il socialismo” é diventato “sinistra di sistema” e “per il capitalismo e il liberalismo”.

“Globalizzazione” dei disavanzi di stato, dell’economia di guerra e degli armamenti.ultima modifica: 2012-03-30T08:28:00+02:00da iskra2010
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