LA CRISI INFINITA Fenomenologia dell’imperialismo: l’UE tra attualità politica e crisi sistemica

  

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di Giovanni Bruno

La situazione nell’eurozona continua a presentarsi fortemente conflittuale, pur con un quadro politico in evoluzione: la vittoria del socialista Hollande alla Presidenza della Francia, la sconfitta nelle elezioni regionali della Cdu in Baviera, il voto “normalizzatore” in Grecia hanno reso gli equilibri nell’Eurogruppo più fluidi, ma resta ancora il rigore ricattatorio espresso dalla linea tedesca della Cancelliera Merkel.

Imperialismo e colonialismo interno: la volontà di potenza prussiana

L’imposizione alla Grecia di misure chiaramente devastanti e distruttive per la tenuta economica, politica e sociale del Paese hanno portato ad un passo dalla rottura dell’eurozona. Tale rigore, imposto dai Trattati, secondo quanto afferma Merkel, è in realtà la trasposizione monetaria di una strategia di dominio imperialistico nell’area dell’Unione Europea: la costruzione dell’UE come polo imperialistico passa infatti da uno scontro tra gli imperialismi nazionali e regionali, con l’asse franco-tedesco incrinato a fronte dell’inasprirsi dello scontro che sta colpendo, dopo la Grecia (senza dimenticare Irlanda e Portogallo), la Spagna e ha raggiunto ormai e, con ogni probabilità, irreversibilmente l’Italia.

I risultati delle elezioni greche hanno restituito alla compagine della destra conservatrice di Nuova Democrazia la maggioranza relativa, nonché la responsabilità di formare un nuovo esecutivo con il Pasok e la Sinistra Democratica: in fin dei conti si può constatare che queste elezioni in realtà sono state vinte dalla Germania. Il pericolo della fuoriuscita dall’euro, a differenza di alcuni falchi che avrebbero voluto l’espulsione greca per poter meglio gestire il dominio sull’area mediterranea, va infatti a favore della Germania, che ha tutti i vantaggi a mantenere agganciate e sotto lo schiaffo del debito le regioni deboli, come bacino di sfruttamento imperialistico interno. È d’altronde evidente che il fallimento della Grecia (il default totale del debito) ricadrebbe anche sulla Germania, che vedrebbe perdere ogni credito accumulato [1], in quanto “la crisi ellenico-iberica ha comportato una massiccia esportazione di capitali da questi paesi – ed anche dall’Italia e dalla Francia – verso la Germania” [2] origine del fenomeno per cui è “in Europa che Berlino realizza la maggioranza del suo surplus commerciale” [3]. Un neocolonialismo interno dell’UE fondato sul deutsch-euro e una BCE al servizio delle banche private più forti, che impone condizioni draconiane (taglio di personale, salari, pensioni, servizi e investimenti pubblici) per concedere ulteriori prestiti che avrebbero lo scopo di risanare i debiti accumulati, che in realtà stringono ancora di più il nodo scorsoio attorno al collo della vittima.

È ormai evidente che le scelte di “risanamento” imposte alla Grecia siano invece impraticabili: i continui prestiti erogati a condizioni devastanti non fanno che aggravare la situazione, provocano ulteriore indebitamento, peggiorano le condizioni economiche (salariali e occupazionali), hanno condotto il paese nel baratro della recessione (destino che ormai sta intaccando anche l’Italia con un -0,7% nell’ultimo triennio del 2011). L’Europa ha predisposto la corda con cui impiccarsi: per la Grecia è il nuovo esecutivo di unità nazionale (ND e Pasok) asservito agli ordini dell’Eurogruppo.

Non è certamente una novità: quello che oggi viene indicato come il problema principale nel meccanismo del sistema capitalistico, in realtà ne rappresenta il naturale funzionamento, già rilevato dallo stesso Marx che nel primo libro del Capitale ne dà un’eloquente definizione: “il debito pubblico, ossia l’alienazione dello Stato (…) imprime il suo marchio all’era capitalistica” [4]. La questione del debito si esplicita quindi chiaramente se lo affrontiamo direttamente dal punto di vista strutturale, in quanto rappresenta “l’unica parte della ricchezza nazionale che passi effettivamente in possesso collettivo dei popoli moderni è il loro debito pubblico” [5]. Pertanto, “il debito pubblico diventa una delle leve più energiche dell’accumulazione originaria” [6]: esso si manifesta come il fulcro della finanziarizzazione del capitale, senza il quale non esisterebbe la trasformazione di ricchezze improduttive in forza sociale produttiva. In un’economia capitalistica, il debito è dunque fondamentale per l’espansione e lo sviluppo economico, in quanto rappresenta lo strumento di controllo e dominio da parte di un imperialismo su regioni sempre più vaste. Ed è questo che determina la politica tecnocratica dell’eurozona: un processo di sottomissione imperialistica delle aree “deboli” dell’UE dopo la loro annessione all’euro. 

Dieci piccoli indiani: dopo la Grecia, avanti a chi tocca.

L’aggressione alla Grecia è solo un passaggio di una strategia più ampia: le argomentazioni della Troika (BCE, FMI, UE) sulla inaffidabilità dello Stato (e, con una malcelata punta di razzismo, del popolo greco e più in generale dei popoli mediterranei) rappresentano una mistificazione di quel che si sta verificando, una cortina fumogena propagandistica sollevata davanti agli occhi dei cittadini (ridotti a puri sudditi/spettatori) europei a giustificazione del feroce accanimento perpetrato verso i lavoratori e le masse popolari elleniche.

È stato evidenziato a varie riprese come l’argomento dei conti truccati della Grecia per l’ingresso nell’euro sia un diversivo rispetto alla ben più concreta e stringente questione per cui la Grecia ha ottenuto prestiti da banche e istituti finanziari istituzionali privati (soprattutto tedeschi e francesi) per consentire importazione massiccia di merci dell’eurozona, tra cui principalmente armi.

Come quello greco, il debito pubblico/sovrano ha dunque un’origine di carattere impositivo, tutt’altro che legata ad una spesa pubblica e sociale sprecona e ipertrofica, ma ad una bilancia commerciale completamente sbilanciata verso l’estero. La penalizzazione del piatto interno della bilancia e l’obbligo di spesa verso l’esterno è dunque all’origine della situazione greca: una condizione per niente inevitabile, né tantomeno provocata da una presunta “natura irresponsabile” dei greci stessi, ma da una condotta mirata dalla BCE a sottomettere l’economia nazionale greca alla potenza franco-tedesca, espressione politica (fino a poche settimane fa) dell’euro-tecnocrazia reazionaria al servizio degli interessi bancari e padronali delle borghesie nazionali.

Si tratta di una vera e propria colonizzazione guidata dalla Germania: ciò che sta avvenendo è una strategia imperialistica, che comporta la definizione di un mercato e di connessioni economico-finanziarie a condizioni imposte dalla potenza preponderante verso altri paesi. L’UE, nata come costruzione di un polo imperialistico, è divenuta terra di saccheggio da parte di banche e agenzie finanziarie soprattutto francesi e tedesche, che hanno esponenzialmente creato le condizioni di un aumento dei debiti pubblici/sovrani. 

Lo scontro tra Stati nazionali per l’egemonia politica e il dominio economico nell’UE.

Non possiamo dimenticare il ruolo degli Stati nazionali, protagonisti di politiche tese allo smantellamento della sovranità economica e democratica dei singoli paesi: in Grecia come in Italia si sono attuati dei veri e propri golpe bianchi, con la sussunzione dei parlamenti nell’operazione, ma senza alcun riscontro di consenso se non a di tipo sondaggistico e giornalistico. Il caso italiano parla da solo: Monti è il rappresentante di questa euro-tecnocrazia, a cui la politica (il potere istituzionale incaricato di gestire gli interessi della “società civile”, cioè della frazione nazionale della borghesia imperialistica) ha affidato il governo (la cosiddetta governance altro non è che una forma diretta di autocrazia autoritaria degli interessi delle borghesie reazionarie) sospendendo persino i riti della democrazia formale e parlamentaristica. Napolitano, con un golpe bianco, ha sospeso (destituito) il parlamento delle sue prerogative, riducendolo a puro ratificatore della linea dell’euroimperialismo reazionario e tecnocratico.

Questa linea è espressione dell’impostazione imperialistica iper-liberista, egemonizzata dalla linea prussiana di Merkel-Schauble-Bruderle, che rappresenta la punta avanzata dell’euro-tecnocrazia, tesa alla gerarchizzazione degli Stati secondo le linee della bilancia commerciale e del rapporto debito/PIL, nonché alla sottomissione dell’intera regione mediterranea alla supremazia nordeuropea (Germania, Olanda, Finlandia)- linea che ha perduto il fedele servitore francese con l’uscita di scena di Sarkozy.

Si manifesta sempre più evidente lo scontro in atto nell’UE tra due concezioni imperialistiche: quella che possiamo definire euro-prussiana, dalla matrice iper-liberista e conservatrice, fondata sugli interessi delle grandi multinazionali e dei grandi istituti di credito, specializzati nel diffondere il debito e impegnati a socializzare le perdite tramite l’acquisizione da parte dello Stato dei loro debiti privati, trasformandoli in debito pubblico; l’altra che integra tali interessi con quelli della piccola e media borghesia imprenditoriale, artigiana, commerciale e del pubblico impiego, che pur mantenendo l’impostazione di compatibilità neoliberista ricerca l’appoggio dei settori popolari con una strategia che possiamo definire “neokeynesiana”, rianimata oggi dalla vittoria di Hollande. In entrambe l’obiettivo è trasferire la crisi strutturale di caduta del saggio di profitto sulle classi medie, popolari e sul proletariato: nella visione tecnocratica euro-prussiana, il conto si fa pagare principalmente alle popolazioni dell’eurozona, nell’altra “neokeynesiana” si propende per una concezione apparentemente più cooperativa e solidale all’interno dell’UE, con una maggiore integrazione economica, con l’attribuzione alla BCE della possibilità di acquistare titoli di Stato dei paesi dell’eurozona, e in prospettiva politica, con il varo di un progetto confederale o  compiutamente federativo, ma la cui vocazione sarà una maggiore aggressività verso l’esterno, scaricando le proprie contraddizioni verso aree del mondo e regioni extraeuropee.

Non a caso i francesi sono stati i maggiori sostenitori della guerra di Libia e lo sono anche per quanto riguarda lo scenario siriano in cui premono per un intervento militare contro Assad come contro Gheddafi: intervento che aprirebbe scenari di espansione dell’imperialismo europeo scaricando il conflitto, in corso tra gli Stati dell’eurozona per l’egemonia dei propri interessi nazionali, dall’UE verso regioni esterne.

A fronte della devastante crisi in corso non sono sufficienti e neppure adeguate politiche a carattere (neo)keynesiano: la formula degli investimenti per la crescita sono un diversivo che non coglie il cuore del problema e rimuove l’origine e la causa strutturale della crisi: pensare che in una fase di crisi di sistema come quella che stiamo attraversando siano sufficiente investimenti civili e aumento della spesa pubblica significa mistificare il progetto imperialista che sta alla base della Unione Europea. Tracciando un parallelo con gli Stati Uniti degli anni ’30, Baran e Sweezy evidenziano che per quanto riguarda la spesa pubblica nel periodo del New Deal “gran parte di tali spese ebbero il carattere di operazioni di salvataggio di proprietari di imprese di ogni tipo e dimensione minacciate dalla depressione” [7], cosa che si può riscontrare anche in questi anni con le nazionalizzazioni mirate al salvataggio delle banche negli USA e nell’UE. Gli autori rilevano inoltre che “l’inconveniente della spesa pubblica negli anni ’30 non fu la sua direzione, ma la sua entità” [8], in quanto fu molto lontana dal “volume necessario per controbilanciare le potenti forze depressive operanti nel settore privato dell’economia” [9]. Pur riconoscendo che esistevano forze economiche e politiche che si opponevano ad un’ulteriore espansione delle spese civili, Baran e Sweezy rendono chiaro che solo negli anni ‘40 “la spesa militare fece ciò che la spesa sociale non era riuscita a compiere” [10]. L’alto valore democratico che ebbe il New Deal con provvedimenti come la Tennessee Valley Authority (TVA) non furono comunque risolutivi: solo la guerra permise l’uscita dalla crisi e “la differenza tra il profondo ristagno degli anni ’30 e la relativa prosperità degli anni ’50 è completamente spiegata dalle ampie spese militari di quest’ultimo decennio” [11]. Politiche keynesiane che si invocano, progressiste ed espansionistiche anche verso le classi medie, popolari e proletarie, volte alla crescita e ad investimenti pubblici, producono in realtà le condizioni per la svolta militarista degli Stati, avviando una spirale imperialistica senza ritorno.

Non è quindi casuale che appaia sul Sole 24 ore di mercoledì 20 giugno scorso un articolo del laburista Gordon Brown il quale insiste sulla necessità di una maggiore integrazione politica europea al fine di esercitare una maggiore pressione sui paesi emergenti (si citano Cina, India) affinché aumentino le proprie importazioni in modo da assorbire maggiormente merci europee: la maggiore unità politica europea è funzionale dunque alla guerra commerciale globale che si combatte a livello planetario, primo passo dello scontro interimperialistico su scala continentale che si va dispiegando nel XXI secolo e che può pericolosamente sfociare in un conflitto militare dagli esiti imprevedibili e disastrosi. 

Crisi: quale crisi? Riflessi della crisi strutturale capitalistica.

La crisi si avvita su se stessa, mentre continuano a raccontare alle popolazioni europee che la responsabilità sarebbe tutta degli sprechi derivanti dai servizi a fine sociale e dalle spese del settore pubblico. Il sistema capitalistico, nella forma neoliberista che sta funestando le classi subalterne fin dagli anni ’80 del secolo scorso, ha provocato un impoverimento su scala mondiale mai registrato precedentemente: la forbice della divaricazione tra ricchi e poveri è sempre più aperta, e ancora più significativamente il divario tra la destinazione delle quote di PIL destinate ai salari rispetto alla crescita di profitti e rendite.

In generale, tra il 1997 e il 2007 i salari medi mondiali sono rimasti al di sotto della crescita del PIL. Nello specifico della situazione italiana, dal 1983 al 2005 i lavoratori hanno perduto 8 punti di percentuale di reddito, andati in maggiori profitti che sono infatti saliti nello stesso periodo dal 23% al 31% del totale [12]. Ciò significa innanzitutto che la legge tendenziale alla concentrazione dei capitali individuata da Marx non solo non è superata, ma risulta semmai sempre più densa di valore teorico e di evidenza pratica.

A farne le spese sono i lavoratori, da decenni sotto tiro da parte del padronato industriale e degli  speculatori finanziari (definiti, con un elegante eufemismo, “investitori “istituzionali”: banche agenzie, assicurazioni, fondi pensione…) e, più in generale, il proletariato nelle sue mille e variegate sfaccettature in cui si è andato stratificando negli ultimi trent’anni attraverso processi di esternalizzazione/privatizzazione di servizi pubblici, precarizzazione dell’occupazione, immigrazione che determina nuove forme di “esercito di riserva”, proletarizzazione del ceto medio, etc. Negli ultimi quattro anni (2008-2011), infatti, è andato perduto il 5% di potere di acquisto procapite, che in euro fa una perdita di 1.300 euro a testa; la perdita è del 7% se risaliamo al 2007, mentre dal 1992 (dunque in venti anni) il reddito è sceso complessivamente del 4% [13]. Se si conta poi che l’Italia ha i salari fermi da vent’anni e proporzionalmente più bassi di Europa, un potere di acquisto in caduta libera, la precarietà aumentata vertiginosamente dal 1995 al 2008 tanto da rendere l’Italia il paese europeo più flessibile, una disoccupazione giovanile oltre al 35%, risulta ancora più evidente come nel nostro paese la lotta di classe contro le classi lavoratrici e popolari – e più in generale contro il proletariato contemporaneo, frantumato e diversificato (più che articolato) nella miriade di figure precarie e spesso conflittuali (italiani contro migranti, nordici contro “terroni”, giovani contro vecchi, precari contro stabili/garantiti, donne contro uomini etc.) –  abbia raggiunto livelli ormai insostenibili per una coesione sociale degna di un paese civile. Non sono estranee le scelte consociative delle forze politiche istituzionali della sinistra di classe (PCI e PSI, con le dovute differenziazioni che non possiamo qui analizzare) e delle organizzazioni  sindacali (CGIL in testa): dall’inizio degli anni ’80 sono progressivamente diminuiti il conflitto politico di classe e le ore di sciopero, che ha segnato un progressivo e rovinoso arretramento dei salari, l’eliminazione del punto unico della scala mobile e la sua eliminazione, l’accettazione della politica dei redditi e dell’allineamento salariale alle compatibilità economiche aziendali e padronali.

Le ricette che da trent’anni si propinano, mediante una incessante campagna mediatico-ideologica, sono direttamente collegate alla concezione per cui non esisterebbe alcuna alternativa al capitalismo, e dunque occorrerebbe ritornare ad una forma pura ed originaria della concorrenza, guidata dalla “mano invisibile” autoregolantesi del mercato: il problema di questa visione è che una simile realtà non è mai esistita, neppure nei “tempi gloriosi” dell’accumulazione originaria del XVIII-XIX secolo, né tantomeno nel trentennio espansivo del ‘900, la cosiddetta “età dell’oro” tra il dopoguerra e gli anni settanta, ma è semmai sempre prevalso storicamente un intervento politico, nella fattispecie statuale, a sostenere le dinamiche dello sviluppo capitalistico.

Neoliberismo senza qualità   

Il sistema capitalistico nella forma neoliberista, che si è affermato dalla fine degli anni ’70 e negli anni ’80 in Inghilterra (Thatcher) e negli USA (Reagan) ha egemonizzato le concezioni economico-politiche della fine del XX secolo, proliferando come una metastasi fin dall’inizio nel XXI secolo. Questa visione egoistica, antisolidaristica, incentrata sugli interessi dei poteri forti del mercato economico-finanziario (definita con un’espressione gradevole e accattivante, maschera dietro cui si celano brutalità e aggressione: globalizzazione), ha prodotto innanzitutto un impoverimento profondo nei popoli funestati dal neocolonialismo e dalle guerre neo imperialiste, e adesso è arrivata a contaminare le classi popolari e i lavoratori delle cittadelle imperialistiche, trascinati nel gioco della speculazione finanziaria con lo smantellamento delle garanzie sociali pubbliche (statuali) rispetto alla previdenza, all’assistenza sanitaria, all’istruzione, ai trasporti, servizi essenziali sostituiti da rapaci agenzie di lucro e profitto con prodotti altamente rischiosi e poco rassicuranti come i Fondi pensione, le assicurazioni, le scuole e i trasporti privati.

Questa visione fortemente ideologica, in cui la qualità del servizio non si fonda sull’efficacia e sulla diffusione della copertura rispetto alla popolazione, quanto sulla presunta efficienza dovuta alla concorrenza mercantile tra pubblico e privati, ha contaminato profondamente la nascita dell’Unione Europea e della moneta unica, che in nome del principio di sussidiarietà ha destituito la dimensione pubblica dei servizi di priorità sociale e civile, costringendo la struttura pubblica a confrontarsi con i privati in termini manageriali su criteri economicistici e aziendalisti, abdicando al ruolo fondamentale di sostenitore dell’interesse comune e pubblico a cui era stato destinato (piegato) da quel compromesso (nell’ambito del sistema capitalistico) dagli anni ’50/’60 del Novecento. Tale compromesso, chiariamo, ha rappresentato una via di uscita a difesa del sistema capitalistico, non una svolta in senso socialista: in termini storici ha comunque determinato una redistribuzione del reddito (che non è la socializzazione della produzione) a vantaggio, fino agli anni ’80, della classe lavoratrice, per poi invertire la tendenza dagli anni ’80 ad oggi.

La redistribuzione del reddito si è manifestata anche nella forma del salario sociale, cioè della condivisione di beni di comune utilità e la produzione di servizi di pubblico interesse, che hanno prodotto un aumento del debito pubblico funzionale al sistema. Tuttavia, la vera espansione del debito pubblico/sovrano si è prodotta con la assunzione da parte dello Stato dei debiti privati, cioè con la privatizzazione delle perdite di aziende e banche (sistema produttivo e sistema finanziario, economia reale e economia speculativa, le due facce della stessa medaglia: sistema di sfruttamento capitalistico), che ha scaricato sulla maggioranza della popolazione (proletariato e ceti medi) gli effetti della crisi. 

L’Unione Europea antidemocratica e antipopolare, terreno di scontro tra borghesie nazionali.

Il “peccato originale” dell’UE e della nascita dell’Euro consiste nell’aver promosso un processo di costituzione imperialistica per sostenere lo scontro su scala continentale e planetaria. Oggi emerge chiaramente come l’UE sia un recinto in cui la Germania detta legge, costringendo gli altri partners ad accettare il rigore dell’imperialismo teutonico per mantenere la bilancia commerciale a proprio favore. La Francia, con la svolta socialista, tenta di indebolire il progetto egemonico tedesco a proprio vantaggio, con una proposta a carattere neokeynesiano (nella sostanza analogo alla socialdemocrazia, ma più arretrato in quanto assistenziale) che non risolverà la crisi, ma tenterà di scaricare le contraddizioni al di fuori dall’eurozona verso regioni organicamente collegate all’economia imperialistica europea (ma anche verso quelle regioni ancora non organicamente integrate e perciò sottoposte ad operazioni di aggressione militare mascherate da “operazioni di pace”). Va ricordato, en passant, che l’imperialismo non è una visione manichea per cui vi sarebbe una divisione netta tra paesi imperialisti e paesi vittime dall’imperialismo: lo scontro imperialistico penetra all’interno degli stessi paesi a struttura imperialistica (fronte interno, che si esplica nella repressione sociale delle masse popolari e dell’opposizione politica), aprendo contraddizioni interne ai popoli mediante segmentate fratture di classe che attraversano anche le stesse frazioni nazionali del proletariato. Va inoltre precisato che la contraddizione tra capitale e ruolo dello Stato-Nazione emerge in quanto il conflitto imperialistico nell’epoca della cosiddetta globalizzazione si è sviluppato in una dimensione continentale: il processo che si sta delineando non va dunque nella direzione del superamento dei conflitti interimperialistici (come nella teoria imperiale negriana), ma nella sussunzione degli imperialismi nazionalistici in un imperialismo a carattere continentale, determinante per reggere la dimensione planetaria della concorrenza tra i predominanti imperialismi: quello occidentale (in cui quello europeo e statunitense sono alleati e concorrenziali), quello asiatico (prevalentemente cinese, ma anche nipponico), quello indo-russo. Gli Stati nazionalistici europei, anche se ancora ben strutturati attorno agli interessi delle rispettive borghesie nazionali, sono ormai insufficienti e inadeguati a reggere un simile conflitto planetario: la funzione dello Stato si definisce quindi ad un livello superiore, continentale. Da questa consapevolezza emerge lo scontro tra gli stati del vecchio continente per imporre il proprio modello e dettare i criteri della macchina statuale europea; l’integrazione europea è dunque necessaria agli imperialismi nazionali europei per reggere la concorrenza planetaria: rinunciare a qualcosa per ottenere la salvaguardia dei propri interessi integrati europei (per questo lo scontro non si è ancora concluso: la lotta tra le varie borghesie nazionali è quella per conquistare un’egemonia nella nuova struttura economico-politica dell’UE. È questo il senso del riconoscimento del progetto tedesco e i tentativi di contrastarne l’egemonia da parte della Francia e di altri paesi come l’Italia, che tentano di costruire un direttorio multipolare europeo. L’UE non può saltare, pena la sottomissione degli imperialismi nazionali (anche della Germania) ad altri imperialismi continentali ben più forti. L’Europa è dunque una necessità per l’economia imperialistica tedesca, quanto per quella francese ed italiana.

Che fare: crisi capitalista e questione comunista.

Infine, ineludibile ancora una volta il problema del che fare. Da comunisti, una volta di più occorre sviluppare un programma che affronti i problemi strutturali della crisi, proponga una concezione teorica anticapitalista e di transizione socialista, individui prospettive politiche e storiche per una trasformazione rivoluzionaria del capitalismo.

E allora ci sono due questioni fondamentali: quella dello strumento politico e organizzativo dei comunisti, e quella altrettanto importante di quali indicazioni programmatiche dare nell’attuale fase di crisi e per chi, come noi, è collocato all’interno di una cittadella imperialista in costruzione.

Non mi dilungo sul primo aspetto: mi limito a ribadire che occorrerebbe una costituente comunista per determinare la nascita di un soggetto politico omogeneo e coerente con la teoria aggiornata del marxismo e conseguente con la prassi dei comunisti rivoluzionari del Novecento.

Per quanto riguarda la prospettiva programmatica per affrontare la crisi, ripropongo l’idea che non l’uscita in ordine sparso dei singoli Stati dall’euro è la soluzione, se non di “destra”, ma il coordinamento internazionale di paesi dell’area mediterranea (Grecia, Portogallo, Spagna, Italia) sottoposti all’aggressione euro-tecnocratica e aperti ad una proiezione sulla sponda sud del Mediterraneo. Non è l’apertura di uno scenario rivoluzionario, ma quantomeno di una sorta di fronte dei non-allineati al rigore imperialistico tecnocratico: questa prospettiva necessita di forze di classe capaci di organizzare una resistenza alle politiche neoliberiste e neokeynesiane, di strutturare un blocco sociale e politico, nazionale e internazionale, che sia in grado di rovesciare i rapporti di forza all’interno dell’eurozona edi sostenere il non-risarcimento del debito verso i soggetti responsabili della speculazione (investitori istituzionali, multinazionali, speculatori) da parte delle classi popolari indebitate; e che prospetti una strategia ed un programma politico che impugni lo strumento della nazionalizzazione -di banche e imprese produttive di settori strategici- non finalizzata al puro salvataggio dei privati (dunque alimentando ancora una volta il debito pubblico, cioè scaricando le perdite dovute alla speculazione e alla sovrapproduzione sulle classi popolari) ma improntata alla trasformazione socialista del sistema economico-sociale.

Se una fuoriuscita immediata e in ordine sparso provocherebbe il crollo delle economie nazionali più deboli, nonché la loro esposizione alla speculazione internazionale e quella istituzionale dell’euroimperialismo tecnocratico ancor più di quanto non sia avvenuto finora, anche l’oscillazione tra catastrofismo e i vari progetti imperialistici che abbiamo descritto non produce alcuna soluzione reale: compito dei comunisti non è distinguere tra un capitalismo “buono” (socialdemocratico o neo-keynesiano che sia) ed uno cattivo (iperliberista, rigorista, tecnocratico, speculativo), ma di avviare una strategia internazionalista che permetta di stabilire alleanze sociali di classe, di elaborare un programma politico condiviso su scala europea per denunciare e rompere i Trattati di matrice imperialista, di prospettare un rovesciamento dei rapporti di forza a favore delle forze anticapitaliste e antimperialiste di sinistra.

Per affrontare la crisi occorre infine coinvolgere e coordinare i settori nazionali del proletariato europeo, per evitare che i comunisti siano marginalizzati nel confronto elettorale, come avvenuto al KKE nel caso delle ultime elezioni del 17 giugno.

(10 luglio 2012)

 

[1] Vedi artico lodi C.Wyplosz, Se salta l’euro paga la Germania, su la Repubblica del 21 giugno 2012

[2] J.Halevi, Il ciclone su Berlino, su il manifesto del 22 giugno 2012

[3] J.Halevi, cit.

[4] K. Marx, Il Capitale, Libro I, cap.24, Editori Riuniti, 1980, pg 817

[5] Ibidem

[6] Ibidem

[7] P.A.Baran-P.M.Sweezy, Il capitale monopolistico, Einaudi, 1968, pg.136

[8]Ivi

[9]Ivi

[10]Ibidem, pg.137: gli autori aggiungono che “la disoccupazione scese a un minimo dell’1,2% nel 1944” dal 17,2 di fine anni ’30; evidenziano inoltre “l’aumento della spesa pubblica che passò da 17,5 miliardi di dollari nel 1939 a una punta massima di 103,1 miliardi di dollari” sempre nel 1944.

[11]Ibidem, pg.149

[12] Dati della banca dei Regolamenti Internazionali, riportati da V.Giacché nell’Introduzione a Marx e la crisi, derive/approdi, 2009.

[13] Dati del Rapporto ISTAT 2012.

LA CRISI INFINITA Fenomenologia dell’imperialismo: l’UE tra attualità politica e crisi sistemicaultima modifica: 2012-07-13T08:35:00+02:00da iskra2010
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