Dens dŏlens 319 – La cultura della sopraffazione

di MOWA

In un susseguirsi, quasi quotidiano, di episodi incresciosi come minacce o aggressioni a vittime innocenti o a giornalisti che denunciano fomazioni politiche che si rifanno alla cultura della sopraffazione umana, si fa sempre più arduo, o quasi impossibile, da parte delle Forze dell’Ordine ripristinare il principio della legalità e della convivenza civile, si dovrebbe intervenire con metodo scientifico ripristinando culturalmente i valori della carta costituzionale sino all’impiego di task-force nella Magistratura che declinino il principio della legalità punendo gesti perseguibili dalle leggi Scelba e Mancino.

Il lassismo istituzionale (involontario o desiderato che sia) ha provocato, nei vari tessuti sociali, un humus favorevole all’escalation della violenza reazionaria in una quasi impunità che trova, così, nuovi consensi o adepti anche nei piani alti di quelle stanze. Non sono, infatti, una novità degli ultimi giorni, le sparatorie (persino neonati!), gli accoltellamenti, i pestaggi nei confronti di innocenti considerati “diversi” tanto da suscitare, nei più sensibili, indignazione e ripugnanza di cotanta esagerata violenza e dall’altra palesare mesti sorrisetti di approvazione a siffatta brutalità di queste azioni in una patologica identificazione liberatoria dei propri disagi lavorativi, salute, frustrazioni varie, su quei poveri malcapitati, tanto da arrivare a giustificare tali gesti.

Un brutto preludio per le persone perbene che di socialità vivono e che vorrebbero che la tanto conquistata civiltà continuasse nel tempo ed, anzi, si propagasse e prosperiìasse sotto l’egida della serietà legislativa, invece, di trasformare tutto in una baracconata da far ridere il mondo intero.

Azioni squadristiche, che arrivano sino a casa di giornalisti, nell’intento di far tacere le voci contrarie a quella dominante. Azioni brutali (come accadute al giornalista in seguito alla pubblicazione di un articolo sulla ricostituzione del gruppo di estrema destra Avanguardia nazionale, nella città di Brescia), che non possono passare in secondo piano, né essere derubricate a goliardate ma perseguite con tutta la forza della Costituzione.

Sottovalutare e sottostimare i fenomeni squadristici sin qui accaduti mette in moto un processo riabilitativo di forze che hanno giocato un triste ruolo nella storia di questo (ma non solo) Paese; un ruolo che venne fuori in diverse occasioni nei primi anni del secolo scorso e ripetuto, poi, più volte, dopo la Liberazione dal nazi-fascismo, in “Formazione di volontari attivisti” che risalivano al partito del Movimento Sociale Italiano (MSI) come ben descritto nelle schede del Ministero dell’Interno. [Min. Int. Gab., aa 1953-56, b. 19, f. 1281] Azioni di ardimento (sic!), da parte di questi ultimi, che avevano lo scopo di esibirsi in atti di forza e di violenza nelle piazze di varie città sullo stile del mordi e fuggi, disturbare comizi della sinistra o inserendosi provocatoriamente nei cortei dei lavoratori, oltraggiare i luoghi della memoria della Resistenza, attentare alle sedi del P.C.I. o compiere sporadici atti terroristici. E, qualora sorpresi, pronti a negare l’appartenenza politica-ideologica. I sistemi di ingaggio di quadri combattivi avveniva tramite raduni, campeggi (anche femminili) sotto la copertura di esercitazioni sportive.

Affermazioni, queste, che trovano riscontro nel documentatissimo libro del docente di Storia Contemporanea, Giuseppe Maria Marino: Biografia del sessantotto, ed. Bompiani. Anzi, dicono, anche, a pag. 84-86, cose che, oggi, possiamo trovare identiche nella manifestazioni plateali di molte formazioni della destra:

…Mentre in sede pubblica i fascisti si chiamavano missini e alcune anche nelle conversazioni private, con l’intento implicito di scrollarsi dalle spalle un passato imbarazzante, i giovani ‘ardimentosi’ non avevano pudore nel dirsi apertamente fascisti. A parte il loro rapporto estetico con macabri simboli e orribili cose (i teschi, le svastiche, i ritratti di Hitler, i tatuaggi, le divise, le borchie, le mazze e le catene) non erano dotati di autentica memoria storica e per loro si trattava di una sfida a una realtà detestata, di una provocazione nei confronti di padri rammolliti e di una fuga mistica verso il futuro.[…] I rapporti dei prefetti segnalavano, ma con contenuto allarme, quella rinascita di autentico e deliberato spirito fascista, quelle fragorose esercitazioni squadristiche:

L’attività di detti giovani [a Torino, a fronte di un movimento operaio assai forte e combattivo] andava gradualmente sviluppandosi e giornalmente giungevano alla locale questura notizie fiduciarie che indicavanocome fra essi andasse maturando il progetto della ripresa dell’attività terroristica contro sedi di partito e di organizzazioni ppolitiche. [Rapporto del prefetto di Torino alla Dgps., 16 aprile 1956]

Le iniziative, per quanto fossero estemporanee e scarsamente coordinate (con il fondamentale intento di dare esibizione di ‘coraggio’), facevano parte di un movimento endemico tendente ad autiriprodursi mediante l’attivazione di piccole squadre mobili in grado di spostarsi da una regione all’altra del Paese: ‘squadre composte da una ventina di attivisti, parte di Roma e parte di Anzio, erano partite dalla Capitale per le province dell’Italia settentrrionale con il compito di attivizzare i giovani iscritti al movimento’. L’obiettivo era quello di realizzare attentatiesemplari a monumenti e simboli della memoria partigiana.

[…] A tutto questo – integrato e alimentato da un selvaggio gusto della violenza e da passioni formalmente a-ideologiche e a-politiche – si sarebbe aggiunto il tribalismo domenicale dei cosiddetti ultras delle tifoserie negli stadi per le partite. Le squadre di calcio (molto meglio dei campioni del pugilato), con i loro vessilli, segni distintivi e relativi club di tifosi, si prestavano a funzionare per magmatiche aggregazioni di massa, le une contrappposte alle altre in esperienze idonee a sceneggiare e a surrogare, nell’immaginario delle persone coinvolte, reali battaglie militari che spesso tendevanoa trasferire nel conflitto con nemici inventati l’insicurezza e le ansie, le frustrazioni e le oppressioni della vita quotidiana.”

Quel crescente humus tribale ha dato modo, allora come sta accadendo oggi, allo sviluppo di quell’irrazionalismo di massa che sfociò in pagine sanguinose di vere e autentiche stragi nelle banche e nelle stazioni ferroviarie, in uccisioni di bravi magistrati e investigatori. Tutto ciò si può evitare se la nostra Repubblica, nata dalla Resistenza contro il nazi-fascismo, comincia a dare da segnali positivi di opposizione, anche politica, a questa “nuova” cruenta riemersione di siffatte sigle. Il nostro Paese democratico ne ha bisogno come l’acqua per i pesci, prima che sia veramente troppo tardi.

Dens dŏlens 319 – La cultura della sopraffazioneultima modifica: 2018-08-11T05:37:46+02:00da iskra2010
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