Memo. E Monti disse a Marchionne…come Craxi e Berlusconi, Napolitano e Occhetto…

 

IMG_3740+logoMOWA.jpg foto MOWA

da Angelo Ruggeri

Memo.

Lezioni della storia e della cronaca. “Il professor Monti ha sciolto la riserva e ha accettato l’incarico. Gli ho fatto la corte per lungo tempo, perché ritengo che il paese debba farsi rappresentare da una personalità importante, riconosciuta nazionalmente e internazionalmente, molto vicina al mondo della finanza” (S. Berlusconi, 28/10/94)

Monti sulla Fiat…

Con l’antiberlusconismo (?!!!) e con Monti, siamo ad un punto di rottura del patto tra popolo e istituzioni, a causa dell’abbandono dei principi e valori costitutivi della Repubblica da parte dei centrosinistra che con i governi di ieri e con quello di “Ms Bilderberg” Monti oggi, “rovesciano” la Carta del ’48 introducendo tutto quello che i costituenti fondatori della democrazia avevano escluso.

Ovvero, tutto ciò che nell’ignoranza di una “sinistra” che consideravano “liberale”, ebbe (ad es.) a dire bene anche Guido Carli:

La Costituzione italiana non menziona né l’imprenditore, né il mercato, né la concorrenza, né il profitto: Ammette la libertà economica privata ma la sottopone ai programmi e ai controlli democratici e di legge“.

Già!!! Ma dalla storia, eccoci alla cronaca:

– Monti a Marchionne: “Non deve esserci controllo democratico della Fiat ma solo libertà d’impresa ed economia competitiva”(Insomma: nessun controllo democratico – come da art. 41 della Costituzione – che permetteva al sindacato di vincere e per cui oggi perde perché abbandonato [anche] sia dalla destra che dalla sinistra della CGIL), Michelangelo Russo: “…mica possiamo fare l’esame del sangue alle aziende…”:

dopo che Occhetto – che da allora (anche per lo scioglimento del PCI ?) divenne un condizionato (o anche ricattato?) – firmò il “Patto dello sviluppo” conSalvo Lima che chiamandolo in correo disse: “A pignata a da bullire pe’ tutti”.

Con gioia o silenzio degli antiberlusconiani (sic!), tutto ciò non viene più solo “detto” ma fatto”, partendo dalla “modifica dell’art. 81 della Costituzione e dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori.

Come ha scritto Il Foglio(20-3-2012): “Mario Monti su Marchionne ed Elsa Fornero sull’art. 18 (“…non è un tabù…”) hanno segnato uno spartiacque che rappresenta il marchio di un cambiamento culturale” facendo cadere “un tabù sovietico“. Se fosse così, allora, l’URSS era una “democrazia avanzata” quale fu detto dell’Italia, come “caso italiano di democrazia avanzata“, e tutti i Costituenti erano “sovietici”, compresi i cattolici e Dossetti, chiamato a contribuire, da protagonista, sulla base della sua esperienza di “costituente” della nostra Costituzione, alla “riforma” promossa dal Concilio Vaticano II, per cui anche il Concilio e la Chiesa avrebbero in sé, almeno, qualche cosa di “sovietico”.

Precisato che questa è una “panzana”, il Foglio ha ragione anche quando – “confermando con sempre maggiore decisione il mio berlusconismo tendenza Mario Monti per conto del quale ringrazio Lady Spread che mi auguro arrivi a 700(!!!” Giuliano Ferrara) – indica, con grande titolo in rosso, come “grandi riformatori in un paese irriformabile, tra Tatcher e Wall Street Journal”: “CRAXI, MARCHIONNE E MONTI” ( per: il taglio della scala mobile il primo; il modello americano di Pomigliano il secondo; e Monti per quanto ricordato sopra).

Ma anche qui serve precisare: se si dice “Craxi” come si fa a non aggiungere, ad es., anche i craxiani Epifani e Camusso?

E se si dice “Craxi, Marchionne e Monti“, come si fa a non aggiungere Napolitano che, con tutti, per Craxi buttò a mare Berlinguer? E la “conferenza comunista sull’auto del febbraio 1980, organizzata dal PCI di Torino del craxiano antiberlingueriano e napolitaniano Fassino e come ben sa Bersani, aperta dal napolitaniano Colajanni e conclusa dal napolitaniano Chiaromonte, dove si disse che “la Fiat” colpisce gli operai “non per perfidia (ovvio: è per logica di classe) ma per necessità” (sic!), e si aiutò la Fiat a lanciare pochi mesi dopo il suo showdown contro il quale si schierò ai cancelli Berlinguer, attaccato e osteggiato da Napolitano e Lama, da Torino a Milano a Bologna a Roma e Napoli, da tutta la “banda” politica e sindacale degli amendoliani c.d. “miglioristi” capeggiati da Napolitano e Cervetti, Lama e Cofferati, Macaluso e Chiaromonte, ecc.? E gli Occhetto, i D’Alema, i Veltroni dove li metti?

Caro Ferrara

hai ragione a dire che sei (e aggiungo io: senza dubbio), ben più coerente degli antiberlusconiani che ora tacciono e/o sostengono Monti, perché in quanto berlusconiano e determinato sostenitore di Craxi, Marchionne e di “Ms Bilderberg” Monti, “sono fedele ai miei ideali di gioventù”, degli Amendola (con qualche dubbio) e dei Napolitano (senza dubbio alcuno).

In fondo sei rimasto lo stesso di quando, all’incirca nel ’70, ti vidi davanti al Lirico di Milano, vestito e con in testa l’elmo cornuto dei Vichinghi, urlare improperi e insulti contro i dirigenti “berlingueriani” del PCI presenti alla conferenza che era in corso.

Ma se la racconti, raccontala tutta, non omettere quelli che dall’interno del PCI e poi dall’esterno, come l’attuale capo dello Stato, hanno dato contributi ancor più determinanti di quelli di Craxi, Marchionne e Monti che debbono tutto, o quasi, ai vari Napolitano e cigiellini di cui sopra.

Come ben si può ben intendere anche da questo reprint:

Occhetto e Napolitano a cena con uno dei massimi vertici della CIA per discutere del golpe-svolta nel Pci…

Con Berlinguer vivo tutto questo non sarebbe stato possibile quindi…
Chi è Occhetto? Cosa ha fatto in politica?

Achille Occhetto, accettò di firmare (nel 1975) il “Patto dello Sviluppo” con un ingenuo che si chiamava Salvo Lima, per cui da quel momento in avanti al partito comunista fu data l’illusione di poter decidere su tutti i finanziamenti speciali per la Sicilia. Ma, nella realtà, il PCI divenne il garante della intangibilità di tutti i democristiani coinvolti con la mafia. Purtroppo Occhetto non aveva l’esperienza per capire che con Lima si poteva fare tutto tranne che un accordo politico, anche perché Lima lo incastrò subito con la famosa frase: “A pignata a da bullire pe’ tutti (la pentola deve bollire per tutti)”. Cosa che fu fatta immediatamente perché uno degli uomini cardine del partito comunista in Sicilia, Michelangelo Russo, pronunciò l’altra frase, ahimè celebre, “non possiamo fare l’analisi del sangue a tutte le imprenditorie siciliane”. 
C’è in “I Disarmati” l’orrenda involuzione del Partito Comunista Italiano, che dall’intransigenza legalitaria che portò sulla croce Pio La Torre abdicò completamente alla lotta alla mafia, passando il comando a dirigenti indegni come Michelangelo Russo, che arrivò a dire, mentre Fava e altri urlavano per quella evidente commistione tra mafia e affari rappresentata dai cavalieri di Catania, Ciancio, Costanzo, Sanfilippo e Graci: “mica possiamo fare gli esami del sangue ad ogni azienda!”.

Quindi ben vengano quelle infette, quelle colluse. Il tutto in nome di un immotivata frenesia di progresso, un progresso fittizio e a beneficio dei mafiosi. E dei loro amici. Per non parlare della squallida ed orgogliosa confessione di uno dei fondatori del Pci siciliano, Napoleone Colajanni: “i soldi degli appalti li presi anch’io quando ero segretario della federazione di Palermo. Ma c’erano tre regole: non mettersi una lira in tasca, non dare nulla in cambio e non farsi beccare”. La Sicilia di quegli anni era tutta nel matrimonio del nipote del cavaliere dell’apocalisse Costanzo, dove, tra politici, notabili e cardinali il più riverito e fotografato era Nitto Santapaola, già all’apice del potere mafioso. Un bestiario in cui entra a pieno titolo Sergio D’Antoni, ex segretario della Cisl, candidato alle europee con il Pd: “Se lottare per i lavoratori vuol dire essere mafiosi allora viva la mafia” scandiva di fronte alla bara di cartone di Orlando che i lavoratori delle aziende colluse bloccate dal sindaco di Palermo portavano in corteo. Dietro di lui annuiva Raffaele Bonanni. Bestie come i deputati europei del Pci che bocciano la relazione presentata dai Verdi in cui chiedevano a Salvo Lima di fare chiarezza sul dossier di Umberto Santino che dimostrava mirabilmente tutte le collusioni dell’onorevole mafioso. Erano passati solo 7 mesi dalla morte di La Torre.

A.

(Vedi anche http://iskra.myblog.it/archive/2010/09/02/riflessioni-sulla-morte-dei-tre-segretari-del-pci-e-la-situa.html)

IL RIFORMISTA
mercoledì, 21 ottobre 2009

Occhetto e la Bolognina: «Non m’hanno perdonato la solitudine della svolta»
di Stefano Cappellini
Intervista. L’ex segretario comunista ripercorre i giorni convulsi del cambio di nome: «Di fronte al crollo del Muro avevo due strade davanti a me: o aprivo la solita e lunghissima discussione sul che fare oppure dovevo agire».

«Io ero convinto di perdere», dice Achille Occhetto al Riformista vent’anni dopo. Convinto, cioè, che la svolta annunciata alla Bolognina il 12 novembre 1989, tre giorni dopo la caduta del Muro di Berlino, sarebbe stata bocciata nella conta interna al Partito comunista italiano. La conta, lunga e faticosa, alla fine premiò Occhetto. Ma forse quella convinzione non era così sbagliata se è vero che lo strappo di quel 12 novembre, quando l’allora segretario del Pci spiegò a una platea di ex partigiani la necessità che il partito cambiasse pelle e nome, non ha comunque prodotto l’esito sperato: la nascita di un compiuto e moderno partito della sinistra italiana.

Occhetto, davvero era così pessimista? Già prima della caduta del Muro nel Pci si era affrontato il tema del cambiamento di nome(Appunto! E noi cosa abbiamo sempre detto? e anche di passare da “antisistema” a partito di sistema, già subito dopo la morte di Belringuer, n.d.r).E lei sapeva bene che una parte del gruppo dirigente comunista era convinta della necessità di svoltare.


All’ultimo congresso prima della Bolognina avevo detto: «Non cambieremo mai nome sotto richiesta esterna, salvo che non ci siano eventi eccezionali per cui bisognerà farlo. Più eccezionale della caduta del Muro… Ma nulla era scontato perché io non feci il solito giochino delle scatole cinesi, cioè mettere d’accordo gradino dopo gradino tutte le varie cerchie e poi, ad accordo chiuso, comunicare le novità al popolo bue.

L’hanno accusata di aver gestito in modo «privatistico» l’annuncio della svolta.
La proposta fu rapida e immediata e non si poteva che fare così. Di fronte al crollo del Muro avevo due strade davanti a me: o aprivo la solita e lunghissima discussione sul che fare oppure dovevo agire. Ma la solitudine riguardò la proposta, non la decisione. Quella viene presa attraverso un processo democratico che non ha eguali nei partiti italiani. Domenica tengo il discorso alla Bolognina. Lunedì riunisco la segreteria. Due giorni dopo, al termine di una discussione intensissima, ottengo la maggioranza in direzione. Lì per la prima volta si spacca il partito in correnti.
Usciamo dal centralismo democratico e io metto a repentaglio la storica rendita di posizione di un segretario comunista. Quindi si tengono altri due comitati centrali e poi due congressi, perché non si accetta il risultato del primo, se ne deve fare un altro e perdiamo un altro anno per ridiscutere se cambiare il nome, mentre sarebbe stato più utile chiarirsi sul progetto politico.

E qual era il suo progetto? Ha eluso il passaggio da una forza comunista a una socialista per rifugiarsi nel cosiddetto oltrismo: la questione ambientale, la difesa dell’Amazzonia… tutto pur di non fare i conti con Craxi e il Psi.
Sa dov’ero quando cadde il muro?
Ero a Bruxelles insieme a Neil Kinnock, leader dei laburisti inglesi, al quale stavo chiedendo appoggio per l’ingresso del Pci nell’Internazionale socialista. Cosa che da sola basta a sfatare la tesi che ci fosse da parte mia una pregiudiziale antisocialista.

E cosa le disse Kinnock?
Mi garantì il suo appoggio e poi mi disse:
«Perché non cambiate il nome?». Gli risposi che era molto, molto, molto difficile. Mi hanno raccontato che quando il lunedì Kinnock lesse sui giornali inglesi «il Pci cambia nome» disse: «Curioso questo Occhetto. Mi ha detto per tre volte che era molto difficile. Se l’avesse detto una volta sola l’avrebbe fatto il giorno prima».

Ma perché non scelse fin dal nome di collocarsi con chiarezza nel campo socialista?
Nell’atto di fondazione del Pse la mia firma è accanto a quella di Craxi. Anche questo dovrebbe dire qualcosa. Ma qualsiasi persona intellettualmente onesta capisce che il segretario del Pci che annuncia il cambio del nome è equiparabile al Papa che dichiara superata la verginità della Madonna. Se a questo avessi aggiunto che non c’era più né inferno né paradiso e che dovevamo marciare verso le schiere di Belzebù, se cioè, fuor di metafora, avessi accettato la proposta di Craxi per l’unità socialista, che in sostanza ci vedeva come esercito in rotta che doveva confluire nel Psi senza più orgoglio né dignità, non solo avremmo perso la svolta ma ci saremmo distrutti definitivamente.

Giorgio Napolitano e l’ala migliorista del partito non la pensavano così.
L’unica seria proposta era avviare, insieme al Psi, la costituente di una forza nuova, non accettando le forche caudine. Se Craxi fosse stato più generoso, avrebbe dovuto capirlo e convergere su questa linea.

Come poteva Craxi essere più generoso con chi già all’epoca gli scagliava contro la questione morale?
L’anticraxismo era, a torto o a ragione, pane quotidiano del 99 per cento del gruppo dirigente. Ricordo una volta in cui trattavo con Craxi e De Michelis il nostro ingresso nell’Internazionale socialista.
Arrivò una dichiarazione di D’Alema che attaccava pesantemente Craxi sulla questione morale. Craxi lesse l’agenzia e fece per andarsene: «Ma che tipo che sei – mi disse – stai qui a trattare con me e poi mi arrivano questi attacchi?». Gli spiegai che era una iniziativa personale di D’Alema.

Torniamo alla Bolognina e alla sua visita «a sorpresa» alla commemorazione partigiana. Fu proprio così a sorpresa?
Dopo la visita a Bruxelles ritorno rapidamente in Italia. Il sabato sono a Mantova, dove incontro un vecchio partigiano che mi dice che il giorno dopo ci sarebbe stata a Bologna la commemorazione della battaglia partigiana di Porta Lame. Decido di andare. Anticipo al compagno William, medaglia d’oro per la Resistenza, uno per il quale il partito era il partito e basta, il discorso che ho intenzione di fare. Pensavo mi mandasse al diavolo. Invece mi dice: «Cambiamo quel che c’è da cambiare, il nome io me lo porto nel cuore». Ma in realtà io nel mio intervento dissi che occorreva cambiare tutto, ma non finì il discorso dicendo “anche il nome”.
L’accelerazione mi fu strappata dai giornali. E questo contribuì a dare l’impressione che io avessi già deciso tutto da solo.

Alla Bolognina citò Gorbaciov. Non era il massimo del coraggio invocare la svolta facendosi scudo con una citazione di quello che era pur sempre il segretario del Pcus.
Povero Gorbaciov, ne ha avute tante di disgrazie che anche imputargli il nostro ritardo… Forse la sua azione ci fece attardare sull’illusione della autoriformabilità del sistema sovietico, ma d’altra parte facilitò l’apertura delle coscienze e fece in modo che non passassi da pazzo quando proposi la svolta. Prima di dare il via ai cambiamenti in Urss Gorbaciov aveva incontrato i veterani di guerra e aveva detto loro: «Avete vinto la Seconda guerra mondiale, ora se non volete che venga persa quella vittoria non bisogna conservare, ma impegnarsi in grandi trasformazioni». Io feci lo stesso con gli ex partigiani: «Si rischia che tutto quello avete fatto nella Resistenza venga perso se non ci sarà un grande cambiamento».

L’89 è anche l’anno del primo viaggio negli Usa di un segretario del Pci.
Andai accompagnato da Napolitano. Una sera a cena, seduto a uno di quei tavoli rotondi da ricevimento, c’era William Colby, l’ex direttore della Cia. Mi disse: «Ho lavorato tanto tempo in Italia per distruggere il suo partito e adesso siamo qui a mangiare insieme».

Fu anche, poco prima dell’estate, l’anno della rivolta di Tien An Men.
Ero a Firenze per un comizio, mi precipito a Roma e convoco una manifestazione davanti all’ambasciata. Viene anche Ingrao.
E lì dichiaro, ripreso a caratteri cubitali dai giornali, che è morto il comunismo. Ma tutto l’89 fu un anno di svolte. In una intervista all’Espresso avevo già spiegato che la nuova sinistra doveva avere come punto di partenza non più la rivoluzione d’Ottobre ma quella francese e che non ci poteva essere uguaglianza senza libertà.

Si rimprovera qualcosa per lo stato in cui versa oggi la sinistra?
L’impreparazione all’uso del sistema delle correnti è degenerato in blocchi chiusi e contrapposti fondati sulle cordate di potere. Lì nasce il male. Ma se oggi la sinistra italiana è il problema, e non la soluzione, dipende non dal vizio d’origine della svolta bensì da quegli anni in cui si è cercato di distruggere l’Ulivo in nome della fondazione di un partito socialdemocratico, col risultato di uccidere l’uno e l’altro. Noi col Pds avevamo avuto l’intuizione giusta:
andare verso la fusione tra le componenti socialiste e quelle democratiche avanzate, ma in un partito di sinistra. La sofferenza è aver tolto quella s dal Pd.

Gli avversari centristi di Bersani lo accusano di voler diventare segretario apposta per rimetterla, la “s”.
Bersani può fare bene solo se si libera dalle cordate che lo hanno sostenuto, se riconosce la centralità della questione morale e se mette capo a una effettiva riforma del partito che muova speditamente nella direzione di una nuova formazione di sinistra. Ma temo che tutto questo non avverrà finché non ci sarà un elemento fecondatore della storia, un evento come il crollo del Muro, appunto.

Memo. E Monti disse a Marchionne…come Craxi e Berlusconi, Napolitano e Occhetto…ultima modifica: 2012-05-12T08:10:00+02:00da iskra2010
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