Dens dŏlens 183 – Le ombre di Ingrao

Foto: Pietro Ingrao alla manifestazione di Roma del 20 ottobre 2007 – M©WA

di MOWA

Parlare di una persona che ha vissuto molto a lungo e occupato posti delicati in un partito importante come il PCI diventa difficilissimo e si rischia di essere, per ovvia brevità, fraintesi o considerati approssimativi.

In questi giorni abbiamo letto castronerie di ogni sorta su Ingrao, infatti, i vari improvvisati biografi, invece di fare un’attenta analisi sul trascorso politico di costui, si sono prodigati in tante storytelling che ci hanno lasciato, più che sorpresi, basiti.

L’ultima, in ordine di tempo, è stata quella di Giorgio Cremaschi che, nella sua narrazione, dopo diverse inesattezze storiche, lo ha dipinto, “caricaturalmente” (?) così:

“…lo ricordiamo novantenne farsi accompagnare in motorino alla fine del lungo percorso di un corteo contro la guerra e poi salutare a pugno chiuso.

Frase, tra l’altro, già citata da Vendola qualche tempo prima.

Ingrao è stato descritto, dai più, come non dogmatico mentre era, con il suo “principio speranza” del libro “volere la luna”, di taglio camaldoliano e, più precisamente, un “inconsapevole” cattolico, di quelli che propendono verso il genere sociale attraverso la spiritualizzazione dei concetti.

Tanto era cattolico nella sua monacale impostazione della/nella vita che lo si poteva accomunare ai tanti militanti della sinistra (attenzione: non comunista!) alla Russo Spena con cui aveva (benché, apparentemente, lontani), probabilmente, comunanza d’interessi ideologici.

Uno dei tanti interessi in comune fu la distruzione del Partito Comunista, a partire dalle fondamenta della coesione sociale e della struttura partitica; distruzione che ha visto in Ingrao un autentico protagonista, un primo attore di furiose battaglie all’interno del Comitato Centrale e dei congressi di quel partito.

Si ricordi l’interessata pubblicità fatta ad Ingrao da l’Espresso, uno dei giornali della borghesia “illuminata” (e azionista) che il 7 novembre 1965, lo elogiava come catalizzatore d’attenzione, rispetto agli “interventi  monotoni” […] “privi d’interesse […] della mattina di giovedì…” afferenti al Comitato Centrale preparatorio dell’XI congresso.

La rivista avvertiva i suoi interessati lettori su quali fossero i punti nevralgici della fase politica e quale la forza del Partito Comunista che Ingrao spingeva perché fosse mutata. La rivista rimarcava anche:

Partendo dalla constatazione che il centro-sinistra non solo non dimostra segni di crisi, ma appare in grado di sopravvivere a lungo e perfino di conquistare larghi strati della classe operaia, Ingrao aveva chiesto in pratica ai suoi compagni di partito di riconoscere che la vecchia tattica del Pci, fatta di rivendicazioni indiscriminate e d’opposizione generica, era uno strumento di lotta inefficace e che quindi era necessario formulare un nuovo piano strategico. Se si voleva raggiungere questo risultato, il primo passo da fare immediatamente, era di abbandonare la concezione monopolitica del Pci: solo attraverso un dibattito ampio in cui ognuno dei militanti s’assumesse la responsabilità delle proprie idee, si poteva infatti sperare di portare avanti una reale revisione ideologica.”

Ma come!

Ingrao, invece, di essere contento che il proprio partito crescesse con la tattica politica del fronte unito del centro-sinistra che ne ampliava, anche, il consenso, frutto di lavoro culturale e di un’organizzazione all’altezza della fase, chiedeva di “abbandonare la concezione monopolitica del Pci” e di attuare una “reale revisione ideologica”, dimostrandosi indisciplinato ma, soprattutto, irrispettoso delle scelte condivise datesi dal PCI e che avevano trovato breccia nella cultura capitalista. In quell’occasione decise, inoltre, di infrangere lo schema della democrazia interna (centralismo democratico) e di formulare un documento opposto a quello a cui aveva, precedentemente, aderito in direzione centrale che rifiutava le correnti, portando, persino, il compagno Sereni a definirlo “sleale” e, Arturo Colombi ad accusarlo “di attività antipartito”.

In quell’occasione, sia l’altro amico Giorgio Napolitano, ex GUF (Gruppo Universitario Fascista), che Giorgio Amendola (entrambi miglioristi), che desideravano (anch’essi) lo smantellamento del PCI per modificarlo (come, ahimè, è avvenuto) in versione anglosassone, l’abbandonarono, temporaneamente, al proprio destino perché considerarono la proposta prematura rispetto alla fase del momento.

Importante contributo alla comprensione dell’involuzione del PCI è il libro di Paola Baiocchi e Andrea Montella, “Ipotesi di complotto? Riflessioni sulla morte dei tre segretari del PCI e la situazione attuale” (Carmignani Editrice), dove si descrivono con minuzia le diverse anime che si sono prodotte all’interno di quell’organismo:

All’interno del PCI nel 1973 si erano configurate due soggettività che incarnavano la logica di Yalta: da una parte Cossutta, espressione del revisionismo russo, dall’altra Napolitano, rappresentante dell’ala filoatlantica.

Che tra le due ali ci fossero obiettivi convergenti si evidenzia dopo la morte di Berlinguer, quando il filorusso Cossutta candida come successore alla segretaria il più filoanglosassone del PCI, Giorgio Napolitano (Espresso, 11/12/1997).

Ma le anime del PCI erano di fatto quattro, tenute sotto osservazione dai servizi segreti statunitensi, che avevano evidentemente degli elementi infiltrati nella segreteria. Non a caso Duane Clarridge, l’uomo dell’Operazione soluzione finale, si vantava nel periodo dell’installazione degli euromissili a Comiso, di poter essere informato su tutte le nuove iniziative di Berlinguer nel giro di un’ora, come riportato a pag. 376 nel libro Doppio livello, come si organizza la destabilizzazione in Italia, di Stefania Limiti (Chiarelettere, 2013).

Sono illuminanti le posizioni di Napolitano, Ingrao e Cossutta evidenziate nei report desecretati dei servizi segreti Usa contenuti nel libro di Eric Frattini “Italia sorvegliata speciale. I servizi segreti americani e l’Italia (1943-2013) una relazione difficile raccontata attraverso centocinquanta documenti inediti” (Ponte alle Grazie, 2013), dove finalmente si scopre chi tra i membri della segreteria del Pci vuole mettere in discussione il significato storico della Rivoluzione d’Ottobre, in occasione dei fatti della Polonia nel 1981 (vedi pag. 408):

«Agli analisti dell’intelligence americana era ormai ben chiara, come si evince dal dossier, l’esistenza di una lotta interna tra le quattro principali correnti del Partito Comunista Italiano, guidate, rispettivamente da Ingrao, Napolitano, Berlinguer e Cossutta.

Il PCI, come altri partiti e governi in Occidente, era impreparato all’imposizione della legge marziale in Polonia. In mancanza di un caso di evidente interferenza sovietica come punto di partenza, la dirigenza del partito si è trovata divisa su come reagire. Ai piani alti dello schieramento c’erano quattro diverse visioni sul significato degli eventi e sulla risposta più adeguata:

– Pietro Ingrao, che rappresenta la sinistra conservatrice, sosteneva che era giunto il momento di mettere in discussione pubblicamente il significato storico della Rivoluzione d’Ottobre e di modificare radicalmente i rapporti con l’URSS.

– L’ala revisionista, associata a Giorgio Napolitano, concordava con Ingrao sulla necessità di rompere con il PCUS, ma insisteva perché il partito intraprendesse un cammino verso la socialdemocrazia.

– Berlinguer, che si trovava al centro delle diverse posizioni, insisteva sull’opportunità di un approccio più moderato. Era sinceramente d’accordo con la critica al modello sovietico, ma sosteneva che l’esperienza sovietica non giustificava una totale condanna della dottrina marxista-leninista.

– In netto contrasto con gli altri, Armando Cossutta si faceva portavoce del sentimento di quel venticinque per cento o più di ortodossi fedeli al partito che si sentivano a disagio per le critiche a Mosca, e sosteneva che il PCI avrebbe dovuto appoggiare il governo polacco oppure rimanere in silenzio».

Dal documento emerge che era Ingrao, spalleggiato da Napolitano, che voleva «mettere in discussione pubblicamente il significato storico della Rivoluzione d’Ottobre e di modificare radicalmente i rapporti con l’URSS» e non Berlinguer. Il segretario istituzionalmente deve tener conto delle posizioni che emergono negli organismi dirigenti e farne sintesi.

Ci sono voluti tutti questi anni e l’apertura degli archivi del nemico imperialista per capire chi sosteneva certe posizioni. I presenti, Cossutta in particolare, perché non hanno sostenuto la posizione del segretario?

Cossutta ha preferito sostenere il governo golpista piuttosto che ragionare sulla perdita di egemonia all’interno della classe operaia polacca. Ma così facendo si è scaricata sul segretario, messo in minoranza, la responsabilità di quella posizione che è stata elaborata dall’estremista Ingrao e sostenuta dal riformista Napolitano. Tutti uniti a manovrare contro il comunista Enrico Berlinguer. Esattamente come a livello internazionale facevano statunitensi e russi, e in Italia gli estremisti delle varie formazioni.

A prova delle differenze sostanziali che c’erano tra Berlinguer e i principali esponenti della segreteria, ecco cosa disse Napolitano, per marcare la distanza ideologica con il segretario del PCI, su che posizioni era Berlinguer e che società voleva costruire, nell’intervista concessa al giornalista polacco filoamericano Adam Michnik, direttore della Gazeta Wyborcza, pubblicata da la Repubblica il 9 giugno 2012:

«Di carattere era molto discreto, riservato e severo, tratti comuni e tipici del temperamento sardo. Era una persona molto seria che faceva politica in maniera rigorosa. Era arrivato fin sull’orlo della rottura con il Pcus, ma lì si fermò. Penso che temesse che il PCI, un grande partito di massa e popolare, se avesse in qualche modo rinnegato la propria origine, si sarebbe diviso e disgregato. A mio avviso, il grande equivoco fu quello del carattere rivoluzionario del partito. Secondo questa visione mitica, il partito non poteva rinunciare all’idea di un’altra società, di un altro sistema. Berlinguer, che pure era profondamente legato a tutte le conquiste democratiche e che dimostrò di difenderle tenacemente quando esse, in Italia, erano in pericolo, riteneva che il PCI dovesse essere portatore di una idea (o di una utopia) di un diverso sistema economico e sociale, di un socialismo radicalmente alternativo al capitalismo».

Ingrao, dicevamo, si è sempre distinto per aver saputo individuare, all’interno del Partito Comunista, quei soggetti vicini alla sua idea di smantellamento. Infatti, si rivolse diverse volte (anche a Pci ormai dissolto), ad altri camaldoliani , esponenti di rilievo del “pensiero debole” come Rossana Rossanda, Mario Tronti, Massimo Cacciari, Gianni Vattimo, ecc. pur di evitare che ritornasse un’esperienza partitica analoga a quella dell’ex PCI.

Mentre la prima fu l’ideatrice della “Casa della cultura” di Milano e sede storica del migliorismo milanese che diede impulso politico a Sergio Scalpelli (diventato assessore del sindaco di Forza Italia, Gabriele Albertini), ai

gemelli Gianfranco e Giampiero Borghini, Luigi Corbani, Gianni Cervetti e Massimo Ferlini, che sarà presidente della Compagnia delle Opere dal 2000 al 2012.

L’operazione della Casa di via Borgogna è stata a tutto campo e, oltre ai miglioristi, ha sfornato anche Primo Moroni, il teorico dei centri sociali e di quella cultura anarco-nichilista estrema, anticomunista e antipartito che è servita a ghettizzare le  generazioni del post Sessantotto…

Inoltre:

“…Enrico Berlinguer stimolò i compagni a indagare a tutto campo su quel fenomeno, tanto che oggi grazie a quelle indagini proletarie possiamo dire che la direzione politica del terrorismo non aveva origine interna ai comunisti, non sembrava di sfogliare il famoso “album di famiglia” evocato in modo banditesco da Rossana Rossanda su il Manifesto, ma era di chiara matrice borghese come una setta carbonara di mazziniana memoria…”

E, ancora:

Nel libro di Flamigni vengono raccolte varie testimonianze di ex compagni di scuola di Moretti all’Itis Montani di Fermo, che descrivono unanimemente il futuro capo delle Br come attiguo alla destra neofascista e clericale.

Moretti non ha origini proletarie, contrariamente a quanto scrive la Rossanda con Carla Mosca nel libro intervista Brigate rosse, una storia italiana (Anabasi, 1994) è, invece, nato in una agiata famiglia borghese di commercianti di bestiame. Mantenuto agli studi dai marchesi Casati Stampa di Soncino – proprietari della Villa di Arcore, noti rappresentanti della destra politica che avevano come avvocato Cesare Previti – ha abitato a Milano nel Palazzo Soncino di proprietà dei marchesi, che lo raccomandano anche per l’assunzione alla Sit-Siemens, dove diventa sindacalista della Cisl. Si iscrive all’Università cattolica presentando un attestato di “sane idee religiose e politiche” firmato dalla curia di Porto San Giorgio; il più brillante esame che sostiene è in “Esposizione della dottrina e della morale cattolica” con don Luigi Giussani, ideologo e fondatore del movimento integralista Comunione e liberazione. Sono innumerevoli le coincidenze tra le sue abitazioni e le sedi dei Comitati anticomunisti di Edgardo Sogno, Roberto Dotti e Luigi Cavallo: il futuro capo delle Br frequenta via Gallarate 131 a Milano, centrale operativa del provocatore anticomunista Luigi Cavallo.”

[dal citato libro di Baiocchi e Montella]

Gli ultimi tre camaldoliani (più Nicola De Feo), in particolare, furono, addirittura, sostenitori di diverse proposte di assimilazione del pensiero nietzschiano nell’ambito della sinistra nel periodo degli anni ’70, promuovendolo come spietato critico della società borghese e filosofo della “liberazione”, assimilato, addirittura, come “antifascista” e “antiautoritario”. Questo percorso portò molti movimenti extraparlamentari di sinistra ad identificare nel Pci un

baluardo dell’ordine borghese in relazione alla sua funzione di integrazione etica delle masse nel sistema produttivo e al suo culto del lavoro.

[dalla prefazione di Stefano G. Azzarà a “Nietzschiani di sinistra di Jan Rehmann ed. Odradek]

Per dirla alla Eugenio Ripepe

all’insegna della comune adesione all’utopia si consumava l’ennesimo equivoco di una lunga serie tra marxismo e anarchismo

tra

chi crede all’utopia come molla all’azione

e

chi crede all’utopia come anticipazione della realtà”.

Ingrao, durante la sua militanza politica nel Pci, utilizzò, sicuramente, la sua arte oratoria che partiva con un exordium che catturava l’interesse e l’attenzione di coloro che lo dovevano ascoltare, per poi passare ad una sorta di “captatio benevolentiae” sino ad arrivare alla narrazione dei fatti con la narratio per concludere nella sua vera, coltivata, specialità: la retorica che gli assegnò, anche, il terzo posto nel periodo mussoliniano con il Coro per la nascita di una città – Littoria.

Retorica che imperversò tra molti dirigenti politici dell’estrema sinistra (e non solo) per tutto il periodo del Sessantotto.

Siamo di fronte a tutto quello che la cultura borghese poté utilizzare pur di rendere innocuo un partito che era riuscito a preoccupare l’intero Occidente per la sua concretezza e la sua determinazione nel desiderare un sistema socialista-comunista, senza l’uso della violenza, a fronte della conquista di una Costituzione democratica nata dalla Resistenza al nazi-fascismo, ma con la forza delle argomentazioni, come era insito nel filone del pensiero di Gramsci, Togliatti, Longo e Berlinguer.

Oltre a quelle descritte in precedenza da Baiocchi e Montella, vennero messe in campo, le peggiori pedine che l’avversario politico e di classe avesse a disposizione e che agivano, proprio, sulle devianze culturali degli oppressi, come l’operaismo di Tronti che fece pandant, negli anni ’70, con Toni Negri, o il libertarismo alla Bruno Trentin (aderente da giovane al movimento azionista Giustizia e Libertà, proponente nel sindacato CGIL dei “Piani d’impresa” e dei c.d. ”diritti di informazione”,  interpretati diversamente dagli anni ’70, che indebolirono il mondo del lavoro), sino ad arrivare a quella individualistica movimentista tout court.

Tale cultura portava alla trasgressività, all’anticonformismo come valore “autenticamente rivoluzionario” in nome

di una spinta utopistica estrema che faceva perno sull’esaltazione criptostirneriana del primato dell’individuo e della libertà assoluta”.

[dalla prefazione di Stefano G. Azzarà]

Infine, abbiamo l’ennesima nota stonata dei narratori di Ingrao che sostengono che fosse contrario a chiudere l’esperienza del Pci con la svolta della “bolognina” perpetrata da Occhetto.

Questi narratori, probabilmente, sono senza memoria e, forse, dimenticano che Occhetto fu un convinto ingraiano, per sua stessa ammissione e come spiegato molto bene nel libro/intervista di Roberto Vicaretti “La certezza del dubbio: Pietro Ingrao raccontato da chi lo ha conosciuto”, dove si afferma che:

Achille Occhetto e Pietro Ingrao appaiono agli antipodi: il primo è il dirigente politico che incarna la Svolta, l’altro si oppone, diventando il riferimento di una parte del fronte del no. Ma, riavvolgendo il nastro della storia del Pci, si può trovare un giovane Occhetto molto vicino alle posizioni e alle sollecitazioni politiche e culturali di Pietro Ingrao…”

E ci sarebbe molto altro da aggiungere… Perché dovremmo parlare, anche, di un Ingrao, che presiede l’“Osservatorio Istituzionale” (curato dal Centro per la riforma dello Stato) e favorevole, nel 1987 (il muro di Berlino era ancora in piedi, come il PCI e “Tangentopoli” non era ancora all’orizzonte), ad un “governo costituente a termine” per “un riesame del sistema elettorale” che erano le proposte avanzate dalla destra. Dovremmo parlare di un Ingrao che propone (guardate la contemporaneità, nonostante, si parli della fine degli anni ‘80) un’“alternativa di programma e di schieramento” che dia “metodo di alternanza nella direzione del paese” e quindi nel Governo… mentre, nel contempo, il PSI, in preda, oramai, al craxismo, esigeva la preminenza dell’esecutivo contro il principio della sovranità popolare.

Ci troviamo in questo stato di cose per caso o per altri motivi? Rifletteteci su!

Una cosa è certa, si dovrebbe dire con Mao Zedong che

la soggettività deve essere molto reale, non è qualcosa di costruito dall’avanguardia, dal partito. La soggettività nasce dalle contraddizioni di classe e, però, molto spesso è disorganica, contraddittoria, che esprime una spinta o rivoluzionaria o comunque di trasformazione: il compito del partito è di tradurla in progetto, cioè di sistematizzare gli elementi e di riproporla a livello di massa…

Infatti, i compagni del PC cinese avevano una grandissima ammirazione per il segretario del Pci, Enrico Berlinguer e non per Pietro Ingrao.

Dens dŏlens 183 – Le ombre di Ingraoultima modifica: 2015-10-05T01:18:54+02:00da iskra2010
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