Dalla Farmoplant all’ILVA(4) subalterno “separatismo” ambientalista dai rapporti sociali e divisione del lavoro capitalistica

 

IMG_3086+logoMOWA.jpg foto MOWA

 da Angelo Ruggeri

 Movimemti, potere popolare e istituzioni ”(Da “Democrazia e diritto”  e Dossier del centro IL lavoratore)

L’ambientalismo come conservatorismo antipopolare e regressione sociale o potenzialità critica delle forme del potere dominante

 di Salvatore D’Albergo

 

La tendenza che si fa sempre più generica a parlare di svolta epocale nei rapporti tra società e stato, facendo leva sui nuovi incalzanti problemi della soggettività individuale e collettiva nell’ambiente, rischia di alimentare confusione e nuove incertezze sul ruolo delle forze sociali e politiche nello stato demo­cratico, se il tentativo di dare sbocco a questioni sociali di vasta portata prescinde da approcci di carattere generale destinati a chiamare in causa le teorie del potere.

Nella fase che stiamo attraversando, due diversi — e non del tutto incompatibili — criteri di attacco alla democrazia sono venuti accreditandosi nel dibattito politico e culturale, mano a mano che le forze di matrice marxista hanno arretrato sino al punto di “ abiurare ”, rimanendo in balia del vero av­versario diretto, cioè del capitalismo: il criterio della cosiddetta oggettività sistematica ”, che punta in forme nuove a rilanciare il tradizionale conservatorismo funzionalistico; e il criterio della “ soggettività ”, che rivendica una valorizzazione dell’esistente fuori da ogni visione organica dei valori della so­cietà e delle istituzioni.

 

Il soggettivismo dell’ambientalismo come legittimatore del dominio capitalistico

 

Ciascuno di tali criteri opera, in luoghi e con strumenti diversi, con il medesimo referente costituito dalla critica alla democrazia, che secondo la teoria sistemica carica in modo ingovernabile la complessità sociale, e che secondo talune concezioni ambientalistiche esclude valori i quali, allora, dovrebbero acquisire valenze “ automatiche ”, senza una critica generale del sistema. I rischi, pertanto, sono che da entrambe le posizioni, apparentemente polarizzate, si pervenga alla legittimazione – in nome di una critica della democrazia – degli assetti sociali e quindi del dominio capitalistico, ciò mentre per certe forze ambientaliste è perfettamente coerente con finalità di conservazione sia dell’ambiente che degli assetti sociali, al contrario dovrebbe apparire inaccettabile a quegli ecologi che si professano portatori di esigenze nuove proprio di democrazia.

Occorre allora verificare la portata che può avere in una prospettiva realmente democratica, lo spostamento dell’ottica del potere da quella della democrazia “delegata” a quella della democrazia “diretta”, come le vicende in corso specialmente nel nostro paese attestano, poiché, sia per la novità di tale prospettiva sia per gli equivoci che occulta la cultura ambientalista come cultura cosiddetta “monotematica”, non è sufficiente parlare di “democrazia mista” come combinazione meccanicistica e acritica di forme tradizionali e di forme nuove di democrazia: la quale — come accennato — può essere destabilizzata proprio se, ad una cultura esplicitamente reazionaria, si giustappone con più o meno consapevolezza una cultura che fa della democrazia diretta una sorta di variabile indipendente del sistema socio-politico.

Va però subito soggiunto che la chiarezza nell’impostazione della questione dei rapporti tra democrazia diretta e democrazia delegata, può aversi se si valutano i profili teorici alla stregua anche della storia dei processi su cui si innestano le forme del potere, poiché c’è il rischio che la tematica “ referendaria ” — che è un tipico strumento “ politico ” di democrazia diretta —, finisca per offuscare gli aspetti più genuinamente “ sociali ” della democrazia diretta, il cui fondamento teorico ha ascendenti precisi nella lotta di classe del movimento operaio incentrata sui rapporti di produzione. Si assume una prospettiva deviante ai fini dell’istanza decisiva che è quella della “ socializzazione ” del potere, se da un lato si identifica la democrazia diretta con il solo referendum, e se dall’altro — e in coerenza con tale riduttivo assunto — si isola lo stesso referendum dal contesto sociale che ne è la base determinante. Se si vuole fare del refe­rendum uno strumento di “ nuovo ” potere, va evitato che sia una semplice “ aggiuntività ” contestativa, destinata a dare solo apparenza e non effettività alla concezione della democrazia diretta come variabile indipendente, ove cioè il referendum risulti “riassorbibile” dal sistema, in quanto capace comunque di autoregolarsi nelle forme della democrazia delegata, intesa dal movimento ecologista come istituzione “ negata ”, ma proprio per ciò poi autosufficiente, e per certi versi persino “rile­gittimata” dal referendum.

 

Il non alternativo realismo ecologista e il referendum come apparente “democrazia diretta”

 

Discende da tutto ciò la necessità di fare i conti in modo più adeguato con una concezione generale del potere e dei rapporti tra la società e lo stato, stanti i pericoli ormai sempre più palesi che derivano da visioni cosiddette “ realistiche ” di ecologismo, che tenderebbe a perdere i contorni di un movimento alternativo se, pur in nome di un giusto attacco all’in­dustrialismo, su cui si sono erette forme di potere pseudo democratico, si finisse poi per operare incursioni “ emblematiche ” in singole casematte del potere economico, lasciandone però intatto il nucleo fondamentale di forza coercitiva sul sistema politico. Tanto più che — al di là delle falsificazioni concettuali — una teoria “generale” del potere né è necessariamente “ astratta ”, né ha incapacità di cogliere “analiticamente” (contrariamente a quanto tendenziosamente si vuol far credere) quali combinazioni di rapporti sociali danno corpo reale e complesso al potere, sui quale si può intervenire per mutarne composizione e obiettivi, solo se se ne disarticolano gli ingranaggi, non limitandosi a gettarvi dentro qualche granello di sabbia, capace sì di farli inceppare, ma non già di modificarli o sostituirli.

Quel che va sottolineato, quindi, è che la cultura ambientalistica, per sviluppare la sua strategia di lotta coerentemente con gli obiettivi dichiarati di valorizzare la vita sociale contro le distruzioni di risorse provocate dall’industrializzazione, deve sottoporre ad analisi critica anzitutto l’idea che la società sia una realtà indistinta e indifferenziabile, per cui tutti i soggetti varrebbero in relazione all’identità dell’oggetto del loro intervento, e in tal senso tutti andrebbero tenuti presenti solo in quanto “ cittadini ”, indipendentemente dalla loro specifica connessione con la divisione del lavoro, o dei ruoli loro assegnati dalla società.

 

Il “separatismo” ambientalista come nuova forma di subalternità ai rapporti sociali e alla divisione del lavoro esistenti

 

Tale operazione teorica di riduzione dei diversi alla identità unica e indivisibile, salvo che nella distinzione formale del voto referendario, comporta l’accettazione contraddittoria con la realtà di un assunto (semplificatorio solo in apparenza e astrattamente), secondo cui i valori dell’ambiente sono suscettibili di “assolutizzazione” rispetto ad altri valori, come quelli della organizzazione sociale connessi alla produzione sia di beni che di servizi, come se si potesse fare dei valori ambientali un primato esclusivo ed escludente. Tale contraddizione “ oggettiva ”data 1’inestricabilità delle questioni ambientali da ogni altra questione sociale – diviene poi, al di là delle suggestioni ed enfasi referendarie, una contraddizione “soggettiva ”, poiché vive più o meno latente tra gli stessi protagonisti della domanda referendaria che, forzosamente identificati nella prospettiva ecologista, si scoprono diversi ed anche divisi dopo l’affermazione del diritto all’ambiente, se — appunto — questo viene preso come valore assoluto e a sé stante.

È a questo punto che è possibile avviare una chiarificazione che — presentatasi difficile se non impossibile in tesi generale (donde le accuse di “fondamentalismo ”) — sembra ineludibile quando si passi ad un “ che fare? ” che può portare, o ad una accentuazione della diaspora tra ambientalisti e sinistre storiche (nonché tra gli ambientalisti stessi), o ad una analisi teorica più avanzata, capace di sottoporre a critica serrata la cultura tradizionale che ha condotto la sinistra nell’impasse in cui ci troviamo .

L’ecologismo può e deve essere coinvolto in un processo da cui qualcuno ora sembra voler sfuggire ad ogni costo, mentre anche da quel fronte urge un contributo essenziale — come quello proveniente dall’interno della stessa sinistra — alla costruzione di una nuova teoria generale del potere, sulla base dei limiti storici documentati dalle esperienze che hanno trovato come protagoniste — dal governo come dall’opposizione – le forze politiche interpreti della cultura del movimento operaio.

 

Queste valutazioni, stimolate dai modi in cui ultimamente si e cercato di esplicitare il rapporto dei verdi con la democrazia (Langer, Lerner, Manconi, Paissan sul Manifesto del 4 ottobre scorso), mirano a sollecitare una riflessione che tiene conto dei rilievi tempestivamente avanzati da Clementi e Giovannini (comunicazione al convegno su Questione ambientale e forme della rappresentanza, organizzato dal Crs e dalla Lega ambiente, e pubblicato su questo stesso numero di Democrazia e diritto), mettendo anzitutto in luce come le questioni della rappresentanza non possono correttamente porsi, se non in relazione alle questioni delle forme del “ potere ” verde, e comunque in generale di ogni soggetto sociale.

 

Separazione tra politica e società e liberalismo: la concezione ambientalistica delle istituzioni come regressione della democrazia

 

La concezione istituzionale ambientalista rischia, partendo dalle premesse sopra riassunte, non solo di non contribuire allo sviluppo della democrazia, ma addirittura di farla regredire, se — pur di non volersi contaminare con le questioni complesse e articolate del potere — si arriva sino al punto di far arretrare lo stesso tenore del dibattito sulla democrazia. una volta che si contesti il principio di marca tipicamente “ liberale ” circa il fondamento del divieto del mandato imperativo”.

Langer e amici, di fatto, lasciano che la democrazia delegata perpetui la separatezza della politica dalla società, combinando l’enfatizzazione del voto dei cittadini come potere di controllo/ indirizzo, con quello di una “ autorità ” che non è meno corporativa e verticista solo perché costituita di “competenze”, nonché di una “consulta verde ” la cui collocazione istituzionale rimane tutta da chiarire.

Se, partendo dai valori ambientali intesi come valori assoluti “ in se ”, si perviene addirittura a prospettare un segmento di potere tutto “ verde ”, che trasforma la democrazia diretta in una delega totale e in bianco alle competenze e quindi al sistema chiuso dei rapporti di vertice già operante. e solo da integrare con nuove aggiuntive rappresentatività corporative, la cultura ambientale rischia davvero di accentuare la contraddizione istituzionale tra apparati dell’esecutivo e società; quando invece il punto centrale della crisi “ universale ” delle istituzioni è individuabile nella sostanziale conformazione delle organizzazioni di tipo statuale, di qualunque regime sociale, alla tipologia della Società per Azioni, cioè — come è ben noto — al tipo di apparato escogitato per organizzare il potere di pochi nei gruppi già ristretti del potere economico-finanziario.

 

Il corporativismo “verde” privo di concezione del sociale, dello stato e dell’economia non vede che i governi sono come gli esecutivi d’impresa che distruggono l’ambiente

 

Dovrebbe essere evidente — a questo punto — la necessità, per formulare ipotesi ecologiste, di prendere le mosse da una concezione sociale che colleghi strettamente l’ambientalismo ad una teoria dello stato e dell’economia — quindi più in generale e sinteticamente, del potere —, non cadendo nell’abbaglio (favorito certo dalle insufficienze “ politiche ” dei partiti operai al governo e all’opposizione) di confondere i limiti delle esperienze materiali con i limiti delle culture e delle teorie fondate sull’analisi di classe, e quindi, sui rapporti di produzione.

Prendendo, infatti, le mosse da una più attenta — cioè conseguente – valutazione del ruolo del capitalismo e degli effetti di svalorizzazione sociale derivanti dal tipo di meccanismo di sviluppo che esso promuove, si potrebbe anzitutto riscoprire il significato più corretto di democrazia diretta come democrazia “ di base ” che coinvolge “ tutti ”, ovvero la “ generalità ” dei soggetti, in funzione della loro partecipazione alla divisione sociale del lavoro, e non solo in funzione di una astratta “ cittadinanza sociale che tutti accomuna “ spersonalizzandoli ”. Vanno quindi rilanciati strumenti istituzionali di “ democrazia sociale ”, che hanno l’idoneità a perseguire obiettivi che la democrazia “ politica ” può agevolare ma non esaurire come tale. Proprio perché l’esigenza di evidenziare i limiti dell’industrialismo in nome dell’ambiente, richiede una nuova economia politica e un nuovo ruolo della società, non si può pervenire ai traguardi nuovi rafforzando il primato del potere esecutivo, sicché sempre più i governi e la costellazione dei suoi apparati somigliano al consiglio di amministrazione e all’esecutivo della “ grande impresa ” distruttrice dell’ambiente.

 

La vera democrazia diretta è la democrazia di base, versante sociale della sovranità popolare

 

Al contrario, la valorizzazione sociale dell’economia in nome della risorsa ambiente, si può determinare se si rompe il meccanismo istituzionale perverso che impedisce ovunque alla democrazia di essere coerente con il suo compito, dato che è storicamente dimostrato che in nessuna parte del mondo e in nessuna epoca storica — se si prescinde dalla esperienza della Comune di Parigi, non a caso durata l’“espace d’un matin” — il governo della società è stato affidato ai rappresentanti immediati della società, poiché i governanti degli esecutivi sono rappresentanti di secondo grado e sostanzialmente incontrollati, garantendosi il tal modo di estraniare completamente i diretti interessati dal governo reale della società.

 

Come il dibattito sull’energia nucleare ha potuto mettere in evidenza laddove ci si è impegnati coerentemente su queste premesse, le possibilità di invertire le tendenze dominanti sulla base di culture industrialiste di matrice liberista o all’opposto, di deviazione socialdemocratica o stalinista dal marxismo, sono legate alla capacità di connessione coerente di una lettera marxista del rapporto tra società, sistema produttivo e natura, per costruire istituti di democrazia di base e quindi diretta ”, volti a collegare i segmenti della società organizzata secondo la divisione sociale del lavoro, anzitutto tra di loro, e contestualmente, con le istituzioni per il tramite delle assemblee elettive, si da ottenere una svolta storica necessaria non solo per l’uso dell’energia, ma per ogni tipo di utilizzo di beni e servizi da parte della collettività e a favore della collettività (cfr. Nero su Bianco, Riflessioni a colori su energia e società, a cura della Cgil Regione Lombardia, 1987).

 

Il referendum può essere democrazia diretta se punta alla riappropriazione di massa del potere anche nelle sedi della rappresentanza.

 

Una radicalità di sinistra ha oggi bisogno realmente di un forte contributo ecologista, proprio in direzione di un obiettivo rivoluzionario che coinvolga le istituzioni trasferendo il potere alle masse.

 

Passaggio obbligato di un rivolgimento istituzionale profondo, che non vanifichi le forme sociali e politiche di democrazia diretta, è il ribaltamento del rapporto che internamente agli strumenti della democrazia delegata vede, in ogni forma di governo storicamente conosciuta, le assemblee elettive subordinate sia ai governi sia agli apparati, i quali costituiscono ormai il centro effettivo del potere, in una combinazione tra potere economico e potere scientifico-tecnocratico che alimenta poteri occulti, a livello sia nazionale che internazionale.

 

Il pericolo di scivolamento verso nuovi totalitarismi se non si invera la

Costituzione facendo del governo un organo dipendente dal Parlamento

 

 

Come già accennato in altri interventi (cfr. Scatturin e Ruggeri, in “Se” Scienza Esperienza, rispettivamente n. 46 e n. 48, 1987), ha reale portata democratica l’uso della democrazia diretta, se comporta una maturazione culturale di massa verso l’appropriazione di un potere inedito anche dalle sedi della rappresentanza. Come ho già rilevato nel dibattito sul Dopo Cernobyl (in Materiali e atti n.7, supplemento a Democrazia e diritto, n. 3, 1986, e anche su Se), ciò richiede riforme istituzionali di segno opposto rispetto a quelle proposte dalle forze politiche governative per alterare la Costituzione in senso neoautoritario.

 

Inverare la Costituzione significa trasformare il governo in un organo dipendente dal Parlamento: con l’attribuzione a quest’ultimo dell’esclusiva nella proposta ed elaborazione delle leggi ed in un collegamenti di tipo nuovo con il popolo; e del solo compito di direzione dell’amministrazione, con l’importante e decisiva implicazione di sottrarre gli enti pubblici economici e scientifici nazionali, alla franchigia conseguita all’ombra dei governi che ne coprono le collusioni con le concentrazioni capitalistiche.

 

Questo è il terreno su cui nessuna forza culturale e politica organizzata, compresi ogni tipo di movimento — ecologista, femminile, giovanile o della pace —, ha voluto ancora misurarsi, con rischi di ulteriore degrado della democrazia giunta ad una impasse che potrebbe preludere ad uno scivolamento, davvero irragionevole dopo le esperienze reazionarie di metà secolo, versa nuovi totalitarismi, legittimati da culture sorte sulle ceneri di una democrazia di massa divenuta improvvisamente incerta, e ormai allo sbando.  

Dalla Farmoplant all’ILVA(4) subalterno “separatismo” ambientalista dai rapporti sociali e divisione del lavoro capitalisticaultima modifica: 2012-10-19T08:23:00+02:00da iskra2010
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