Gramsci l’italiano più letto nel mondo e più conosciuto in Italia: partito, Stato, diritto e Costituzione

 

Gramsci after 1922 a.jpg restyling by MOWA

di A. Ruggeri

Partito e stato in Gramsci: dimmi che partito sei e ti dirò che stato vuoi (democratico o autoritario) 

Nota mattinale. Grazie ai 50 seggi di premio di maggioranza-presidenziale, la destra e i socialisti greciche hanno creato il debito e truccato i bilanci, da minoranza nel paese diventano maggioranza in Parlamento. Che questo abbia a che fare con la defaillance cronica della “sinistra” italiana e col nesso tra “forma di governo”, sistema proporzionale e questione sociale-economicache vertici e base sindacale e politica non intendono? Dalla tresca che emerge dalla vicenda Mancino e il P.D. D’Ambrosio consigliere di Napolitano, si capisce che gli uomini delle istituzioni sanno “tutto” della trattativa mafia-stato ma non parlano e anzi coprono e si coprono.Ormai è certo che la matematica è un’opinione, tanto che dopo aver fatto uso politico del diritto giuridico per sovvertire “il vero significato dell’art. 18, ora, facendo uso politico della matematica, la Fornero oggi si presenterà in parlamento dopo aver fatto rifare i “compiti” all’INPS e aver fatto sparire i lavoratori-cittadini vergognosamente definiti “esodati”.

L’italiano più letto nel mondo e più sconosciuto in Italia

Antonio Gramsci, così lucidamente critico dello stato, inteso come governo e quindi burocrazia, ed anche “polizia” nazionale e internazionale, sulla formula di stato gendarme-guardiano notturno-carabiniere-poliziotto.

 

– 1) Il “che fare” di Antonio Gramsci (pubblicato con il titolo redazionale di “Caro Gramsci”)

– 2) Partito e stato, diritto e Costituzione in Antonio Gramsci (pubblicato col titolo redazionale Stato e partito in Antonio Gramsci)

Perché non è rivoluzionario un partito comunista diretto “dall’alto”,che si organizza sulla base delle vecchie forme giuridiche tradizionali del potere dall’alto della politica e dello stato,anziché su quelle nuove ed oppostedella partecipazione “del basso della Costituzione democratica e antifascista del 1948. 

Dalla teoria del Partito ad una nuova concezione dello stato, del diritto e della costituzione

L’importanza di una forma-partito fondata su un diverso rapporto tra coscienza ed essere sociale, tra partito e masse, tra base-vertice, per creare una nuovo tipo di stato e di diritto.

GRAMSCI e il “marxismo vivo”

Pre-scriptum. Oggi uno dei pochi, anzi l’unico dei “tellettuali”, che ha fatto autocritica rispetto le analisi dell’ultimo ventennio in cui col famigerato post-moderno coltivato specialmente dal famigerato Revelli e da tutti i “tellettual-in” ( come -ribadiamo – sprezzantemente li definiva Brecht) della c.d. “sinistra”, è Mario Tronti che non ha solo cambiato posizione ma ridefinito anche alcune categorie di analisi. Sì che oltre dire che “nè i pentiti, nè gli atei devoti dei borghesi laici, dei padroni illuminati” riuscirà a cancellare la storia del grande ‘900”, arriva finanche, e SOPRATTUTTO, a rilanciare come CATEGORIA, la CATEGORIA DELLA DIVERSITA’ di E. Berlinguer.

Lenin dipinto un rigido dottrinario, o perfino “blanquista”, “anarchico” e “bakunista” in realtà si opponeva proprio alla rigida e libresca dottrina dei menscevichi, opponendo sempre il suo pensiero vivo di rivoluzionario marxiano “il marxismo si distingue da tutte le forme primitive di socialismo perché non lega il movimento a una qualsiasi forma di lotta determinata. Esso ne ammette le più diverse forme, e non le inventa, ma si limita a generalizzarle e organizzarle e introduce la consapevolezza in quelle forme di lotta delle classi rivoluzionarie che nascono spontaneamente nel corso del movimento” (Lenin, Sulla guerra dei partigiani).

Anche in questo si trova il filo di continuità tra Lenin e Gramsci che identifica quellepiù diverse formemarxiane di cui parla Lenin, identificando una strategia e forme di lotta per la trasformazione socialista in una società di capitalismo sviluppato come quello Occidentale. (nota del dicembre 2011) 

Per Gramsci, grande dirigente, intellettuale e politico, comunistache, come ogni marxista genuino, è non classificabile in una sola ripartizione del sapere (filosofico, storico, politico, giuridico, economico,ecc.), il partito ha funzione costituente. Ne viene chela teoria del partito non è solo un contributo alla scienza politica,ma anche alla teoria dello stato e del diritto pubblico, sì cheper fondare un nuovo tipo di stato si deve democratizzare il partito e non demonizzarlo come “partitocrazia”.

 

Il “che fare” di Gramsci.

In una fase di crisi economica del capitalismo e di rivendicazioni sindacali corporative – guidate dai vertici sindacali – nemmeno di tipo salariale ma solo per l’assistenzialismo e per le rispettive “elemosine” di stato alle imprese o ai ceti deboli, è utile ricordare che l’importanza raggiunta nel mondo dal pensiero di Antonio Gramsci nell’ultimo scorcio del precedente millennio e nel nuovo, sta nel fatto che al di là della frammentarietà obbligata degli scritti e del suo pensiero intrinsecamente difficile – soprattutto per i non italiani, a causa della molteplicità dei suoi riferimenti all’Italia letteraria, filosofica, storica – Gramsci ha suggerito e spiegato sia quali siano le ragioni della forza del liberalismo e del capitalismo, sia le vie attraverso cui un movimento rivoluzionario può guadagnare terreno, anche quando il vecchio regime sembra saldo al potere.

Una specie di “Che fare?” di un partito comunista in quelle che Gramsci chiama le democrazie moderne, che assume la lezione della funzione dell’iniziativa politica soggettiva e della più netta critica rivolta allo spontaneismo propria del “Che fare?” di Lenin, non per una semplice adesione ma per sua riflessione personale e a seguito di tutta una maturazione politica e teorica…

Oggi ci sono movimenti come i “no-global” o anche cosiddette “sinistre”, che si dichiarano “antideologici” e che, essendo privi di teoria, non sanno porsi la questione dello stato e del potere dove esso si esplicita, finiscono col sciogliersi in più o meno locali e presunti globali movimenti che, come quelli statunitensi, si sperdono in una infinita raccolta di gruppetti che si muovono su tutto e non trasformano niente.

All’opposto insomma di Gramsci, che insieme alla dimensione politica del processo storico ha saputo cogliere l’importanza del momento ideologico, teorico e del ruolo dello Stato e della cultura. Un teorico non solo delle sovrastrutture, perché è attento e le analizza tutte e sempre in riferimento alle trasformazioni strutturali ed economicheche considera fondanti, cosa che gli ha permesso di sviluppare la concezione “dell’egemonia” e l’importanza che questa ha soprattutto nelle società moderne.

Egemonia” che Gramsci rintraccia in Machiavelli e di cui Gramsci – oggi conclamato come “il più grande studioso del potere dai tempi del Machiavelli” – dimostra come anche i giacobini hanno avuto una politica egemonica audace e come tale concetto abbia avuto dal punto di vista storico un’applicazione abbastanza vasta. Un concetto che spiega come un sistema sociale ed economico, anche se in crisi, mantiene e può conservare il consenso; e come una classe rivoluzionaria possa stabilire la sua superiorità culturale e morale anche indipendentemente dal suo potere politico, e anche senza stare o andare al governo. Come è successo in Italia fino alla metà degli anni ’70, quando il movimento operaio italiano e il partito comunista hanno saputo, per così dire, “governare” dall’opposizione, espandere l’influenza della classe operaia ed aumentare la base del loro consenso e appoggio.

Gramsci si dedicò più di ogni altro all’analisi di come il dominio di una classe sull’altra sia oltre che il prodotto del suo potere economico o della coercizione, piuttosto dovuto alla sua capacità di persuadere il dominato ad accettare il sistema di credenze della classe dominante e a condividerne i valori sociali, culturali e morali.

Tanto che molti, che appaiono o vorrebbero essere suoi oppositori, finiscono, in realtà, con l’esprimersi nell’ambito di quegli stessi valori, ed usare le forme filosofiche e di linguaggio dominanti. Da qui la necessità di una riforma anche culturale e morale per realizzare la rivoluzione e la centralità dei problemi dell’istruzione e della cultura, che furono in Gramsci maggiori di quelli che l’arte e la letteratura furono per Trockij e Lukacs.

Dai suoi studi storiciche furono più profondi di quelli di ogni altro pensatore marxiano, fatta eccezione per lo stesso Marx -, Gramsci ha appreso l’importanza che ha un’élite intellettuale – ad es. come la “classe” sacerdotale nella chiesa cattolica medioevale – nel mantenimento di un sistema politico e sociale. Da questa importanza sia per il mantenimento che per la rivoluzione di un sistema, affrontò in teoria e in pratica la questione del ruolo del partito, trovando anche una variazione rispetto a ciò che Lenin aveva potuto sperimentare in condizioni storiche, politiche e sociali diverse.

Una teoria del partitointeso come produttore di nuove intellettualitàcrogiuolo dell’unificazione di teoria e pratica intesa come processo reale”, un “intellettuale collettivo” che poi trovò una pratica attuazione nella dottrina del “partito nuovo” di Togliatti, del partito comunista di massa, saldamente organizzato, capace di condurre una battaglia per esercitare ed allargare l’influenza politica, sociale e culturale della classe operaia in una società e in un sistema politico ed economico di capitalismo sviluppato. In grado di collegare l’attività quotidiana con l’obiettivo finale del socialismo, combinando rivendicazione immediata e prospettiva strategica.

Questo ha giustificato e giustifica l’interesse per Gramsci nel mondo (del quale dagli USA si propone l’attualità del suo concetto di “blocco storico” proponendo che venga applicato non solo allo stato-nazione ma alle sovranazionalità e al mondo globale intero)in base al fatto che lo sviluppo delle sue linee politiche da parte del più importante Partito Comunista dell’Occidente, ha fatto pensare che vi fossero nel suo pensiero, molte risposte a come debba operare un partito comunista in una società democratica di massa e in un sistema politico ed economico capitalistico. Un partito rivoluzionario che opera nell’ambito di una Costituzione democratica programmatica, di democrazia progressiva, aperta cioè allo sviluppo di elementi socialisti nell’ordinamento economico e sociale, di cui l’instaurazione della Repubblica e la preparazione di una Costituzione democratica molto avanzata erano per Gramsci un primo passo poi pienamente compiuto.

Invece della “dittatura” del partito in nome del proletariato, Gramsci ha indicato una tensione dialettica tra chi guida e chi è guidato, con la partecipazione delle masse alle decisioni politiche del partito e delle istituzioni.

Un partito di teoria e organizzazione, in cui come nel “Che fare?” di Lenin rivive la concezione leninista sul rapporto fra spontaneità e coscienza e del partito indipendente del proletariato, ma in cui si pone anche il problema di quali forme dell’organizzazione – dall’alto o dal basso –, di quale rapporto costruire tra base e vertice nelle più varie situazioni e, quindi, in quale collegamento stanno e si devono porre la coscienza e l’essere sociale, nel rapporto tra le idee e la loro base di classe (rapporti di produzionee di scambio), che il marxismo stabilisce demistificando la falsa universalità delle idee tradizionali che presiedono alla conservazione e al moderatismo. Ridando, in tal modo, una freschezza alle celebri proposizioni leniniste (“Senza teoria rivoluzionaria non ci può essere movimento rivoluzionario”; “solo un partito guidato da una teoria d’avanguardia può adempiere la funzione di combattente d’avanguardia”), tanto più necessaria di fronte alle tendenze che le correnti pragmatistiche e neopositivistiche del nostro tempo, ben aderenti al dominio del grande capitale, ereditano dalla socialdemocrazia per presentare la teoria del partito rivoluzionario e la sua concezione del mondo come un’anticaglia ideologica da riporre.

Non quindi una metafisica del partito e un corpo dottrinario chiuso, ma dotato di un metodo d’indagine, di concezione e di azione, sempre aperto e in progresso, per l’elaborazione della teoria dello sviluppo della società e della sua trasformazione rivoluzionaria.

Una concezione del partito che cerca il consenso e l’egemonia culturale e politica, che deriva e si pone in diretto rapporto con il concetto specificatamente gramsciano di “società civile”,intesa come un insieme di organismi definiti “privati”, come i sindacati, i partiti politici e le associazioni più varie, le Chiese, gli editori, i giornali, ecc., che come tali non appartengono alla sfera dello stato nel senso stretto e che funzionano secondo il principio dell’adesione volontaria.

Principio dell’adesione volontaria che è un dato fondamentale, che deriva da una iniziativa degli individui e non dunque da un comandamento dall’alto, dello stato o di un vertice politico e di partito, ma che deriva da una iniziativa dal basso dei cittadini (come da art.49 C.), di adesione volontaria. Organismi della società civile, che cercano di ottenere il consenso di larghe masse della popolazione – e che per ciò in primo luogo devono sapere ottenere il consenso dei propri aderenti e della propria base volontaria piuttosto che ricorrere al comando burocratico e coercitivo dall’alto – in quanto essi sono il luogo di una lotta per l’egemonia sull’intera società, ovvero per l’egemonia culturale e politica di un gruppo sociale sull’intera società, in cui gli intellettuali hanno un ruolo fondamentale.

Si tratta di ottenere il consenso, di persuadere, ed evidentemente, per poterlo fare, è necessario che chi cerca di ottenere il consenso e l’egemonia, usi consapevolmente e coerentemente, dentro e fuori la propria organizzazione, questa politica egemonica e questa forma di politica, e per ciò, dice Gramsci, si faccia portatore di un progetto in qualche modo universale. In tal modo chiarendo anche perché oggi (e non per colpa delle Televisioni di Berlusconi), chi ha abbandonato il progetto e l’obbiettivo del socialismo, di cui non si parla nemmeno più, perde credibilità, egemonia e consensi a favore di quelli crescenti della destra e della borghesia.

In contrasto con la società politica e con lo stato intesi come organi giuridici che funzionano secondo il principio del comando, secondo il principio della coercizione o anche, come dice Gramsci, della dittatura, qui abbiamo un principio completamente diverso, quello della libera adesione, abbiamo il principio del “consenso”, che permette di dire che lo stato, come lo concepisce Gramsci, non è riducibile alla semplice società politica o allo stato nel senso letterale del termine.

Un pensiero, dunque, specie quello dei Quaderni, che come ha scritto anche uno storico (Hobsbawm), è completamente incompatibile con l’ortodossia stalinista. Una elaborazione marxista di Gramsci e un’esperienza storico-politica del partito comunista da lui fondato, che rappresentano una tradizione alternativa, diversa e opposta a quella sperimentata nell’Urss con la “rivoluzione antileninista” di Stalin. Più vicina, in un certo senso, al Marx della Critica al programma di Gotha e al significato della lettera di Marx ed Engels a Bebel e Liebknecht, in cui si riafferma il principio della capacità della classe operaia “di emanciparsi da sola, anche facendo a meno di gruppi dirigenti cui spesso il primo principio è di insegnare agli altri ciò che essi stessi non hanno imparato”. Un contatto con tali posizioni teoriche che è possibile cogliere in almeno alcune parti e alcuni tratti dell’esperienza concreta del movimento operaio italiano, per un diverso rapporto base e vertice e tra partito e masse.

Facendo della filosofia della prassi di Marx ed Engels il vissuto e il nucleo centrale del suo insegnamento e della sua vita, Gramsci seppe dare all’esperienza politico-pratica una dimensione storica e filosofica inusuale tra i politici, marxisti o no. Con insegnamenti originali sui rapporti tra sistemi economici, stato e ideologia, tra letteratura e istruzione e, soprattutto, tra passato e presente.

All’opposto dell’appiattimento sul programmatico e vuoto pragmatismo, disancorato dalle tendenze teorico-politiche che in tutto il ‘900 – soprattutto a partire dalla rivoluzione d’Ottobre – hanno caratterizzato le lotte per la “democrazia sostanziale” e che i vertici diessini ex-ex PCI mistificano come gestione realistica del presente, Gramsci si sforzava di inquadrare e analizzare costantemente l’azioni politica propria e altrui nei termini di una teoria generale della storia e della società e di collegare l’esperienza politica attiva in un ampia struttura storica e filosofica.

Così per Gramsci il realismo-reale è fatto sempre di tre momenti: il reale-passato, il reale-presente, il reale-futuro, che già basta a smascherare il pragmatismo e il revisionismo dei vertici ex-ex Pci, a cui sono approdati perché, evidentemente, ritenevano provvisoria e usavano strumentalmente la lezione di Gramsci, considerato uno dei pensatori politici più interessanti del XX secolo e per molti il teorico più importante dai tempi di Lenin.

In realtà, evidentemente, negli orizzonti degli ex-ex PCI come unica scelta restava o la tradizione autoritaria stalinista o quella del revisionismo ex-riformista a cui si sono rivolti. Non a caso entrambe fondate sul governo e il comando dall’alto e sul centralismo burocratico, che escludono ogni vera dialettica tra masse e partito, tra base e vertice, che li porta a propugnare e praticare le forme del potere verticistico e persino monocratiche e personalistiche,  nelle istituzioni e nelle loro organizzazioni.

Sicché hanno introdotto il “culto della personalità” e il dispotismo presidenziale “de facto”, con maggioritario e nome del candidato-presidente sulle schede elettorali. E, anziché “il consenso”, non solo i diessini ex-ex comunisti ma tutti gli ex Pci, praticano il comando coercitivo del vertice sulla base nelle loro organizzazioni, trasformate – con finanziamenti statali ai vertici della diade destra/sinistra – da organismi della “società civile” che lottano per ottenere il consenso e l’egemonia culturale e politica della classe operaia, in organismi parastatali di dominio sulla società, in lotta per la mera gestione del potere. A conferma che la lezione di Gramsci risulta fondamentalmente tradita.

 

Partito, stato, diritto e costituzione in Gramsci.

La dimensione storico-filosofica che seppe dare all’esperienza politico-pratica ha fatto di Gramsci un classico del pensiero in tutto il mondo. Ma nelle circostanze odierne il suo pensiero è anche quello che meglio fa vedere quanto lontani siano da una analisi marxista, le valutazioni che dei partiti, oltre che dello stato e del diritto, danno i gruppi dirigenti e gli intellettuali diessini ex-ex-Pci, ma anche di “sinistra” ed ex-Pci in genere, in una subalternità alla cultura conservatrice interessata al degrado della politica che il capitalismo favorisce egemonizzando le forze democratiche di sinistra e inducendole ad abbandonare la loro ispirazione e tradizione, per dispiegare nel loro stesso seno il germe dell’antistato e dell’antiparitto, nel nome di una concezione “antipartitocratica” dietro cui si nasconde in realtà la rivendicazione di una “dittatura” di classe delle classi dominanti.

Con la conseguenza – è Gramsci che parla – che da partiti che elaboravano indirizzi politici “nella società”, si è passati ad una disgregazione parlamentare e alla soluzione “burocratica” dei compiti dei partiti, che di fatto “maschera” un regime di partiti “della peggior specie in quanto operano nascostamente, senza controllo e sono sostituiti ‘da camarille’ e influssi ‘personali’ non confessabili” (Q15, pag. 1809). Visione lapidaria che condanna oggi le culture tradizionali delle forze più conservatrici e i gruppi che hanno gettato via la cultura marxista della trasformazione in senso socialista della società e dello stato, e che da neofiti ebbri di “innovazione”, “modernizzazione” e “governabilità”, con soluzioni (come il maggioritario) antiparlamentari e antipartitiche, nel segno della critica alla “partitocrazia” propria delle cosiddette “riforme istituzionali”, dal Psi ai Pds-Ds esprimono l’“apoliticismo animalesco” dell’individualismo come “negazione dei partiti”, di coloro che pur essendo uomini di partito vorrebbero essere “capi-partito per grazia di Dio o dell’imbecillità di chi li segue”(Q 15, pagg. 1752-1755).

Pagine che mai si poteva immaginare così appropriate non solo all’affermarsi del fascismo, che Gramsci osserva, ma all’oggi. Un repertorio di conoscenze su stato e diritto, sfuggite anche a molti marxisti, per il vizio culturale dei “filosofi” di svalutare come “tecnica” l’analisi delle forme del potere, del diritto e delle Costituzioni.

Invece il dirigente carcerato, anche assumendo la concezione leninista del partito (vedi articolo precedente), ha dato contributi originali sul rapporto tra coscienza e spontaneità, tra idee e loro base di classe, tra base e vertice. Insomma: sull’organizzazione “concreta” e le forme anche giuridiche del “potere”(dall’alto o dal basso). Eloquenti non sono solo le sue critiche al centralismo burocratico. Partendo dalla teoria del partito, cuore della teorizzazione di Gramsci (Quaderno 15, pagg. 1807-9), egli stabilisce infatti l’intima connessione che esiste tra istituzioni, partiti e forze sociali. Donde il contributo essenziale sul partito come “moderno principe”, produttore di nuove intellettualità, fondato sulla dialettica base/vertice e un rapporto tra direzione unificatrice del partito e spontaneità, basato sul consenso e la partecipazione dal basso delle masse alle decisioni.

Ne viene che la teoria del partito non è solo un contributo alla scienza politica, ma anche alla teoria dello stato e del diritto pubblico. Dove per fondare un nuovo tipo di stato si deve democratizzare il partito, non demonizzarlo come “partitocrazia”, abolendo il comando gerarchico dei vertici sulla base e sulla società. Affinché il partito che “né regna né governa giuridicamente”, operi l’intreccio tra società civile e società politica, così che “tutti i cittadini sentono che esso invece regna e governa” (Q5, pag.662), con la partecipazione e il consenso di massa. Fuori, dunque, dal vecchio diritto costituzionale tradizionale, ma in un sistema di principi che – tramite il partito – veda la società politica non più separata ma riassorbita nella società civile e la “fine dello stato come la sua propria fine” di società politica (Q5, pag.662).

Ciò indica che il partito ha funzione costituente, che incide su Stato, Costituzione e costituzionalismo. Un partito governato dall’alto, produce governo dall’alto dello Stato. Invece, perrovesciare il rapporto tra governati-governanti a favore dei primi, ci si deve dare forme opposte a quelle giuridiche tradizionali della politica e dello stato, in cui il “diritto” serve a creare conformismo sociale da parte del gruppo dirigente che “impone a tutta la società quelle norme di condotta che sono più legate alla sua ragion d’essere e al suo sviluppo” (Q6, pag.773). E in cui si legittima l’ideologia dittatoriale di destra “col suo rafforzamento dell’esecutivo” (Q 6, pag. 801) e il comando burocratico dall’alto dei vertici (anche di partito) nei più disparati regimi, – diversi dalla Comune di Parigi -, compresi quelli detti di “socialismo reale”.

Da tale sintesi che, nello stile gramsciano, vale capitoli di letteratura giuridica e scienza politica odierna, risulta apodittica la tesi “bobbiana” sulla mancanza di teoria marxista dello stato, e infondata addirittura quella dell’impossibilità d’interpretazione marxista del diritto pubblico.

Grande dirigente, intellettuale e politico, comunista che, come ogni marxista genuino, non è classificabile in una sola ripartizione del sapere (filosofico, storico, politologico, giurista, economista), Gramsci fa una valutazione non solo “filosofica” (quindi sintetica), ma anche “giuridica” (quindi analitica) dello stato. Cogliendo come i valori gerarchici dell’impresa, cui si ispira l’organizzazione del potere nella società capitalistica, si sono tradotti in termini istituzionali e normativi nello stato italiano, e come rovesciarli. In contrasto con chi ritiene che lo stato va solo governato da forze “progressiste” anziché da quelle conservatrici, con strumenti e metodi analoghi. E in contrasto con il marxismo agnostico di chi all’opposto – col pretesto di critica radicale del diritto e delle costituzioni borghesi -, ritiene che lo stato vada solo ‘estinto’, ma finisce teoricamente subalterno alle forze capitalistiche, che usano sapientemente diritto e costituzione, tanto più quanto più ostenta atteggiamenti “antistatalistici” espressione di falsa coscienza ritorta contro un marxismo incoerente. 

Gramsci l’italiano più letto nel mondo e più conosciuto in Italia: partito, Stato, diritto e Costituzioneultima modifica: 2012-07-18T08:20:00+02:00da iskra2010
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