Da Farmoplant a ILVA(5). Tra “diarchia” istituzionale e capitalismo privato rilanciare piani dal basso. Nota di d’Albergo

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La nota: che in attesa di possibili sviluppi revisionisti, intanto denuncia la qualità negativa del semi-presidenzialismo, rimettendo in campo i temi del controllo dell’economia sollevati a Taranto. 

Dalla Farmoplant all’ILVA il capitalismo “privato” per sua destinazione antisociale distrugge contestualmente società e natura 

TRA UNA “DIARCHIA” ISTITUZIONALE e la DESERTIFICAZIONE INDUSTRIALE

di Salvatore d’Albergo 

Il ventennale attacco alla democrazia socialeè giunto al punto di restituire il potere al “kombinat” semi-presidenzialismo/capitale privato/managerialismo, dietro la falsa immagine di un europeismo senza sbocco, anticipato e sostituito da nuove forme di “conglomerati” (corporate governance di imprese industriali e finanziarie, n.d.r.) che ripetono su scala internazionale le gerarchie che atavicamente hanno segnato le vicende “interne” alle grandi società per azioni: con governi di stati che – tramite l’euro – surclassano gli stati “minoritari” (stati/carogna), nell’accentuata dispersione di masse di lavoratori e cittadini e di identità cancellate dalle “asimmetrie” dei mercati. 

Dalle proteste all’insegna di un anonimo “NO”, occorre tornare a rivendicazioni che comportano il rilancio di contestazioni propositive di progetti dal basso ridestando la cultura del controllo sociale e politicodell’occupazione e della salute.

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L’intero complesso sociale, economico, politico e istituzionale di quella che si è convenuto enfatizzare come “globalizzazione”, è entrato in una condizione di subbuglio nei vari segmenti in cui si sta “disarticolando” la rete dei potentati che, negli ultimi vent’anni, hanno creduto – e fatto credere dai megafoni della “comunicazione” – di aver raggiunto un dominio incontrastabile da quella stragrande maggioranza di ceti subalterni, rassegnati alla imbelle “sensazione” che “indignazione” e protesta potessero sostituire forme vecchie e nuove di lotta di classe.

L’osservatorio italiano consente di avvertire come – entro un quadro di interrelazioni fattosi insieme più ampio e più stringente – i venditori di fumo del pensiero “unico e debole”, nel tentativo di nascondere nei nefasti della c.d. “post-modernità” gli aspetti più crudi di una antisocialità risalente agli albori della “modernità”, siano precipitati nelle convulsioni della “crisi di egemonia” di un capitalismo, le cui propaggini “finanziarie” – oltre ad entrare in rotta di collisione tra loro – vanno progressivamente e inesorabilmente erodendo la capacità di tenuta, oltre che di crescita, del capitalismo industriale, già per suo conto costretto a fare i conti con la serie di questioni sociali sollevate da sfruttamento e alienazione a carico della società e della natura.

La presuntuosa e fuorviante pretesa che la “tecnica” possa camuffare il volto della “politica” sottraendola alle responsabilità imposte dalla democrazia, ha da noi indotto il presidente della repubblica a un’azzardata operazione di effimero contenimento della crisi del “bipolarismo” – tra Pdl e Pd non a caso rivelatosi strumento artificioso di copertura del governo Monti, mediante un appoggio parlamentare trasformistico quasi “totalitario”, e tale da far impallidire quel “simulacro” di solidarietà nazionale con cui si tentò invano di disancorare la Dc da quel tipo di “degenerazione” affacciatasi tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli anni ’80, ed ora dilagante in ogni poro della società, prima ancora che nelle strutture di potere di ogni livello istituzionale: sulla scia dei reiterati tentativi di alterare lo stesso quadro costituzionale banco di prova dell’identità democratica delle forze su cui si regge la struttura della società, della sua economia e degli strumenti della decisione.

A un trentennio dalla istituzione del Parlamento europeo – che è rimasta solo “arena” di gruppi parlamentari “nazionali” subalterni all’iperburocratizzazione della cupola “intergovernativa” – e dalla messa in opera del primo dei tre tentativi di affidare a “Commissioni bicamerali” il compito di stravolgere natura e funzione della Costituzione più democratica dell’Occidente perché destinata a trasformare la società e lo stato, ci troviamo nella esecrabile situazione segnata, da un lato dal dissesto dell’economia pubblica e dalla dissolvenza della politica industriale, e dall’altro lato dalla sovrapposizione alle “forme di governo” sia centrale che decentrate di un sistema di relazioni politiche che – sotto il pretesto di “adeguare” lo stato alla osannata globalizzazione – sta rendendo l’ordinamento della Repubblica succubo di interessi che i governi “euro ottimisti” sono venuti cementando, con l’obiettivo di potenziare la “libera concorrenza”, ma con il risultato di scatenare l’ingordigia incontrollata dei “mercati finanziari”.

Ed è così che fuori da ogni controllo dell’opinione pubblica, e al coperto di culture che quando non sono conniventi attestano letture devianti del tradizionale contrasto tra “pubblico” e “privato”, ci troviamo anche in Italia (al pari di stati la cui costituzione è più conformista agli interessi del capitalismo) in una situazione divenuta perversa: perché sfociata nella contestuale interdipendenza tra le vicende della sovranazionalità europea, e della delegittimazione progressiva della costituzione “democratico-sociale” del 1948, colpita dal “vulnus” del Trattato europeo del 2 marzo, quale premessa non autorizzata dell’introduzione del “pareggio del bilancio”, contro il dettato dell’art. 81 sancito nella legge di revisione costituzionale del successivo aprile dell’anno in corso (già denunciato nello specifico su queste pagine).

Tutto ciò si deve al disvelamento, con la “fuoruscita organizzata” di Berlusconi dalla scena politica, del carattere viepiù ambiguo di quel Pd che dopo essersi confuso nel coro dei detrattori ieratico-folkloristici del “capo” della destra plebiscitaria, ha finito per coprirne l’oggettiva convergenza con gli interessi “di classe” che il “bipolarismo” comunque già implicava: per rivelarsi in tutte le sue nefaste conseguenze con l’entusiastico appoggio all’operazione (condotta in sintonia con le pretese tedesche), per il “cambio di cavallo” Monti, simbolo delle più varie manipolazioni, dalla nomina a senatore al voto di fiducia della “strana” maggioranza del 90% dei parlamentari protagonisti come non mai di un tipo di “convergenza parallela” che richiama con tutt’altro significato il precedente della manovra di Moro negli anni ’60/’70.

Ma senza scivolare in fuorvianti schematismi, occorre che l’opposizione sociale e politica emarginata dalle recenti involuzioni di tutta la politica italiana, ponga l’accento sulla drammaticità della più grave crisi sistemica che l’improvvisa virata sul governo di “tecnici” ha posto in incubazione nell’intento di mettere a frutto l’opera di sedimentazione che in un intero trentennio è stata elaborata per capovolgere – dopo averlo arrestato – il processo di democratizzazione, dando anche al sistema politico italiano uno dei connotati con cui l'”ingegneria costituzionale” ha prefigurato i “modelli” organizzativi di una politica prona al dominio del mercato sia finanziario che industriale.

Si spiega così come mai, il 25 luglio scorso – mentre il governo Monti si dibatte ormai, a sua volta, nelle spire di una crisi che sta rivelando i limiti a cui non sfugge la stessa conclamata globalizzazione – abbia potuto ricevere al Senato il suo primo timbro (che dovrebbe essere seguito da altre tre votazioni, per la definitiva approvazione), la proposta di revisione costituzionale della forma di governo secondo il modello c.d. “semipresidenziale”: inseguendosi, con un’ostinazione che da destra preme già dagli anni ’60, l’obiettivo di rinchiudere la società entro i contrafforti di un sistema di apparati volti a controllare le forze di un pluralismo sociale e territoriale che negli ultimi vent’anni di “bipolarismo” si è disgregato.

Il Pd, che pur perseguendo l’attuazione del modello del c.d. “premierato”, già nella Commissione bicamerale D’Alema aveva dovuto subire l’affronto dell’improvvisa sopraffazione da parte di Pdl-Lega favorevoli da tempo al c.d. “semi-presidenzialismo”, si è ora trovato nell’imbarazzo di subire un “ritorno” della soluzione comunque accolta a suo tempo. Scegliendo anziché una discussione palese contro il “semi-presidenzialismo”, la fuga “aventiniana” dal dibattito salvo il voto finale contrario “di stile”. Dal che consegue che hanno ormai poco per volta attecchito soluzioni univocamente rivolte a confinare il parlamento in un ruolo subalterno all’esecutivo: o in termini analoghi al sistema britannico (ma con l’elezione popolare del “premier”); o in termini analoghi al sistema francese (di origine “gollista”) che è stato escogitato per erigere il potere esecutivo su due “stampelle” con la “diarchia” tra il presidente della repubblica eletto dal popolo, e il premier interposto tra il capo dello stato e il parlamento, come rimedio al frazionismo inefficace di forze politiche che ora possono così puntare sull’appannaggio di entrambi i massimi vertici istituzionali per soddisfare le contrapposte brame di potere.

Ciò che assume particolari connotati nelle forme della c.d. “coabitazione”, dovuta agli esiti imprevedibili delle elezioni parlamentari con il metodo “uninominale” a due turni, che in contrasto con la nettezza del “bipolarismo” nel suo operare come freno al predominio dal capo dello stato sul premier peraltro soddisfa però in termini estranei ad ogni forma di “governo parlamentare” le pari ambizioni di potere delle forze che puntano sia a impadronirsi di tutti i gangli del potere esecutivo, sia – almeno – a quello di premier (più o meno “re travicello”).

Se poi oltre alla revisione costituzionale della forma di governo si tien conto delle vicende di una magistratura –divenuta in Italia punta avanzata della riforma dello stato – che si trova circondata di interdizioni dal potere di vertice scatenato alla conquista anche di indebite “immunità”, si può capire con quanta preoccupazione la sinistra d’opposizione debba meditare sugli “scricchiolii” di un sistema che punta sempre più decisamente a opprimere la società, dequalificando i Principi fondamentali della Costituzione sia in via diretta con decisioni che umiliano le classi disagiate con l’alibi delle cogenze “monetarie”, sia in via indiretta cancellando ogni autonomia necessaria a invertire i processi di destabilizzazione della democrazia sia sociale che politica, dal cui intreccio dipende l’altalena della lotta di classe.

E per rompere gli indugi che su troppi fronti caratterizzano lo strapotere del sistema delle imprese finanziarie e industriali di livello internazionale e nazionale, occorre captare i segnali di quella resistenza di massa testimoniata dalla acuta percezione che – lavoratori e cittadini – stanno palesando a Taranto, rivelatasi, al punto di degrado in cui sono cadute le recenti lotte di “metalmeccanici” e “cantieristi”, come il centro gravitazionale del contrasto sempre più intollerabile tra il potere di un colosso dell’acciaio come l’Ilvaabbandonato a causa delle “privatizzazioni” delle partecipazioni statali risalenti agli anni ’80 (1988) nelle mani di spregiudicati manager, succhiatori di danaro pubblico nell’immunità di controlli politici e sociali indispensabili perché l’intervento in settori strategici dell’economia industriale sia conforme agli interessi sociali di chi lavora nella fabbrica, e di chi della fabbrica subisce i danni delle croniche contaminazioni ambientali.

Siamo di fronte al “ritorno” a un tipo di vertenza che evoca questioni e lotte degli anni ’70, mettendo a netto confronto la gestione “privata” di una industria “nazionale” che ha un ruolo pari a quello di altre industrie “strategiche”, anch’esse nazionali, con una gestione “pubblica” che – nelle condizioni in cui l’Ilva si trova grazie alle contestazioni sollevate dalla magistratura sui guasti intollerabili in atto – si presenta ancora una volta e più fondatamente di trent’anni fa’ come il presupposto di interventi pubblici “organici” , cioè secondo un “piano”: il che comporta una politica opposta a quella di stampo “liberista”, dovendosi coniugare in stretta interrelazione tutti gli aspetti di una “socialità” antagonista della rapinosità dell’economicità.

In una situazione caratterizzata dalla scesa in campo di un “comitato di cittadini liberi e pensanti” (con venature anche interclassiste, oltre che classiste), sembra potersi intravedere il ritorno da proteste all’insegna di un anonimo “NO”, a rivendicazioni che comportano il rilancio di contestazioni propositive di progetti dal basso. Nella consapevolezza sofferta in carne ed ossa da operai e cittadini, che il capitalismo “privato” per sua destinazione antisociale distrugge contestualmente società e natura, chiamando in causa – in stretta alleanza – “poteri” democratici e “coscienza” democratica e di classe, avvantaggiandosi della cultura maturata nella magistratura per ridestare la cultura del controllo sociale e politico dell’occupazione e della salute, coinvolgendo l’ambientalismo in una visione “dinamica” e non “statica” della vita sociale e dell’uso della natura.

Solo se la fiamma accesa a Taranto alimenterà una visione “integrale” del nesso tra stato delle autonomie e politica industriale, si renderebbe possibile uscire dalla subalternità di una cultura aziendalista che si limita ad obiettivi di mera “sopravvivenza”, per iniziare a respingere il ventennale attacco alla democrazia sociale che è giunto al punto di restituire il potere al “kombinat” semi-presidenzialismo/capitale privato/managerialismo. In un processo “integrazionista” imperniato sulla “rete” di potentati nazionali che sempre più tendono a cautelarsi dietro la falsa immagine di un europeismo senza sbocco, anticipato e sostituito da nuove forme di “conglomerati”, che ripetono su scala internazionale le gerarchie che atavicamente hanno segnato le vicende “interne” alle grandi società per azioni: promuovendo a “soci di maggioranza” i governi degli stati che – tramite l’euro – surclassano gli stati “minoritari” (stati/carogna), nell’accentuata dispersione di masse di lavoratori e di cittadini sempre meno legati a identità nazionali, cancellate dalle “asimmetrie” dei mercati.

Da Farmoplant a ILVA(5). Tra “diarchia” istituzionale e capitalismo privato rilanciare piani dal basso. Nota di d’Albergoultima modifica: 2012-10-20T08:20:00+02:00da iskra2010
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