Dalla Farmoplant (art. d’Albergo) ad ILVA (3): “LASCIATE OGNI SPERANZA VOI CHE “A SINISTRA” STATE

 

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da Angelo Ruggeri

Dal caso Farmoplant al caso ILVA (3)

“Lasciate ogni speranza voi che ‘a sinistra’ entrate e state”

L’ILVA è la conseguente ed ultima testimonianza di quando ad opera della stessa CGIL e della pseudo “sinistra ambientalista” (dal PD a Sel) si iniziò a contrapporre lavoro e salute, scindendo – come si proponeva la destra quando nel ’68-’69 introdusse l’ambientalismo in Italia – dalla economia e da produzione-salute-ambiente di fabbrica quelli del territorio, liberando (liberisticamente) le imprese dal controllo sociale di operai/cittadini uniti nella lotta dal ’68 e negli anni ’70 per la programmazione e il controllo sociale dell’economia e del come e cosa si produce in fabbrica.

Uniti nella lotta per una pianificazione a base territoriale e non più discendente dai vertici centralisti, che consenta agli interessi di lavoro, produzione e salute di operai e cittadini di coordinarsi tra loro- integrando economia e territoriocon una programmazione sociale che superi le separatezze.

(e per chi non conosce il caso Farmoplant o lo ho dimenticato – tratto da… – alleghiamo e pubblichiamo qui sotto: “La lezione del caso Farmoplant. Ambiente, economia e lavorodi Salvatore d’AlbergoRelazione al convegno del CRS sul “caso Farmoplant”, in “Democrazia e Diritto” e nel Dossier/Referendum del Centro Il Lavoratore), indice: Una pianificazione economica-sociale a base territoriale; – Il caso Farmoplant e i complessi rapporti tra interessi della comunità al lavoro e interessi della comunità all’ambiente; – I beni ambientali come beni pubblici impone l’esplicazione di poteri coerenti con la sovranità popolare contro la sovranità d’impresa tutelata dal potere verticistico dei governi; – Le ragioni di quanti denunciano che i poteri verticisti di governo sono la forma coerente delle scelte antisociali; – Il referendum sul nucleare dimostra che si può incidere sui poteri d’indirizzo del governo intaccando il “governo per comitati” e per Enti (pubblici e uguali ai privati); – Il coagulo dell’iniziativa attorno ai movimenti e ai  referendum per diritti economico-sociali come scala mobile e nucleare.  

 Dalla boria dei “dotti” siamo oramai alla boria degli “in-dotti” e incolti del “primo governo” italiano in cui tutti i ministri sono in conflitto d’interesse (e quello di Monti è un conflitto addirittura mondiale) e dei ministri “tecnici “(sic!) interessati al caso ILVA-Taranto

Cancellando la memoria si cancella l’identità,personale e collettiva, sociale e di classe(comevolutamente hanno fatto ex sinistra e Cgil che ha assuntol’ambientalismo: cultura di destra e introdotta da governi e destra politica e padronale). E perdendo l’identità si perde la responsabilità. Donde che solo oggi, dopo 30 anni e solo grazie all’intervento della magistratura, il caso ILVA  è una delle testimonianze dell’assoluta mancanza di responsabilitàda parte di tutti, in cui viviamo da decenni: come conseguenza della volutamente cancellata identità di lavoratori e popolo, vittime dell’opera di cancellazione della memoria operata da parte di governi, politici, padroni e sindacati e giornalisti. E con la mancanza di identità e di responsabilità è sparita, non si parla e nemmeno più si pronuncia la parola RIVOLUZIONE . 

I boriosi e incolti ministri “tecnici”, bene farebbero a ripassare la storia della distruzione e dello sfruttamento – ad un tempo – del lavoro, della salute e dell’ambiente del Paese.

Tutti, in primis la ex sinistra di pseudo-cattolici e post-comunisti del PD, e sindacalisti della CGIL (oltre che di UIL, Cisl, UGL, ecc.), farebbero bene a ripassare la storia delle lotte, vincenti, per il controllo operaio e sociale della produzione, della salute e dell’ambiente di fabbrica e di territorio nella unità di fabbrica/territorio e di  operai/cittadini uniti nella lotta, abbandonando le quali si sono originati casi come quello Farmoplant  di cui è contemporaneo ma esploso in ritardo il caso ILVA.

Andando a Taranto o sulla strada del ritorno avrebbero fatto bene a PASSARE ALLAITALSIDER DI NAPOLI.SMONTATA OLTRE 10 ANNI FAper darla e inviarla alla Cina,  DOVE, DA ALLORAIL TERRENO ERA E RESTA TUTTO ANCORA DA BONIFICAREE  Né VOGLIONO Né SANNO ANCORA COME E COSA FARE.     

E questo, in una ZONA, e una COSTA e un golfo leggendari, quale quelli di BAIA, POZZOLI, BAGNOLI; del LAGO DI AVERNOdove CARONTETRASPORTA AGLI INFERI LE ANIME DEGLI EX E POST SINISTRA, della CUMA della SIBILLA, delle TERME DINERONE (CON LA STUFA PER SAUNE ANCORA FUNZIONANTE), agli INCREDIBILI PAESAGGI E AI LUOGHI DI STORIA E LEGGENDA (ecc. ecc.): LUOGHI CHENON SONO SOLO  UN “PATRIMONIO DELL’UMANITà” ma “PATRIMONIO DELL’UOMO IN QUANTO UOMO” O PER COSì DIRE “UN PATRIMONIO DI DIO”.

( Luoghi, che come molti – ci si consenta un ricordo della memoria –  abbiamo conosciuto, ospiti dell’ancora amica Anna Caser e dell’allora amico Mario Bolognani, mio compagno di lotte contro i “peggioristi” detti “miglioristi”di Varese, Milano e Roma del PCI, diventato responsabile nazionale per la direzione del PCI della Ricerca scientifica (eravamo assieme il giorno della scoperta del cadavere di Moro in via Castani) ma che non seppe reggere alle pressioni e allo schifo della destra napolitaniana del PCI. Così lasciò per farsi imprenditore (non commendevole ma ben diverso da un altro grave caso di un Gian Piero Castano passato dalla Fiom a capo del personale d’impresa ed oggi funzionario al ministero dell’industria, dove come controparte del sindacato, lavora indifferentemente per un governo o l’altro: Prodi o Berlusconi o Montipari sono in questo non ha torto.

Dopo decenni di negligenza, assenza e corruzione, tutti intervengono dopo e solo perché è intervenuta la magistratura: ultima “casamatta” della democrazia e presidio della Costituzioneignorata da tutti e che solo i magistrati conoscono e applicano. Sì che contro I MAGISTRATI intervengono tutti quelli che mirano a destrutturare la democrazia-sociale della nostra Carta: da Berlusconi a Napolitano, da destra e da  sinistra a Montiche a copertura dei segreti dei “potenti” e dei corrotti, ha annunciato “provvedimenti” contro le “intercettazioni” (sic!), e contro i magistrati  di Palermo, di Taranto e d’Italia e quei giornalisti rei di applicare l’articolo 21 della Costituzione  che quelli come Monti, Berlusconi e Napolitanovorrebbero “subordinarlo” (cancellandolo) alla c.d. “privacy.

Privacy che non è contemplata dalla nostra Costituzionema èpratica” privilegiata nelle patrie dell’autoritarismo liberale e nei Paesi anglo-americani che, appunto, in conformità con l’ideologia liberalevolta a tutelare elusivamente il “privato”,si occupano esclusivamente della privacy: formula dell’ideologia giuridica “privatistainventata da un avvocato americano, membro del movimento sionistaamericano, (sionista, non semplicemente ebreo) ispirato dal settecentesco Ralph Waldo Emerson, trascendentalista,pastore e ministro dellaChiesa Unitaria americana,conclamatoantisociale sostenitore dellasolitudine individuale come criterio e fonte di libertà” (sic!). 

Fatto salvo e chiarito il fondamentale ruolo della magistratura ormai unico presidio della democrazia costituzionale e del controllo di legalità ma anche di legittimità, ora si tratta di passare –  ripartendo dalla lezione delle lotte e strategia già attuate e perseguita  con successo –ad una fase più avanzata di disciplina degli interessi sociali in discussione, che il fondamentale strumentario del contenzioso giudiziario è ovviamente insufficiente e inadeguato a rappresentare. Ecco quindi il valore della lezione della storia, del caso Farmplant e dell’articolo di S. D’Albergo, al fine di riprendere le mosse da una più attenta — cioè conseguente –  valutazione del ruolo del capitalismo e degli effetti di svalorizzazione sociale derivanti dal tipo di meccanismo di sviluppo che il capitalismo promuove, che può permettere anzitutto di riscoprireil significato più corretto di democrazia diretta come demo­crazia “ di base”, che coinvolge “tutti ”, ovvero la “ generalità ”dei soggetti dell’”ambiente” del territorio e della produzione, in funzione della loro partecipazione alla divisione sociale del lavoro,e non solo in funzione di una astratta “ cittadinanza sociale“ per i “diritti civili”che accomuna tutti “spersonalizzandoli ”della loro identità sociale sia di lavoratori-cittadini che di cittadini-lavoratori . (Ang. Rugg.)

 

La lezione del caso Farmoplant (1)

Ambiente, economia e lavoro 

Il tipo di percorso che, sulla base della normativa vigente, è destinata a seguire la vicenda dei rapporti tra Comune di Massa e impresa Farmoplant, e quindi tra elettorato locale, movimento ambientalista e partiti, lavoratori e organizzazioni sindacali, è tale da suggerire – per la peculiarità – una primadocumentazione , rivolta anzitutto a non disperdere una memoria storica che va attinta da diversi rivoli di fonte sia nazionale che locale. E’ utile d’altra parte tentare un’analisi che, nella sua inevitabile sommarietà di approccio, miri ad aprire un dibattito ampio ea più voci. Tanto più necessario quanto più appare singolare ed anche inquietante – che la cultura, pur cosìsensibile a intervenire genericamente sui temi dell’inquinamento dell’ambiente, della produzione industriale , della democrazia diffusa, del potere locale, dei movimenti, dei referendum, come argomenti a sé stanti, risulti completamente latitante proprio su una questione che collega strettamente tra loro tutti quei temi, reclamando pertanto analisi e presedi posizione specifiche, e in grado di dare un contributo anche di proposta.

Perché il caso Farmoplant non ci chiede tanto di fare scelte di campo comunque necessarie e impegnative, quanto di sforzarci di vedere come, a partire dall’intreccio di questioni che esso coinvolge, sia possibile individuare strumenti nuovi di democrazia politica, economica e sociale, per la regolazione di rapporti e la risposta a domande sociali che attualmente sono consegnati a strumenti inadeguati, perché espressione normativa e istituzionale di una fase superata. 

E’ la prima volta, infatti, che una sequenza di atti rientranti nelle attribuzioni rispettivamente di un Comune e di una impresa – il primo, per autorizzare l’effettuazione di una produzione pericolosa per la salute, la seconda per dedurne conseguenze sulla continuazione della produzione e dell’occupazione – riceve il suo impulso dall’esito di una consultazione referendaria che, a larga maggioranza, ha convalidato le proposte provenienti dal movimento ambientalista, vanamente contrastate dai partiti della maggioranza locale. Proposte intese ad eliminare le cause dell’inquinamento ambientale, e quindi a modificare il rapporto tra il Comune e la Farmoplant, incidendo sul potere autorizzatorio del primo verso l’attività produttiva della seconda.

In questa sede, al di là delle pur importanti conseguenze – testimoniate dal mancato rinnovo dell’autorizzazione, dal ricorso amministrativo della Farmoplant accolto dal TAR con una decisione contraddetta dal Consiglio di Stato sì che si ripresentano le condizioni in base alle quali la Farmoplant rivendica il potere di licenziare i propri dipendenti -, sembra necessario formulare alcune osservazioni sulle implicazioni generali di un intreccio di questioni che,presentatesi con tutto il loro peso a Massa, vanno seriamente analizzate e discusse come caso esemplare e ripetibile in qualunque altra parte dei territorio nazionale. E’ infatti divenuto caso “nazionale” — appunto — l’impatto del problema ambientale con quelli dell’economia e del lavoro, e si tratta di esaminare se il contenzioso aperto dal referendum sia responsabilmente solubile con gli strumenti di tipo giurisdizionale — come, in base alla normativa vigente, sta verificandosi —, o se non debba avanzarsi l’ipotesi di un diverso meccanismo normativo, capace di regolare un tipo di relazione socio-economico-politico-istituzionale neppure immaginabile nella fase storica passata, nella quale l’incidenza dell’industrializzazione non aveva manifestato effetti così devastanti ed intollerabili come quelli cui stiamo ogni giorno — e con allarme crescente — assistendo.

Si comprende bene, allora, perché si presenti essenziale ai fini dell’analisi di più ampia portata, qui anticipata come vuoto da colmare, un’attenta valutazione del significato assunto dall’istituto referendario, il cui ruolo attuale e potenziale, va ricostruito attraverso una lettura delle vicende politico-istituzionali, che si sono sviluppate con diversi tipi di contraddizioni, dopo la “rottura” degli anni 68-69. Vicende che mettono in causa il rapporto fondamentale tra forma di stato e forma di governo alla luce della dialettica e dell’intreccio tra valori sociali, economici e politici. E’ evidente infatti che, per capire come si possa essere pervenuti alla proposta, all’indizione e all’esito del referendum sulla Farmoplant, si deve mettere in campo un tipo di riflessione che individui correttamente la dinamica delle relazioni tra interessi sociali e istituzioni, non potendosi oscurare un dato importante come quello della introduzione dell’istituto referendario dentro quella fase che aveva visto nascere l’istituto regionale come strumento di democratizzazione “politica”, prima che “amministrativa” dello stato: in nome di una esigenza di socializzazione della politica e dell’economia, che sui territorio regionale e locale faceva sorgere nuovi istituti di democrazia di base, sui versanti sia politico che sindacale.

Una prima contraddizione da cogliere, quindi, è rappresentata dal fatto che altro è il referendum previsto negli Statuti regionali, altro è il referendum abrogativo previsto dalla Costituzione per l’ordinamento statale. Tanto che sarebbe grave dimenticare – nonostante il significato assunto poi dal referendum abrogativo in rapporto alle dinamiche dei rapporti tra i partiti e i movimenti –, che il primo referendum della nostra storia repubblicana è stato promosso da forze conservatrici, intenzionate ad espellere dal sistema legislativo un istituto di progresso civile come il divorzio.

Il divorzio come conquista della breve attuazione costituzionale della centralità del Parlamento e della differenza tra maggioranza legislativa e maggioranza di governo

Il  referendum per il divorzio è stato comunque esemplare, assieme a quello sul diritto di abortire e a pochi altri, nel far coincidere il ruolo avanzato della “centralità” del Parlamento con il ruolo avanzato di partiti e movimenti, impegnati su diversi fronti a far saltare la prassi incostituzionale, secondo cui l’unica maggioranza “legislativa” valida, doveva essere la maggioranza “governativa”(che sul divorzio si divise) propria delle formule centrista prima, e di centrosinistra poi.

La stagione della centralità del Parlamento, com’è ben noto, è però durata assai poco, e così le incertezze nei rapporti tra i partiti della fase successiva al 1975, hanno favorito un uso dell’istituto referendario di segno diverso da quello conservatore, poiché l’iniziativa è stata poi assunta da forze che, con moventi non condivisi dai partiti dell’opposizione storica di sinistra, avviarono un processo di tipo nuovo, dagli sviluppi imprevedibili, e che comunque ebbe i germi di quello che si è configurato poi sempre più nettamente e consapevolmente, come un tentativo di spostare  l’asse dell’iniziativa  politica a favore dei partiti-movimento.

Nuovo ancora è il caso del referendum contro il decreto sulla scala mobile. La cui caratteristica più importante rimane ricollegabile al fatto che, per la prima volta, (dopo il tentativo promosso da DP sulle liquidazioni) l’istituto referendario si cimentava sul un terreno di contenuto economico-sociale: a differenza dei precedenti, che incidevano sulla regolazione di istituti  di diritto civile, o dell’ordine pubblico o dell’ordine politico. Si evidenziava così una seconda contraddizione che lo stesso protagonista dell’iniziativa referendaria, di fronte all’intreccio che la questione della scala mobile — colpita dallo “scambio”  tra governo e sindacati – presentava tra problemi della democrazia politica, e problemi di democrazia economica e sociale. Già in quell’occasione la dottrina, specie quella giuridica, ha palesato una grande incertezza, perdendo di vista la circostanza di grande interesse politico e culturale, che vedeva i cittadini – compresi i lavoratori – esprimere un voto in una questione che aveva registrato l’intervento, in nome dei lavoratori, delle centrali sindacali. La logica intrinseca dell’istituto referendario si è così sovrapposto e contrapposto alle forme tradizionali del conflitto sociale, coprendo un percorso di cui troviamo echi anche nel dibattito sindacale sui referendum “interni”, di ratifica delle piattaforme o degli accordi contrattuali.

Il coagulo dell’iniziativa attorno ai movimenti e ai  referendum per diritti economico-sociali come scala mobile e nucleare. 

Solo l’esito del referendum, che per poco vide allora convalidare l’intervento sulla scala mobile, ha potuto ostacolare un approfondimento, altrimenti inevitabile, di una questione che rimane tuttavia segnata dal fatto che i cittadini si sono espressi su una questione non di diritto civile o politico, ma di diritto economico-sociale.

Con il volgere del tempo, nel consumarsi di una crisi prolungata delpentapartito e nel conseguente deteriorarsi delle istituzioni, e per l’incalzare di problemi vitali come quello della pace e dell’ambiente minacciato dacause diverse (ma tutte riconducibili direttamente o indirettamenteall’industrializzazione), è venuta consolidando una divaricazione tra partiti e società in ogni sede, sia centrale che locale, che ha provocato il coagularsi sempre più intorno a movimenti e ad associazioni di iniziative rivolte a superare i limiti di funzionalità delle istituzioni rappresentative.

E’ così che il referendum è andato accreditandosi come strumento positivo di democrazia. In questo senso la maturazione di una coscienza democratica di massa, per cui i  partiti di sinistra e specialmente quello comunista, avevano speso il meglio delle loro energie intellettuali e politiche, era destinata a rimanere un patrimonio indistruttibile e il fondamento dell’esercizio di poteri di tipo nuovo, per garantire e fare avanzare ulteriormente la democrazia, posta a repentaglio dall’uso devastante del principio della “governabilità” .

  Gli sviluppi  più recenti sono davanti a noi, e vedono l’istitutoreferendario protagonista di un processo di sempre più netta dislocazione degli scontri politico-istituzionali e livello sociale. In quanto le contrappo­ste tendenze a recuperare un potere dall’alto, che non riesce a imporsi senza contrasti, e per converso a dare alla sovranità popolare una estrinsecazione diretta e non esclusivamente delegata, testimoniano di una polariz­zazione instabile – di cui non è possibile anticipare lo sbocco -, tra quelle forze che, con determinate riforme istituzionali, vorrebbero alterare definitivamente il tipo di equilibrio modellato dalla Costituzione ma concreta­mente disatteso dalle “formule politiche” di governo, e quelle forze che al contrario mirano a passare da una democrazia di massa ora egemonizzata dalle convergenze collusive tra esecutivi di governo, di partiti e di sindacato, a una democrazia di massa più compiuta e che si fondi su un ruolo attivo dei soggetti sociali direttamente interessati a decisioni più conformi ai loro interessi (2).

Le ragioni di quanti denunciano che i poteri verticisti di governo sono la forma coerente delle scelte antisociali

Le questioni della pace — anche se i missili di Comiso saranno rimossi a seguito di mutamenti negli indirizzi strategici delle grandi potenze, che però hanno dovuto tener conto, tra le complesse esigenze della loro politici, anche delle forti spinte dei movimenti pacifisti —, e le questioni ecologiche, rese drammatiche specialmente dal rischi dell’energia nucleare, hanno dato ragione a quanti denunciavano e denunciano che le forme del potere di governo verticista, sono lo strumentario più coerente delle scelte antisociali. Scelte antisociali operate in contrasto con le attese di quanti, con una fiducia sempre più incrinata, avevano delegato l’esercizio del potere al  sistema rappresentativo. Sistema manomesso in nome di un vecchio principio, ma ripresentato con forme più sofisticate, secondo cui l’indirizzo politico, sia nello stato liberale, che in quello totalitario e in quello democratico, dovrebbe spettare in ogni caso al potere esecutivo.

In questo conflitto, l’uso del referendum abrogativo si è andato dilatando – sia quantitativamente che qualitativamente – e si è cercato di dar vita a un referendum di altro tipo, come quello “consultivo”. Anche se il dubbio che sia necessario colmare una lacuna costituzionale, ha indotto le forze politiche a formulare proposte di legge “costituzionali”, che non hanno mai avuto un reale iter parlamentare e che, sulla base di una più convinta analisi delle articolazioni legittime del principio della sovranità popolare, avrebbe potuto avere la forma della proposta di legge “ordinaria”.

Quel che in ogni caso conta è che si va radicando un orientamento di certo meritevole di ulteriori approfondimenti e precisazioni – come più avanti accenneremo, per i suggerimenti che sembra fornire il caso Farmoplant –, per cercare percorsi diversi da quelli della democrazia rappresentativa (Ingrao), in quanto siamo in presenza di “manifestazioni di indirizzo proprie delle masse” (Cotturri).

Su tali profili delle questioni che chiamano in causa sia la democrazia di base – che è il versante sociale della sovranità popolare – sia la democrazia diretta – che convenzionalmente ne è l’espressione politico-istituzionale -, occorre fare qualche riflessione.

Si tratta di verificare se:

a)      siamo ad una soglia così critica della democrazia rappresentativa, da

doverne constatare l’inadeguatezza cronica (o addirittura il superamento),

b)      se viceversa si debba intravvedere l’avvio, incerto e contrastato, di una

nuova fase di sviluppo della democrazia, intesa come “processo” articolato di strumenti istituzionali di democrazia sia diretta che delegata.

Per restare fedeli ad un metodo di rilevazione realistico, che però aspiri ad aprire una prospettiva nuova di democrazia più avanzata, sembra opportuno intanto dare atto che, i movimenti, si dislocano su traiettorie distinte e parimenti significative, della possibilità di incidere sugli assetti di potere esistenti (come provano le iniziative e gli sbocchi dei referendum abrogativi statali in materia di energia e del referendum consultivo locale in materia di produzione/inquinamento). Utilizzando cioè strumenti previsti e non previsti dall’ordinamento, nel campo di interessi che vedono i cittadini come soggetti, al tempo stesso, di democraziapolitica ed economico-sociale.

Il referendum sul nucleare dimostra che si può incidere sui poteri d’indirizzo del governo intaccando il “governo per comitati” e per Enti (pubblici e uguali ai privati)

Seguendo la prima traiettoria – atta a dimostrare che anche un’iniziativa di tipo negatorio come il referendum abrogativo può essere utilizzata per imprimere un nuovo corso alla dialettica politica e sociale –, si sta affinando l’immagine della possibilità di un potere decisorio reale che veda collegati movimenti, partiti e popolo. Sul versante nel quale la forza di governo, è tutta concentrata in un vertice che, notoriamente, sfugge al controllo delle istituzioni rappresentative, in quanto è stato  dimostrato ormai in modo irrefutabile, che gli enti pubblici istituzionali riescono a ottenere franchigie pari a quelle degli organismi privati. Con l’aggravante però che, nello stesso tempo, hanno una legittimazione, in quanto pubblici, a collegamenti formali, ma unilaterali, con l’organizzazione democratica dello stato.

Il grande rilievo, quindi, del referendum nucleare di novembre – che le note vicende sui referendum in materia di giustizia stavano oscurando, per l’anomalia tempestivamente denunciata (Barrera) di un referendum “partitico-parlamentare” attivato da soggetti in grado di far valere altrimenti istanze e proposte in materia di giustizia – è rappresentato dal fatto, che anche una domanda formalmente parziale, come quella di abrogare singole norme di una disciplina dell’energia, ha la potenzialità di incidere sui problemi di indirizzo generale. Intaccando l’esclusiva del circuito Governo (- nelle vesti del CIPE – ENEA – ENEL – ), Regioni-Enti locali. Sollevando questioni che raggiungono la stessa configurazione dei contenuti e, quindi, delle attribuzioni del Piano Energetico Nazionale.

Si comprende allora come mai, di fronte alla consapevolezza della necessità di interloquire sui nodi fondamentali della vita sociale, stanno consolidandosi nella cultura e nelle forze politiche, orientamenti rivolti a introdurre un nuovo tipo di referendum, come quello deliberativo/approvativo, di cui si è parlato in sede di discussione delle “riforme istituzionali”, ipotizzandosi un meccanismo che veda collegati movimenti e partiti, assemblee parlamentari e popolo.

Il caso Farmoplant e i complessi rapporti tra interessi della comunità al lavoro e interessi della comunità all’ambiente 

Ma il caso Farmoplant sembra giustificare l’apertura di un fronte di intervento nuovo, generale e non solo puntuale, come nuovo rimane anche il referendum deliberativo/approvativo, perché gli effetti del voto popolare di Massa – a stretto rigore formale non necessitati, se si assumesse il carattere meramente consultivo di quel referendum –, dimostrano che le alternative in gioco su questioni rilevanti come  i problemi dell’ambiente, della produzione e dell’occupazione, solo in apparenza hanno carattere limitatamente locale. E chiamano quindi in causa una regolazione organica e complessiva di interessi e di rapporti, e quindi un livello più sistematico e permanente  di titolarità e di esercizio di poteri democratici, per accentuare un concorso di responsabilità  ed evitare l’unilateralità che, con alternative anche drammatiche, volta a volta si profilano a Massa, tra gli interessi della comunità, e quindi anche dei cittadini-lavoratori, alla salvaguardia dell’ambiente, e gli interessi della produzione e dell’occupazione, che in vario modo sono anch’essi interessi della comunità. Beninteso, si tratta di passare ad una fase più avanzata di disciplina degli interessi sociali in discussione, che evidentemente lo strumentario del contenzioso giudiziario – come sopra già accennato – è inadeguato a rappresentare.

In termini più espliciti, il caso Farmoplant dimostra in modo concreto, che la questione ambientale ha assunto la dimensione di questione strategica, sia per le sue implicazioni nella definizione di “nuovi valori” e di “nuove compatibilità”, che per la “critica dei sistemi economici” e politico-istituzionali dominanti nella società industriale (Clementi-Giovannini).

Integrare economia e territorio con una programmazione sociale che superi le separatezze

Non è il caso di attardarci a domandare se si ha una perdente visione catastrofica della realtà, quando si paventano e denunciano gli inquinamenti di origine industriale, agricola e urbana, dal momento che non solo si stigmatizza che i conclamati processi di innovazione tecnologica hanno aggiunto dissesto ambientale, ma si sottolinea l’esigenza di intervenire sul contrasto esistente fra i modelli e processi economici attuali e la fondamentale scarsità di risorse  non rinnovabili.

Occorre invece passare ad un impegno responsabile e indilazionabile che colleghi la rigorosa protezione delle ricchezze naturali con la regolazione dello sviluppo economico e dell’intero territorio. Respingendo al tempo stesso visioni regressive di esaltazione ideologica dell’autonomia dell’impresa e di esaltazione ideologica di una natura presa come valore in sé. Si rende pertanto urgente un salto culturale che, a partire dalla visione critica del movimento operaio circa il carattere antisociale del capitalismo, e coniugandosi con la nuova cultura ambientalistica, punti con strumenti di pianificazione sociale a integrare economia e territorio, superando le separatezze tra programmazione economica, pianificazione urbanistica e politica ambientale, mediante un intreccio di poteri che attuino i principi di democrazia politica, economica e sociale previsti dalla Costituzione, che proprio sotto tali profili mantiene piena validità di ispirazione e progettualità.

Quando si ha in mente l’obiettivo di uno sviluppo rispettoso dell’ambiente e quindi della centralità dei bisogni sociali di comunità interessate ad una nuova qualità della vita e del lavoro, la considerazione dei beni ambientali come beni pubblici, comporta la elaborazione di nuove regole. Per l’esplicazione di poteri democratici rivolti a dare concretezza all’interesse generale, mediante la posizione di vincoli, standard e incentivi/disincentivi che sia espressione di una convergenza di valori e soggettività, disposte istituzionalmente in raccordi integrati di programmazione.

I beni ambientali come beni pubblici impongono l’esplicazione di poteri coerenti con la sovranità popolare contro la sovranità d’impresa tutelata dal potere verticistico dei governi. 

Se si vogliono evitare le contraddizioni scoppiate a Massa tra movimento ambientalista e movimento operaio, tra ente locale e organizzazioni sindacali, con il rischio di oscurare che la contraddizione reale e fondamentale è tra la sovranità popolare e la sovranità dell’impresa , va indicata una nuova strada che sia coerente con il carattere di una sovranità popolare che non è mera democrazia politica, propria di uno stato liberale, ma è la sintesi di forme di potere espresse dai valori, insieme, della democrazia politica, economica e sociale, che una cultura neo-conservatrice ha tutto l’interesse di mantenere separate, per esaltare l’egemonia del potere capitalistico contro i valori unificanti del democrazia sociale del nostro tempo.

Solo elaborando una teoria democratica della complessità sociale – in altri termini -, cioè una teoria che assecondi i processi di sempre maggiore densità ed allargamento della complessità contro una sua pretesa riducibilità e semplificazione, è possibile affrontare in modo adeguato le sfide odierne proposte alla democrazia, disponendosi a considerare come “processo costituente” continuo la dislocazione quotidiana delle forze sociali in campo.

Parafrasando un’indicazione simbolica di ampia portata recentemente proposta con riguardo alla “politica istituzionale” (Cotturri), si potrebbe stabilire una regola non tanto del processo di revisione costituzionale, con la modifica dell’art.138 C. (pur dandosi atto della necessità di ripensare il “processo costituente” in quanto tale), quanto piuttosto di un processo dipianificazione sociale così complesso e articolato da socializzare la politica e l’economia, in forme tali da rendere superfluo il ricorso allo stesso meccanismo di legislazione costituzionale.

Sembra infatti sufficiente un armamentario istituzionale, regolabile con la legislazione formalmente ordinaria, per collegare tra loro soggettività sociali e politiche operanti sul territorio, in un processo pianificatorio risalente dal basso, per linee intermedie regionali, sino alla sede parlamentare. Tale percorso avrebbe la virtù di evitare l’estraneazione  della democrazia rappresentativa da un processo decisionale che oggi vede subalterne le assemblee elettive, anche laddove governa la sinistra, rovesciando al fine il modello istituzionale che ogni forza politica e culturale – anche “iperdemocratica” – ha sin qui costruito. Costruito sull’assunto ideologico che l’indirizzo politico sia sempre e comunque appannaggio degli esecutivi. Sì che dovrebbe francamente ammettersi altrimenti, la corresponsabilità di ogni cultura a proposito del prevalere dei circuiti ristretti del potere – palese ed occulto, nazionale e sovranazionale – sulle istituzioni collegate con la base sociale e politica.

Il referendum di Massa ha dimostrato che gli enti locali possono e debbono essere coinvolti nei processi decisionali complessivi come quelli riguardanti l’economia

Il referendum di Massa – resosi indispensabile, di fronte all’inerzia dei partiti e del sindacato, nell’impostazione di una lotta per la coniugazione degli investimenti della Farmoplant con gli interessi ambientali – va recepito come richiamo a un tipo di regolazione che il referendum, di per sé, è inidoneo a riassumere integralmente, quando l’oggetto degli interventi ha contenuto economico-sociale. Pur se nella circostanza di fatto, anche solo con il referendum, si è potuto dimostrare che le istituzioni locali possono essere coinvolte in processi decisionali più complessivi di quelli che oggi si restringono alle questioni dell’ambiente, senza rapportarsi alle questioni stesse dello sviluppo che i fatti dimostrano inestricabili da quelli del territorio.

Solo collegando, in forme inedite, poteri di diversa origine, sarà possibile evitare che i lavoratori e le loro organizzazioni – tuttora estraniati dal potere di programmazione degli investimenti produttivi – contrastino pregiudizialmente un potere politico sovrano che privilegi le opzioni ambientalistiche, anche a causa del vuoto di potere e di iniziativa delle forze tradizionali della sinistra, oggi impari allo scontro con le strategie antisociali dell’organizzazione capitalistica.

Una pianificazione a base territoriale e non più discendente dai vertici centralisti, che consenta agli interessi di lavoro, produzione e salute di coordinarsi tra loro

Tale collegamento, però, nel quale il referendum può trovare a sua volta una collocazione più avanzata del referendum consultivo – e divenire elemento “costitutivo” come parte necessaria di un procedimento pianificatorio -, va congegnato secondo una concezione programmatoria a base territoriale e non più verticalmente discendente dai luoghi, ove i tradizionali poteri centrali del capitalismo privato e dai loro sodali dislocati nell’organizzazione statale, compiono scelte condizionanti del potere territoriale.

E’ provato ormai che sia la grande impresa diffusa, sia il decentramento produttivo indotto dalle innovazioni tecnologiche, si trovano allocate negli stessi ambiti ove ha la sua naturale articolazione il complesso dei beni ambientali: sicché solo remore ideologiche, a questo punto incomprensibili, possono giustificare l’estraneazione degli organismi della partecipazione politica e della partecipazione sociale, dalla elaborazione delle scelte che consentano al lavoro, alla produzione e alla salute pubblica di coordinarsi, per opzioni che non sacrifichino nessun interesse – come tuttavia si rischia oggi a Massa -, ponendole in un confronto istituzionalizzato e quindi in un ordine di compatibilità, democraticamente selezionato, cioè con lotte aperte e in ogni direzione.

 

1)Salvatore d’Albergo, Relazione al convegno del CRS del 1 aprile 1988 sul “caso Farmoplant”, in “Democrazia e Diritto”, Dossier/ Referendum del Centro studi IL Lavoratore

2)Ci sembra che qui l’autore dia un importante contributo per capire il credito acritico di cui lo strumento referendario ha goduto nello sviluppo delle vicende successive, grazie al credito che come strumento positivo e democratico il referendum aveva acquisito. Anche immeritatamente se si considera che il divorzio non è stato ottenuto ma attaccato dall’istituto referendario appositamente istituito per dare soddisfazione alle forze clerico-fasciste che in Parlamento non erano riuscite a contrastarlo. Ciò ha in qualche modo impedito di cogliere tempestivamente e pienamente a livello di massa, l’uso antidemocratico che successivamente è stato fatto del referendum, soprattutto ad opera dei radicali ma non solo. Questo anche a causa dell’insufficiente analisi operata dai movimenti e dalle  organizzazioni politiche e sindacali della sinistra, circa il rapporto tra democrazia diretta politica e socialee democrazia rappresentativa, e tra uso democratico e uso antidemocratico del referendum e tra referendum e organizzazione del potere. In un momento, oltretutto, in cui si palesava sempre più come potere dall’alto e dominio verticista del governo sul Parlamento e come sostanziale esclusione del popolo dall’esercizio effettivo del potere non recuperabile con l’aggiunta di qualche referendum, quando per di più il loro possibile uso antidemocratico, già cominciava a manifestarsi su larga scala, con i referendum radicali dell’87, come veicolo di scardinamento della Costituzione (n.d.r.)

 

Dalla Farmoplant (art. d’Albergo) ad ILVA (3): “LASCIATE OGNI SPERANZA VOI CHE “A SINISTRA” STATEultima modifica: 2012-10-08T08:20:00+02:00da iskra2010
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