La “sinistra” ha bisogno di andare oltre Keynes

Resistenze.org.jpg

Keynes_John_Maynard.jpg 

Keynes John Maynard

 
di “NL“, Socialist Voice, PC d’Irlanda
 
 
Vorrei iniziare dicendo che naturalmente lo spazio riservato alle idee keynesiane (o, più precisamente, neo-keynesiane) provenienti da esponenti del calibro di Paul Krugman e Joseph Stiglitz è nei media mainstream un gradito intervallo rispetto alle sentenze politiche mascherate da analisi economica che abbiamo subito prima della crisi.
 
Ma né Krugman né Stiglitz, né altri economisti simili, sono di sinistra, né lo fu Keynes. Essi promuovono politiche per cercare di assicurare il dominio del capitalismo globale e progettare una “migliore” e regolata forma di capitalismo, e se questo porta alcuni benefici ai lavoratori è solo di secondaria importanza rispetto ad assicurare il processo di accumulazione del capitale e alla garanzia della sopravvivenza e diffusione a livello globale dei rapporti sociali capitalistici, dell’imperialismo.
 
L’unica ragione per cui i magnati dei media che stanno dietro il New York Times, l’Independent e l’Irish Times danno spazio a queste idee è che Krugman e Stiglitz desiderano salvare il sistema e rabbonire la causa rivoluzionaria delle organizzazioni dei lavoratori.
 
“Lord” Keynes riteneva che il capitalismo fosse la migliore forma di sistema sociale. In poche parole, e nelle sue stesse parole, credeva che “il capitalismo, saggiamente gestito, per raggiungere fini economici può essere probabilmente più efficiente di qualsiasi sistema alternativo attualmente in vista, ma in sé è per molti versi estremamente discutibile”.
 
Così, mentre Keynes era ben consapevole delle “discutibili” caratteristiche del sistema, presumibilmente la guerra, la povertà, la disuguaglianza, l’oppressione, era ancora fondamentalmente impegnato nel suo mantenimento.
 
In sostanza, egli credeva che attraverso la gestione tecnocratica, il sostegno e la direzione, si potesse portare il capitalismo a fornire la piena occupazione, pur non tendendo quest’ultimo spontaneamente a questa.
 
Keynes si opponeva alla lotta di classe e nella sua azione politica adottò una posizione di classe a favore del sistema, incoraggiando i tentativi di convincere piuttosto che sostituire l’establishment politico, cosa che oggi suona famigliare. “Non credo che la guerra di classe o la nazionalizzazione siano allettanti”, diceva Keynes, e questo lo ha portato a favorire l’approccio politico liberale, non di classe e individualista sull’emergente Partito laburista.
 
Senza aver studiato Il Capitale di Marx, l’arrogante Keynes è stato in grado di dichiarare al suo amico socialista George Bernard Shaw la certezza che: “Il suo valore economico contemporaneo (a parte occasionali ma improduttivi e discontinui lampi d’intuizione) è pari a zero”.
 
Lasciando da parte quelli che oggi sono descritti come keynesiani, cosa sosteneva realmente Keynes? In primo luogo, criticava il funzionamento “naturale” del sistema e capiva che, lasciato a se stesso, esso non tende verso un equilibrio tra domanda e investimenti, e di conseguenza posti di lavoro.
 
Giustamente, ruppe con il pensiero classico il quale affermava che l’offerta crea la propria domanda (legge di Say), che se non c’è piena occupazione è perché il lavoro costa troppo.
 
Egli ha anche demolito l’argomentazione conseguente secondo cui è il risparmio che crea gli investimenti e dimostrò che in realtà avveniva il contrario, e così conseguentemente lo squilibrio si verificava a causa di un eccesso di risparmio che non voleva o poteva trovare una via d’investimento a seguito della mancanza di un ritorno o della fiducia di un ritorno (mancanza di domanda).
 
Vide nella crescente disparità di reddito un pericolo per gli investimenti e per la domanda dei consumatori, parti significative della crescita economica, poiché chi ha di più spende in proporzione di meno, mentre un lieve aumento dei salari dei lavoratori ha un effetto enorme sui consumi.
 
Così, secondo Keynes, per contrastare le tendenze all’interno del sistema, la politica statale dovrebbe sostenere la domanda e gli investimenti. E’ noto che egli auspicava la “socializzazione degli investimenti” come mezzo per garantire che fossero investimenti produttivi piuttosto che speculativi, ed in questo modo sarebbe stato sufficiente fornire lavoro per sostenere la domanda e la fiducia sia del consumatore che dell’investitore.
 
Comprese l’effetto moltiplicatore che il lavoro produce sui consumi, sulla domanda e di conseguenza sugli investimenti, portando a più posti di lavoro. Attraverso l’investimento guidato dallo Stato confidava si potesse in definitiva realizzare una “eutanasia del rentier”, la scomparsa della classe degli speculatori improduttivi e stabilire un equilibrio verso la piena occupazione.
 
Sulla base della sua analisi durante la crisi, che secondo Keynes si verifica per un’insufficienza di investimenti, lo Stato dovrebbe ridare fiato all’economia attraverso investimenti e, se necessario, questo potrebbe avvenire attraverso un deficit di spesa, siccome il ritorno in posti di lavoro, tasse e crescita supererebbe il costo del finanziamento. Tuttavia, arriva alla conclusione che anche in tempi normali gli investimenti avrebbero dovuto essere guidati dallo Stato e non lasciati ai capricci e alla psicologia dei proprietari privati.
 
Tutto ciò è ben lontano dalle cosiddette “soluzioni politiche” attuali prospettate dai seguaci più famosi di Keynes che oggi riempiono le pagine dei giornali. Ma ci sono delle significative limitazioni a Keynes che devono essere riconosciute e che la sinistra ha bisogno di superare.
 
Keynes non ha proposto alcuna teoria di sistema nel suo complesso. Egli non ha sviluppato un’analisi completa della stagnazione o della crisi e, cosa più importante, non ha sviluppato un’analisi di classe. Lo sfruttamento è praticamente assente dai suoi scritti. Di conseguenza, non è riuscito a comprendere la natura di classe del sistema e dello Stato, vale a dire gli interessi per conto del quale esso agisce. Questo ha fatto si che il pensiero keynesiano restasse in balia dei governi e dei periodi di recessione ed espansione: tornando di moda durante le crisi, diventando irrilevante durante i boom.
   
Le politiche keynesiane hanno avuto un effetto minimo sulla ripresa dopo la seconda guerra mondiale. La crescita delle spese militari e la guerra hanno avuto un impatto economico notevolmente maggiore. In un sistema economico mondiale affetto da sovrapproduzione e con una capacità produttiva sempre meno costosa, quale effetto moltiplicatore di posti di lavoro ci si può davvero attendere da un aumento dei consumi? Certamente non quello che suggeriva Keynes.
  
Se uno Stato effettivamente socializza l’investimento privato e lo dirige in modo pianificato, quale garanzia di rendimento fornirebbe lo Stato al capitale privato? Non è questa solo una forma più diretta di sfruttamento del lavoro da parte del capitale?
 
In Keynes non vi è collegamento con l’interesse per cui opera il sistema di accumulazione. Quindi, se oggi vogliamo seriamente avanzare verso socialismo e nella lotta per il socialismo, si deve constatare che Keynes è in realtà dannoso per il movimento operaio.
 
Naturalmente dire che Keynes, o Krugman o Stiglitz, non sono radicali non li mette in discussione. Essi non pretendono di essere rivoluzionari o interessati alla costruzione del socialismo.
 
Ma i sindacalisti e i militanti politici di “sinistra” che si pongono il compito della costruzione del socialismo, o comunque di uno Stato nel quale il lavoro domina sul capitale e l’economia serve il popolo e non viceversa, devono andare oltre una versione dell’economia politica il cui interesse è mantenere e riprodurre il sistema economico che è fonte di disuguaglianza, guerra, sfruttamento e alienazione che oggi ci circondano.
 
Non a caso l’establishment abbraccia versioni o parti dei progetti keynesiani incentrati sugli investimenti quando il capitalismo è in ginocchio – dopo la depressione del 1929 e la seconda guerra mondiale -, perché in questi periodi di crisi lo stimolo keynesiano al sistema offre qualcosa alle grandi imprese.
 
Ma anche questi strumenti politici a disposizione del capitalismo stanno avendo oggi un effetto limitato laddove sono sperimentati. Nonostante tutte le centinaia di milioni di “quantitative easing” [alleggerimento quantitativo, aumento della massa monetaria o allentamento delle condizioni di credito nella speranza di stimolare l’economia, ndt] negli Stati Uniti, con un’incredibile ascesa del proprio deficit di bilancio, non sono stati creati posti di lavoro. I monopoli hanno utilizzato i fondi per pagare i debiti, conservandone anche un po’ per il loro prossimo disastro, ma non sono stati creati posti di lavoro.
 
In Europa, la BCE e la Commissione europea sono troppo spaventate anche solo per contemplare un serio programma d’investimenti guidato dallo Stato, per paura di come, chi concede i prestiti e i grandi investitori, potrebbero percepire un incremento del debito pubblico.
 
Invece preferiscono consegnare milioni direttamente ai prestatori di denaro e sperare che la loro buona volontà sia ripagata con un po’ d’investimenti privati, o nella migliore delle ipotesi intendono utilizzare i nostri soldi – pensioni e tasse – per stimolare la crescita consegnandoli alle grandi aziende in una qualche forma di partenariato pubblico-privato.
 
Ma se si vuole che lo Stato investa dove serve al popolo e non solo come mezzo per assicurare l’accumulazione capitalistica, gli ambiti di investimento sono la salute, l’istruzione, i progetti infrastrutturali – come la banda larga -, la cura dei bambini, le fonti energetiche rinnovabili e la tecnologia. Per fare questo però dovrebbe portare via al capitale privato il controllo del sistema, trasformare strategicamente il sistema e costruire il socialismo. Ciò non è keynesiano, ma rivoluzionario.
 
Le politiche statali abbracciate dalla sinistra non devono essere rivolte a stimolare l’economia capitalista o incoraggiare la crescita del settore privato. Esse devono dirigersi verso la costruzione di un settore pubblico pianificato di servizi collettivi, verso la riduzione e l’isolamento del settore privato a vantaggio dello Stato.
 
La sinistra deve muoversi politicamente ed economicamente oltre Keynes e deve avere il coraggio politico di abbracciare un sistema economico che ponga il vantaggio di tutti i lavoratori come suo obiettivo primario, e non sia invece, come accade nel migliore dei casi, una conseguenza indiretta per alcuni lavoratori.

05/09/2012
(da www.communistpartyofireland.ie/sv/06-keynes.html
Traduzione dall’inglese per www.resistenze.org a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare)
La “sinistra” ha bisogno di andare oltre Keynesultima modifica: 2012-10-17T08:16:00+02:00da iskra2010
Reposta per primo quest’articolo