“Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850” di Karl Marx

Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850

Karl Marx (1850)

I

La disfatta del giugno 1848

Dal febbraio al giugno 1848

Dopo la rivoluzione di luglio il banchiere liberale Laffitte, accompagnando il suo compare, il duca di Orléans, in trionfo all’Hôtel de Ville, lasciava cadere queste parole: “D’ora innanzi regneranno i banchieri”. Laffitte aveva svelato il segreto della rivoluzione.

Sotto Luigi Filippo non regnava la borghesia francese, ma una frazione di essa: banchieri, re della Borsa, re delle ferrovie, proprietari di miniere di carbone e di ferro e proprietari di foreste, e una parte della proprietà fondiaria rappattumata con essi; insomma la cosiddetta aristocrazia della finanza. Era essa che sedeva sul trono, che dettava leggi nelle Camere, che dispensava i posti governativi, dal ministero fino allo spaccio di tabacchi.

La borghesia veramente industriale formava una parte dell’opposizione ufficiale; era cioè rappresentata nelle Camere solo come minoranza. La sua opposizione si presentava in modo tanto più deciso, quanto più nettamente si sviluppava il dominio esclusivo dell’aristocrazia finanziaria e quanto più essa stessa, soffocate nel sangue le sommosse del 1832, 1834 e 1839, immaginava fosse assicurato il suo dominio sopra la classe operaia. Grandin, industriale di Rouen, il più fanatico portavoce della reazione borghese tanto nell’Assemblea nazionale costituente come nella legislativa, era nella Camera dei deputati il più violento avversario di Guizot.

Léon Faucher, noto più tardi per i suoi sforzi impotenti di elevarsi alla funzione di Guizot della controrivoluzione francese, negli ultimi tempi di Luigi Filippo condusse una guerra a colpi di penna per l’industria, contro la speculazione e il suo tirapiedi, il governo. Bastiat, in nome di Bordeaux e di tutta la Francia vinicola, faceva dell’agitazione contro il sistema dominante.

La piccola borghesia in tutte le sue gradazioni, ed egualmente la classe dei contadini, erano del tutto escluse dal potere politico. Si incontravano finalmente nell’opposizione ufficiale, oppure erano esclusi del tutto dal pays légal i rappresentanti ideologici e i portavoce delle classi accennate, i loro scienziati, avvocati, medici, ecc.: in una parola, le loro cosiddette «capacità».

Il disagio finanziario rese fin dall’inizio la monarchia di luglio dipendente dalla grande borghesia; dipendenza che divenne la sorgente inesauribile di un crescente disagio della finanza. Impossibile subordinare l’amministrazione dello Stato all’interesse della produzione nazionale, senza ristabilire l’equilibrio nel bilancio, l’equilibrio tra le uscite e le entrate dello Stato. E in qual modo ristabilire questo equilibrio senza limitare le spese dello Stato, ossia senza vulnerare interessi che erano altrettanti sostegni del sistema dominante, e senza riordinare la ripartizione delle imposte, cioè senza rigettare una parte notevole del peso delle imposte sulle spalle della grande borghesia stessa?

L’indebitamento dello Stato era ben piuttosto un interesse diretto della frazione della borghesia, governante e legiferante per mezzo della Camera. Il deficit dello Stato: ecco propriamente il vero oggetto della sua speculazione e la fonte principale del suo arricchimento. Dopo ogni anno un nuovo deficit. Dopo quattro o cinque anni un nuovo prestito offriva all’aristocrazia finanziaria una nuova occasione di truffare lo Stato che, tenuto artificiosamente sospeso nelle ansie della bancarotta, era costretto a contrattare coi banchieri nelle condizioni più sfavorevoli. Ogni nuovo prestito offriva una nuova occasione di svaligiare il pubblico, che investe i suoi capitali in rendita dello Stato, mediante operazioni di Borsa al cui mistero erano iniziati il governo e la maggioranza della Camera. Erano soprattutto la situazione instabile del credito dello Stato e il possesso dei segreti di Stato che davano ai banchieri, non meno che ai loro affiliati nelle Camere e sul trono, la possibilità di provocare straordinarie, improvvise oscillazioni, il cui risultato costante doveva essere la rovina di una massa di capitalisti più piccoli e l’arricchimento favolosamente rapido del giocatore in grande. L’essere il deficit dello Stato un diretto interesse della frazione dominante della borghesia, spiega come gli stanziamenti ordinari dello Stato negli ultimi anni del regime di Luigi Filippo superassero di gran lunga il doppio di quelli sotto Napoleone, raggiungendo quasi la somma annua di 400 milioni di franchi, mentre l’esportazione media complessiva della Francia raggiungeva la somma di 750 milioni di franchi. Le enormi somme, che in tal modo scorrevano per le mani dello Stato davano inoltre origine a loschi appalti, a corruzioni, a frodi, a bricconate d’ogni specie. Lo svaligiamento dello Stato, quale avveniva in grande coi prestiti, si ripeteva al minuto nei lavori pubblici. Il rapporto tra la Camera e il governo si ramificava sotto forma di rapporti tra amministrazioni singole e singoli imprenditori.

Al pari degli stanziamenti dello Stato e dei prestiti dello Stato, la classe dominante sfruttava le costruzioni ferroviarie. Le Camere addossavano allo Stato i pesi principali, assicurandone i frutti d’oro all’aristocrazia finanziaria speculatrice. Si accumulavano gli scandali nella Camera dei deputati, allorché il caso fece venire a galla che tutti quanti i membri della maggioranza, compresa una parte dei ministri, partecipavano come azionisti a quelle medesime costruzioni ferroviarie che essi facevano poi, in qualità di legislatori, intraprendere a spese dello Stato.

La più piccola riforma finanziaria, invece, naufragava davanti all’influenza dei banchieri. Così, ad esempio, la riforma postale. Rothschild protestò contro di essa. Poteva lo Stato ridurre delle sorgenti di reddito da cui egli ricavava le somme per gli interessi del suo debito sempre crescente?

La monarchia di luglio non era altro che una Società per azioni per lo sfruttamento della ricchezza nazionale francese, i cui dividendi si ripartivano fra ministri, Camere, banchieri, 240 mila elettori e il loro seguito. Luigi Filippo era il direttore di questa Società: vero Robert Macaire [1] sul trono. Commercio, industria, agricoltura, navigazione, questi interessi della borghesia industriale dovevano sotto questo sistema essere continuamente minacciati e compromessi. Governo a buon mercato, gouvernement à bon marché, aveva scritto la borghesia industriale nelle giornate di luglio sulla propria bandiera.

Mentre l’aristocrazia finanziaria dettava le leggi, guidava l’amministrazione dello Stato, disponeva di tutti i pubblici poteri organizzati, dominava la pubblica opinione coi fatti e con la stampa, in tutti gli ambienti, dalla corte sino al Café Borgne, si spandeva l’identica prostituzione, l’identica frode svergognata, l’identica libidine di arricchirsi non mediante la produzione, ma mediante la rapina dell’altrui ricchezza già creata. Alla sommità stessa della società borghese trionfava il soddisfacimento sfrenato, in urto ad ogni istante con le stesse leggi borghesi, degli appetiti malsani ed abbietti, nei quali trova la naturale soddisfazione la ricchezza scaturita dal gioco, e il godimento diventa gozzoviglia, e denaro e lordura e sangue scorrono insieme. L’aristocrazia finanziaria, nelle sue forme di guadagno come nei suoi godimenti, non è altro che la resurrezione del sottoproletariato alla sommità della società borghese.

E le frazioni non dominanti della borghesia francese gridarono: corruzione! Quando nel 1847 sulle scene più elevate della società borghese vennero pubblicamente rappresentati qugli stessi spettacoli che sono di regola rappresentati dal sottoproletariato nel bordelli, nei ricoveri di mendicità e nei manicomi, davanti al giudice, in carcere e alla ghigliottina, il popolo gridava: abbasso i grandi ladri! abbasso gli assassini! La borghesia industriale vide in pericolo i propri interessi; la piccola borghesia era moralmente sdegnata, la fantasia popolare si ribellava. Parigi era inondata da libelli – “la dinastia Rothschild”, “gli ebrei re dell’epoca” ecc. – in cui il dominio dell’aristocrazia finanziaria veniva denunciato e stigmatizzato con maggiore o minore spirito.

Rien pour la gloire! La guerra non rende niente! La pace sempre e dappertutto! La guerra fa abbassare il corso della rendita del 3 e 4 per cento. Così aveva scritto sulle sue bandiere la Francia degli ebrei di Borsa. La sua politica estera andò in tal modo a smarrirsi in una serie di mortificazioni del sentimento nazionale francese, la cui irritazione divenne acutissima quando, con l’incorporazione di Cracovia all’Austria venne consumato l’assassinio della Polonia, e Guizot entrò attivamente nella guerra del Sonderbund svizzero, a favore della Santa Alleanza. La vittoria dei liberali svizzeri in questo simulacro di guerra risollevò gli spiriti dell’opposizione borghese in Francia; la sanguinosa insurrezione del popolo a Palermo agì come una scossa elettrica sulla massa popolare paralizzata, e ne risvegliò i grandi ricordi e le passioni rivoluzionarle [2].

Due avvenimenti economici mondiali accelerarono finalmente l’esplosione dell’universale disgusto e fecero maturare il malcontento in rivolta.

La malattia delle patate e i cattivi raccolti del 1845 e del 1846 avevano sovreccitato nel popolo il generale fermento. La carestia del 1847 provocò in Francia, come nel resto del continente, conflitti sanguinosi. Ed ecco, di fronte alle orge svergognate dell’aristocrazia finanziaria, la lotta del popolo per i mezzi di sussistenza indispensabili! Ecco a Buzançais i rivoltosi per fame giustiziati e a Parigi i truffatori satolli strappati ai tribunali dalla famiglia reale!

Il secondo grande avvenimento economico che affrettò lo scoppio della rivoluzione fu una crisi generale del commercio e dell’industria in Inghilterra; crisi che, già preannunciata nell’autunno 1845 dalla disfatta in massa degli speculatori delle azioni ferroviarie, e contenuta durante il 1846 da una serie di circostanze occasionali come l’imminente abolizione dei dazi sui cereali, eruppe finalmente nell’autunno del 1847 con le bancarotte dei grandi mercanti di coloniali di Londra, alle quali seguirono immediatamente i fallimenti delle banche di provincia e la chiusura delle fabbriche nei distretti industriali inglesi. Non si erano ancora avvertite le ripercussioni di questa crisi sul continente, quando scoppiò la rivoluzione di febbraio.

Le devastazioni prodotte nel commercio e nell’industria dall’epidemia economica resero ancora più insopportabile l’egemonia dell’aristocrazia finanziaria. In tutta la Francia la borghesia d’opposizione bandì l’agitazione dei banchetti per una riforma elettorale, che avrebbe dovuto permetterle di conquistare la maggioranza nelle Camere e abbattere il ministero della Borsa. A Parigi la crisi ebbe anche la conseguenza di respingere verso il commercio interno una massa di industriali e di grossisti, che nelle condizioni del momento non potevano più fare affari sul mercato estero. Essi eressero grandi stabilimenti, la cui concorrenza causò la rovina in massa di droghieri e bottegai. Donde una quantità innumerevole di fallimenti in questa parte della borghesia parigina; donde la sua apparizione rivoluzionaria nel mese di febbraio. È noto come Guizot e le Camere risposero ai progetti di riforma con una sfida spoglia di equivoci, come Luigi Filippo si decise troppo tardi per un ministero Barrot, come si venne al conflitto tra il popolo e l’esercito, come l’esercito fu disarmato grazie al contegno passivo della guardia nazionale, come la monarchia di luglio dovette cedere il posto a un governo provvisorio.

Il governo provvisorio, sorto dalle barricate di febbraio, rispecchiava necessariamente nella sua composizione i diversi partiti che si erano divisa la vittoria. Esso non poteva esser altro che un compromesso tra le diverse classi che unite avevano abbattuto il trono di luglio, ma i cui interessi erano opposti ed ostili. La sua grande maggioranza era composta di rappresentanti della borghesia: la piccola borghesia repubblicana era rappresentata da Ledru-Rollin e da Flocon, la borghesia repubblicana dagli uomini del National, l’opposizione dinastica da Crémieux, Dupont de L’Eure, ecc. La classe lavoratrice aveva due soli rappresentanti: Louis Blanc e Albert.

Lamartine, infine, dapprincipio non rappresentava nel governo provvisorio nessun interesse reale, nessuna classe determinata; egli era la rivoluzione di febbraio stessa, l’insurrezione di tutti, con le sue illusioni, la sua poesia, il suo contenuto chimerico e le sue frasi. Del resto l’oratore della rivoluzione di febbraio, tanto per la sua posizione che per le sue idee, apparteneva alla borghesia.

Se Parigi domina la Francia grazie all’accentramento politico, sono gli operai che nei momenti di convulsioni rivoluzionarle dominano Parigi. Primo atto di vita del governo provvisorio fu il tentativo di sottrarsi a tale influenza preponderante facendo appello alla digiuna Francia contro l’ebbra Parigi. Lamartine contestò ai Combattenti delle barricate il diritto di proclamare la repubblica, affermando che solo la maggioranza dei francesi aveva facoltà di farlo, che si doveva attendere ch’essa esprimesse il suo voto, che il proletariato di Parigi non doveva macchiare la sua vittoria con un’usurpazione. La borghesia permette al proletariato soltanto una usurpazione: quella del campo di battaglia.

Il 25 febbraio, verso mezzogiorno, la repubblica non era ancora proclamata, mentre tutti i ministeri erano già ripartiti tra gli elementi borghesi del governo provvisorio e tra i generali, i banchieri e gli avvocati del National. Senonché gli operai questa volta erano decisi a non tollerare una mistificazione come quella del luglio 1830. Erano pronti a riprendere la lotta e a imporre la repubblica con la forza delle armi. Questo fu il messaggio col quale Raspail si recò all’Hôtel de Ville. In nome del proletariato parigino egli intimò al governo provvisorio di proclamare la repubblica; se questa intimazione del popolo non fosse stata eseguita entro due ore, egli sarebbe ritornato alla testa di duecentomila uomini. I cadaveri dei caduti non erano ancora freddi, le barricate non erano ancora state rimosse, gli operai non erano ancora disarmati, e l’unica forza che si potesse opporre loro era la guardia nazionale. In tali circostanze sbollirono immediatamente le savie considerazioni di Stato e gli scrupoli giuridici di coscienza del governo provvisorio. Non era trascorso il termine di due ore, e già su tutti i muri di Parigi splendevano le storiche grandiose parole:

Rèpublique française! Libertè! Egalité! Fraternité!

Con la proclamazione della repubblica sulla base del suffragio universale, si spense persino il ricordo degli intenti e degli obiettivi limitati che avevano spinto la borghesia nella rivoluzione di febbraio. Invece di alcune poche frazioni della borghesia, tutte le classi della società francese furono gettate di colpo nella cerchia del potere politico, costrette ad abbandonare i palchi, la platea, la galleria, e a recitare tutti insieme sul palcoscenico della rivoluzione! Con la monarchia costituzionale anche il simulacro di una potenza di Stato autocrate, in antagonismo alla società borghese veniva a svanire, e con esso tutta la serie di lotte secondarie, provocate da quella potenza speciosa!

Il proletariato, imponendo la repubblica al governo provvisorio e, attraverso il governo provvisorio, a tutta la Francia, si affacciava d’un colpo come partito indipendente al centro della scena, ma allo stesso tempo si chiamava addosso il giudizio di tutta la Francia borghese. Ciò che esso aveva conquistato era il terreno della lotta per la propria emancipazione rivoluzionaria, ma non era certamente l’emancipazione stessa.

Era necessario, invece, che la repubblica di febbraio innanzitutto portasse a compimento il dominio della borghesia, facendo entrare, accanto all’aristocrazia finanziaria, tutte le classi possidenti nella cerchia dei potere politico. La maggioranza dei grandi proprietari fondiari, i legittimisti, vennero fatti uscire dal nulla politico a cui li aveva condannati la monarchia di luglio. Non invano la “Gazette de France” aveva agitato in comune con i fogli dell’opposizione; non invano La Rochejacquelein, nella seduta della Camera dei deputati del 24 febbraio, aveva abbracciato il partito della rivoluzione. Mediante il suffragio universale i proprietari nominali che costituiscono la grande maggioranza dei francesi, i contadini, vennero fatti arbitri dei destini della Francia. La repubblica di febbraio fece finalmente apparire senza veli il dominio della borghesia, mentre si forgiava la corona, dietro cui si teneva nascosto il capitale.

Come gli operai nei giorni di luglio avevano combattuto la monarchia borghese, così nei giorni di febbraio combatterono la repubblica borghese. Come la monarchia di luglio era stata costretta a proclamarsi monarchia circondata da istituzioni repubblicane, così la repubblica di febbraio fu costretta a proclamarsi repubblica circondata da istituzioni sociali. Il proletariato parigino aveva strappato anche questa concessione.

Marche, un operaio, dettò il decreto con cui il governo provvisorio appena costituito si obbligava ad assicurare mediante il lavoro l’esistenza dei lavoratori, a provvedere di lavoro a tutti i cittadini, ecc. E allorquando, pochi giorni più tardi, il governo dimenticò le sue promesse e sembrò aver perduto di vista il proletariato, una massa di 20 mila operai marciò sull’Hôtel de Ville al grido di: Organizzazione del lavoro! Costituzione di uno speciale ministero del lavoro!

Riluttante e dopo lungo dibattito, il governo provvisorio nominò una commissione speciale permanente, incaricata di escogitare i mezzi per il miglioramento delle classi lavoratrici! Questa commissione venne composta da delegati delle corporazioni di mestiere di Parigi e presieduta da Louis Blanc e Albert. Il Lussemburgo le fu assegnato a sede per le adunanze. Così i rappresentanti della classe operaia venivano banditi dalla sede del governo provvisorio; la parte borghese di esso tenne nelle sue mani in modo esclusivo il potere effettivo dello Stato e le redini dell’amministrazione; e accanto ai ministeri delle finanze, del commercio, dei lavori pubblici, accanto alla Banca e alla Borsa, sorse una sinagoga socialista, i cui sommi pontefici, Louis Blanc e Albert, avevano la missione di scoprire la terra promessa, di annunciare il nuovo vangelo e di dare occupazione al proletariato parigino. A differenza di ogni profano potere statale, non era a loro disposizione nessun bilancio, nessun potere esecutivo. Era con la testa che essi dovevano abbattere i i pilastri fondamentali della società borghese. Mentre il Lussemburgo cercava la pietra filosofale, nell’Hôtel de Ville si batteva la moneta a corso legale.

Eppure le aspirazioni del proletariato di Parigi, in quanto soverchiavano la repubblica borghese, non potevano concretarsi altrimenti che nella nebulosità del Lussemburgo.

In comune con la borghesia gli operai avevano fatto la rivoluzione di febbraio; a fianco alla borghesia essi cercarono di far valere i loro interessi, allo stesso modo con cui anche nel governo provvisorio avevano istallato un operaio accanto alla maggioranza borghese. Organizzazione del lavoro! Ma il lavoro salariato è l’attuale organizzazione borghese del lavoro. Senza di esso non vi è né capitale, né borghesia, né società borghese. Uno speciale ministero del lavoro! Ma i ministeri delle finanze, del commercio, dei lavori pubblici, non sono forse i ministeri borghesi del lavoro? Accanto ad essi un ministero proletario del lavoro non poteva non essere che un ministero dell’impotenza, un ministero dei pii desideri, una commissione del Lussemburgo. Come gli operai credevano di emanciparsi a fianco alla borghesia, così pensavano di poter compiere, accanto alle altre nazioni borghesi, una rivoluzione proletaria entro le pareti nazionali della Francia. Ma i rapporti di produzione francesi sono subordinati al commercio estero della Francia, alla sua situazione nel mercato mondiale e dalle leggi di questo. Come avrebbe potuto la Francia spezzare queste leggi senza una guerra rivoluzionaria sul continente europeo che si ripercuotesse sul despota del mercato mondiale, sull’Inghilterra?

Una classe nella quale si concentrano gli interessi rivoluzionari della società, non appena si è sollevata trova immediatamente nella sua stessa situazione il contenuto e il materiale della propria attività rivoluzionaria: abbatte i nemici, prende misure imposte dalle necessità stesse della lotta; poi le conseguenze dei suoi propri atti la spingono oltre. Essa non subordina il suo compito a ricerche teoriche. La classe operaia francese non si trovava a questa altezza di vedute: essa era ancora incapace di portare a compimento la propria rivoluzione.

Lo sviluppo del proletariato industriale è soprattutto subordinato allo sviluppo della borghesia industriale. È appena sotto il dominio di questa che il proletariato industriale comincia ad acquistare una consistenza diffusa su tutta la nazione, la quale gli permette di dare un carattere nazionale alla sua rivoluzione; è anzi appena allora che esso crea i moderni mezzi di produzione, destinati ad essere in pari tempo i mezzi della sua emancipazione rivoluzionaria. È solo il dominio della borghesia industriale che strappa le radici materiali della società feudale, spianando il terreno, sul quale solamente è possibile una rivoluzione proletaria. L’industria francese è più progredita e la borghesia francese è più rivoluzionariamente sviluppata di quelle del resto del continente. Ma la rivoluzione di febbraio non era essa diretta immediatamente contro l’aristocrazia finanziaria? Da questa circostanza si ebbe la prova che non era la borghesia industriale che dominava in Francia. La borghesia industriale può dominare solo là dove l’industria moderna foggia a propria immagine tutti i rapporti di proprietà, e l’industria può raggiungere un simile potere solo là dove ha conquistato il mercato mondiale. Ma l’industria francese in gran parte si assicura lo stesso mercato nazionale solo per mezzo di un sistema produttivo più o meno modificato. Se il proletariato francese, per conseguenza, possiede a Parigi, nel momento di una rivoluzione, un potere di fatto e una influenza che lo spronano a uno slancio eccessivo per i suoi mezzi, nel resto della Francia è raccolto in singoli centri industriali isolati, quasi inavvertito in mezzo a una massa preponderante di contadini e piccoli borghesi. La lotta contro il capitale nella sua forma moderna d’evoluzione, nella sua fase culminante, la lotta del salariato industriale contro il borghese industriale, è in Francia un fatto parziale, che dopo i giorni di febbraio tanto meno poteva dare un contenuto nazionale alla rivoluzione, in quanto la lotta contro i metodi secondari di sfruttamento capitalistico, la lotta dei contadini contro l’usura ipotecaria, del piccolo borghese contro il grande commerciante, il grande banchiere e l’industriale, in una parola, contro la bancarotta, era ancora confusa nell’insurrezione contro l’aristocrazia finanziaria in generale. Nulla di più spiegabile, dunque, del tentativo da parte del proletariato parigino di difendere il suo interesse accanto a quello borghese, invece di farlo valere come interesse rivoluzionario della società stessa. Nulla di più spiegabile del fatto che il proletariato lasciasse cadere la bandiera rossa davanti a quella tricolore. Gli operai francesi non potevano né muovere un passo avanti, né torcere un capello all’ordine borghese prima che il corso della rivoluzione non avesse sollevato la massa della nazione che sta tra il proletariato e la borghesia, cioè i contadini e la piccola borghesia, contro questo ordine borghese, contro il dominio del capitale, non li avesse costretti a unirsi ai proletari come a loro avanguardia. Solo attraverso la terribile disfatta di giugno gli operai potevano guadagnarsi questa vittoria.

Alla commissione del Lussemburgo, a questa creatura degli operai parigini, rimane il merito di aver svelato dall’alto di una tribuna europea il segreto della rivoluzione del secolo decimonono: l’emancipazione del proletariato. Il Moniteur era furibondo quando dovette propagare ufficialmente le «selvagge stravaganze», che sino allora giacevano sepolte negli scritti clandestini dei socialisti, e solo di quando in quando percuotevano le orecchie della borghesia, come leggende lontane, metà paurose, metà ridicole. L’Europa fu destata di soprassalto dal suo torpore. Nell’idea dei proletari, dunque, i quali scambiavano l’aristocrazia finanziaria con la borghesia in generale; nell’immaginazione dei valentuomini repubblicani, i quali negavano l’esistenza stessa delle classi o tutt’al più l’ammettevano come conseguenza della monarchia costituzionale; nelle frasi ipocrite delle frazioni borghesi fin qui escluse dal dominio, il dominio della borghesia era abolito in forza della proclamazione della repubblica. Allora tutti i monarchici si trasformarono in repubblicani e tutti i milionari di Parigi in lavoratori. La parola che corrispondeva a questa artificiale soppressione dei rapporti di classe, era la fraternité, l’affratellamento e la fratellanza universali. Questa bonaria astrazione dall’antagonismo di classe, questo livellamento sentimentale degli interessi contraddittori di classe, questo estatico elevarsi al di sopra della lotta di classe – la fraternité, ecco quale era la vera parola d’ordine della rivoluzione di febbraio. Ciò che divideva le classi era un semplice malinteso, e Lamartine il 24 febbraio battezzò il governo provvisorio: Un governo che sospende questo terribile malinteso che esiste tra le diverse classi. Il proletariato parigino gavazzava in questa magnanima ubriacatura di fraternità.

Il governo provvisorio, dal canto suo, una volta costretto a proclamare la repubblica, fece di tutto per renderla accetta alla borghesia e alle province. I sanguinosi terrori della prima repubblica francese vennero rinnegati abolendo la pena di morte per i delitti politici; si lasciò libertà di stampa a tutte le opinioni; l’esercito, i tribunali, l’amministrazione rimasero, salvo poche eccezioni, nelle mani dei loro antichi titolari; nessuno dei grandi colpevoli della monarchia di luglio fu tratto in giudizio. I repubblicani borghesi del National si divertirono a cambiare nomi e costumi monarchici con vecchi costumi repubblicani. Per essi la repubblica non era altro che un nuovo costume da ballo per la vecchia società borghese. Il merito principale cercato dalla giovane repubblica non consisteva nello spargere terrore, sebbene nell’essere piuttosto essa stessa continuamente sotto l’incubo del terrore, conquistandosi l’esistenza con gli adattamenti e con le cedevolezze e disarmando così ogni opposizione. Alle classi privilegiate nell’interno, alle potenze dispotiche all’estero, venne solennemente dichiarato che la repubblica aveva carattere pacifico. Vivere e lasciar vivere era la sua divisa. Si aggiunse che, poco dopo la rivoluzione di febbraio, i tedeschi, i polacchi, gli austriaci, gli ungheresi, gli italiani, ciascun popolo a secondo della sua situazione momentanea, si rivoltarono. Russia e Inghilterra, l’ultima sebbene già internamente agitata, l’altra intimidita, erano impreparate. La repubblica non trovò dunque di fronte a sé nessun nemico nazionale, e nessuna complicazione estera rilevante, che potesse ravvivare le energie, accelerare il processo rivoluzionario, spingere in avanti il governo provvisorio o gettarlo a mare. Il proletariato parigino, che riconosceva nella repubblica la propria creatura, applaudì naturalmente ogni atto del governo provvisorio che alla repubblica preparava un più facile posto nella società borghese. Esso si lasciò volontariamente adoperare da Caussidière in servizi di polizia per difendere la proprietà a Parigi, così come lasciò accomodare da Louis Blanc i conflitti salariali tra operai e padroni. Il suo punto d’onore consisteva nel mantenere intatto agli occhi dell’Europa l’onore borghese della repubblica.

La repubblica non trovò nessuna resistenza, né all’estero né all’interno. Con ciò essa era disarmata. Il suo compito non consisteva più nella trasformazione rivoluzionarla del mondo, ma soltanto nell’adattarsi alle condizioni della società borghese. Non vi è testimonianza più eloquente del fanatismo con cui il governo provvisorio si accinse a questo compito, dei suoi provvedimenti finanziari.

Il credito pubblico e il credito privato erano, naturalmente, scossi. Il credito pubblico riposa sulla fiducia che lo Stato si lasci sfruttare dagli ebrei della finanza. Ma il vecchio Stato era scomparso e la rivoluzione era anzitutto diretta contro l’aristocrazia finanziaria. Le oscillazioni dell’ultima crisi del commercio europeo non erano ancora cessate; le bancarotte succedevano ancora alle bancarotte.

Il credito privato era dunque paralizzato, la circolazione impedita, la produzione arenata, già prima che la rivoluzione di febbraio scoppiasse. La crisi rivoluzionaria rese più acuta quella commerciale. E poiché il credito privato riposa sulla fiducia che la produzione borghese in tutto l’ambito dei suoi rapporti, cioè l’ordine borghese, sia intatta e intangibile, quali potevano essere le conseguenze di una rivoluzione che poneva in discussione la base della produzione borghese, la schiavitù economica del proletariato, che drizzava di fronte alla Borsa la sfinge del Lussemburgo? L’avvento del proletariato è l’abolizione del credito borghese, perché è l’abolizione della produzione borghese e del suo ordinamento. Il credito pubblico e il credito privato sono il termometro economico col quale si può misurare l’intensità di una rivoluzione. Nella stessa misura in cui essi precipitano, salgono l’entusiasmo e la forza creatrice della rivoluzione.

Il governo provvisorio voleva spogliare la repubblica dell’apparenza antiborghese. Perciò doveva innanzitutto cercare di assicurare il valore commerciale di questa nuova forma dello Stato, il suo corso alla Borsa. Col salire della repubblica sul listino della Borsa, si rialzò necessariamente il credito privato.

Per allontanare anche il sospetto che essa non volesse o non potesse adempiere agli obblighi ereditati dalla monarchia, per dar credito alla morale e alla solvibilità borghesi della repubblica, il governo provvisorio fece ricorso a una millanteria tanto priva di dignità quanto puerile. Prima del termine legale di pagamento sborsò al creditori dello Stato gli interessi del 5 per cento, del 4 e mezzo e del 4 per cento. La sfacciataggine borghese, l’orgoglio dei capitalisti si ridestarono d’un tratto, quando videro la precipitazione angosciosa con cui si cercava di comperare la loro fiducia.

Naturalmente le difficoltà pecuniarie del governo provvisorio non furono per nulla diminuite da un colpo di scena che gli toglieva di tasca la riserva di denaro contante disponibile. Il disagio finanziario non poté più a lungo essere dissimulato, e piccoli borghesi, domestici, operai, dovettero pagare la gradita sorpresa offerta ai creditori dello Stato.

Fu dichiarato che i libretti delle casse di risparmio non potevano più cambiarsi in denaro al di sopra dell’importo di 100 franchi. Le somme depositate nelle casse di risparmio vennero confiscate e convertite con decreto in un debito di Stato non redimibile. Fu il modo di mettere contro la repubblica il piccolo borghese, già in cattive acque anche senza di ciò. Ricevendo in luogo dei suoi libretti di risparmio titoli del debito dello Stato, egli fu costretto ad andare a venderli in Borsa, e a consegnarsi così direttamente nelle mani degli ebrei della Borsa, contro i quali egli aveva fatto la rivoluzione di febbraio.

L’aristocrazia finanziaria, che aveva dominato sotto la monarchia di luglio, aveva la sua cattedrale nella banca. Come la Borsa regge il credito dello Stato, così la banca regge quello del commercio.

Minacciata direttamente dalla rivoluzione di febbraio non solo nel suo dominio, ma nella sua stessa esistenza, la Banque de France cercò sin dal primo momento di screditare la repubblica, rendendo generale la mancanza di credito. D’un tratto essa sospese il credito ai banchieri, ai fabbricanti, ai commercianti. Questa manovra, non avendo provocato immediatamente una controrivoluzione, si ripercosse inevitabilmente sulla banca stessa. I capitalisti ritirarono il denaro che avevano depositato nei sotterranei della banca. I possessori di biglietti di banca si precipitarono alla cassa per cambiarli in oro ed argento.

Il governo provvisorio avrebbe potuto costringere la banca al fallimento, senza alcun intervento violento, in modo legale. Bastava che rimanesse passivo e abbandonasse la banca al suo destino. La bancarotta della banca era il diluvio universale che avrebbe, in un batter d’occhio, spazzato via dal suolo francese l’aristocrazia finanziaria, la più potente e pericolosa nemica della repubblica, il piedistallo d’oro della monarchia di luglio. E una volta fallita la banca, la borghesia stessa sarebbe stata costretta a considerare come ultimo disperato tentativo di salvezza la creazione da parte del governo di una banca nazionale e la sottomissione del credito nazionale al controllo della nazione.

Il governo provvisorio, invece, stabilì il corso forzoso dei biglietti di banca. E fece di più: convertì tutte le banche di provincia in succursali della Banque de France, alla quale lasciò coprire con la sua rete tutta la Francia. Più tardi le dette le foreste demaniali, come garanzia per un prestito che contrasse con essa. Così la rivoluzione di febbraio consolidava ed estendeva in modo diretto la bancocrazia che avrebbe dovuto abbattere.

Frattanto il governo provvisorio si piegava sotto l’incubo di un crescente deficit. Invano andava mendicando sacrifici patriottici. Solo gli operai gli gettavano la loro elemosina. Si dovette ricorrere ad un mezzo eroico, alla creazione di una nuova imposta. Ma chi tassare? I lupi della Borsa, i re della banca, i creditori dello Stato, chi viveva di rendita, gli industriali? Questo non era il mezzo di asservire la borghesia alla repubblica. Ciò significava mettere a repentaglio da una parte il credito dello Stato e il credito commerciale, mentre dall’altra parte si cercava di redimerlo con tanti sacrifici e umiliazioni. Ma qualcuno doveva sborsare. Chi venne sacrificato al credito borghese? Jacques le bonhomme, cioè il contadino.

Il governo provvisorio aggiunse un’imposta suppletiva di 45 centesimi per franco alle quattro imposte dirette. Agli occhi del proletariato parigino la stampa governativa fece balenare che questa imposta cadesse precisamente sulla grande proprietà fondiaria, sui detentori dei miliardi concessi dalla Restaurazione. In realtà però essa colpiva anzitutto la classe dei contadini, ossia la grande maggioranza del popolo francese. Furono essi a pagare le spese della rivoluzione di febbraio e da essi la controrivoluzione trasse le sue forze principali. L’imposta dei 45 centesimi era una questione di vita o di morte per il contadino francese; egli ne fece una questione di vita o di morte per la repubblica. Da questo momento la repubblica fu per il contadino francese l’imposta dei 45 centesimi, e nel proletariato parigino egli vide lo scialacquatore che se la spassava a sue spese.

Mentre la rivoluzione del 1789 aveva esordito liberando i contadini dal gravami feudali, la rivoluzione del 1848, per non recar danno al capitale e per tenere in carreggiata la sua macchina dello Stato, si annunciò alla popolazione rurale con una nuova imposta.

Con un mezzo solo il governo provvisorio avrebbe potuto eliminare tutti questi inconvenienti e trarre lo Stato dal suo vecchio binario: con la dichiarazione la bancarotta dello Stato. È nella memoria di tutti come Ledru-Rollin, più tardi, nell’Assemblea nazionale recitò la commedia della virtuosa indignazione, respingendo un suggerimento di questo genere dall’ebreo di Borsa, Fould, attuale ministro delle finanze. Quello che Fould gli offriva era il frutto dell’albero della sapienza.

Mentre il governo provvisorio riconosceva la vecchia cambiale tratta dalla vecchia società borghese sullo Stato, questa veniva a scadenza. Il governo provvisorio era diventato il debitore incalzato dalla società borghese, invece di opporsi ad essa come un creditore minaccioso, che ha da incassare titoli di credito rivoluzionari di parecchi anni. Esso si trovava costretto a consolidare i vacillanti rapporti borghesi, per adempiere obbligazioni eseguibili soltanto entro questi rapporti. Il credito divenne condizione vitale della sua esistenza, e le concessioni al proletariato, e le promesse fattegli, diventarono altrettante catene che esso era forzato a spezzare. L’emancipazione dei lavoratori – anche come semplice frase – rappresentò per la nuova repubblica un pericolo insopportabile, perché era una protesta permanente contro il ristabilimento del credito, che poggia sul riconoscimento incontestato e tranquillo dei rapporti economici di classe esistenti. Si doveva dunque farla finita con gli operai.

La rivoluzione di febbraio aveva cacciato l’esercito da Parigi. La guardia nazionale, cioè la borghesia nelle varie sue gradazioni, costituiva l’unica forza armata. Essa non si sentiva però abbastanza forte per misurarsi da sola col proletariato. Inoltre era stata costretta, benché dopo la più tenace resistenza e opponendo cento ostacoli diversi, ad aprire a poco a poco e di tempo in tempo le sue file, lasciandovi entrare dei proletari armati. Non rimaneva dunque che una via d’uscita: opporre una parte dei proletari all’altra.

A tal fine il governo provvisorio formò 24 battaglioni di guardie mobili, ciascuno di 1.000 uomini, giovani dai 15 ai 20 anni. Questi appartenevano, per la maggior parte, al sottoproletariato, che in tutte le grandi città compone una massa nettamente distinta dal proletariato industriale; un posto di reclutamento per ladri e delinquenti di ogni genere, alimentato dai rifiuti della società, da gente senza un mestiere definito, da vagabondi, gens sans feu et sans aveu, diversi secondo il grado di civiltà della nazione cui appartengono, ma che non smentiscono mai la loro natura di lazzaroni. Perfettamente indicati per l’età giovanile, in cui il governo provvisorio li arruolava, questi elementi erano perfettamente capaci tanto delle più grandi azioni eroiche e della più esaltata abnegazione, quanto dei più volgari atti di brigantaggio e della più sordida venalità. Il governo provvisorio pagava loro un franco e 50 centesimi al giorno, ossia li comperava. Diede loro una uniforme speciale, distinguendoli esteriormente dalla blusa dell’operaio. Come comandanti, in parte vennero dati loro ufficiali dell’esercito regolare; in parte nominati da essi stessi, giovani figli di borghesi, le cui spacconate del morir per la patria e di sacrificio per la repubblica li attiravano.

In questo modo il proletariato di Parigi trovò davanti a sé un esercito, cavato dal suo stesso ambiente, di 24.000 giovani forti, audaci, e prepotenti. Quando la guardia mobile sfilò per Parigi, l’accolse con degli evviva. In essa riconosceva i suoi condottieri sulle barricate, e la considerò come la guardia proletaria in opposizione alla guardia nazionale borghese. Era un errore perdonabile il suo.

Accanto alla guardia mobile il governo deliberò di raccogliere attorno a sé anche un esercito di operai industriali. Il ministro Marie arruolò nel cosiddetti laboratori nazionali centomila operai gettati sul lastrico dalla crisi e dalla rivoluzione. Sotto questo nome pomposo non si celava altro che l’impiego degli operai a lavori di sterro noiosi, monotoni, improduttivi, per un salario di 23 soldi. Workhouses inglesi all’aria aperta: altro non erano questi laboratori nazionali. Con essi il governo provvisorio credette di aver messo in piedi un secondo esercito proletario contro gli operai stessi. Questa volta la borghesia si ingannava circa i laboratori nazionali, come gli operai si ingannavano circa la guardia mobile. Essa aveva creato un esercito per la sommossa.

Ma uno scopo venne raggiunto.

Laboratori nazionali: non era questo il nome dei laboratori popolari, che Louis Blanc predicava al Lussemburgo? I laboratori di Marie, progettati in diretta opposizione al Lussemburgo, causarono, grazie all’appellativo comune, una selva di equivoci, degni della commedia spagnola dei servitori. Lo stesso governo provvisorio diffondeva sottomano la diceria che questi laboratori nazionali fossero la trovata di Louis Blanc, e la cosa sembrava tanto più credibile in quanto Louis Blanc, il profeta dei laboratori nazionali, era membro del governo provvisorio. E nell’equivoco, metà ingenuo, metà intenzionale, della borghesia parigina, nell’opinione mantenuta ad arte della Francia e dell’Europa, quei workhouses furono la prima attuazione del socialismo, che insieme con essi veniva messo alla berlina.

Non per il loro contenuto, ma per il loro nome, i laboratori nazionali erano l’incarnazione della protesta del proletariato contro l’industria borghese, il credito borghese e la repubblica borghese. Su di essi per conseguenza si riversò tutto l’odio della borghesia. In essi la borghesia aveva, in pari tempo, trovato il punto contro cui poteva dirigere l’attacco non appena fosse stata abbastanza forte per romperla apertamente con le illusioni di febbraio. Tutto il malessere, tutto il malcontento dei piccoli borghesi si diresse esso pure contro questi laboratori nazionali, che divennero il bersaglio comune. Con vero furore essi facevano il conto delle somme inghiottite dai proletari fannulloni, mentre la loro situazione diventava di giorno in giorno più intollerabile. Una pensione dello Stato per un simulacro di lavoro, ecco il socialismo! – andavano borbottando. I laboratori nazionali, le declamazioni del Lussemburgo, le marce degli operai per Parigi: in questo essi cercavano l’origine della loro miseria. E nessuno si scagliava contro le pretese macchinazioni dei socialisti più del piccolo borghese, pencolante, senza difese, sull’abisso della bancarotta.

Così nel conflitto imminente tra borghesia e proletariato tutti i vantaggi, tutti i posti decisivi, tutti i ceti medi della società erano in mano alla borghesia, mentre le onde della rivoluzione di febbraio coprivano tutto il continente e ogni nuovo corriere portava un nuovo bollettino di rivoluzione, ora dall’Italia, ora dalla Germania, ora dall’estremo Sud-Est dell’Europa, alimentando l’ebbrezza generale del popolo, recandogli continue testimonianze di una vittoria, che esso aveva di già compiuta.

Il 17 marzo e il 16 aprile furono le prime avvisaglie della grande lotta di classe, che la repubblica borghese nascondeva sotto le sue ali.

Il 17 marzo rivelò la situazione equivoca del proletariato, incapace di qualunque atto decisivo. Lo scopo originario della sua manifestazione era di risospingere il governo provvisorio sul cammino della rivoluzione, di ottenere secondo i casi, l’esclusione dei suoi membri borghesi e di strappare una proroga del giorno fissato per le elezioni per l’Assemblea nazionale e per la guardia nazionale. Ma il 16 marzo, la borghesia rappresentata nella guardia nazionale aveva fatto una dimostrazione ostile al governo provvisorio. Al grido di Abbasso Ledru-Rollin!, essa aveva invaso l’Hôtel de Ville. E il popolo si trovò costretto, il 17 marzo, a gridare: Viva Ledru -Rollin! Viva il governo provvisorio. Fu costretto ad abbracciare, contro la borghesia, il partito della repubblica borghese che gli sembrava in pericolo, e per tale modo consolidò il governo provvisorio, invece di sottometterselo. Il 17 marzo si risolse in una scena da melodramma e, se in quel giorno il proletariato parigino mise ancora una volta in mostra il suo corpo di gigante, tanto più aumentò nella borghesia, dentro e fuori del governo provvisorio, la risoluzione di abbatterlo.

Il 16 aprile fu un malinteso, messo in piedi dal governo provvisorio insieme alla borghesia. Gli operai si erano radunati in gran numero al Campo di Marte e nell’Ippodromo, per preparare le loro elezioni dello stato maggiore della guardia nazionale. D’un tratto si diffuse come un lampo in tutta Parigi, da un capo all’altro, la voce che gli operai si erano radunati in armi al Campo di Marte, sotto la direzione di Louis Blanc, Blanqui, Cabet e Raspail, per muovere di là sull’Hôtel de Ville, rovesciare il governo provvisorio e proclamare un governo comunista. Si suona a raccolta (Ledru-Rollin, Marrast e Lamartine si contesero più tardi l’onore dell’iniziativa); in un’ora ecco centomila uomini sotto le armi; l’Hôtel de Ville è in ogni suo punto occupato da guardie nazionali; per tutta Parigi risuona il grido: Abbasso i comunisti! Abbasso Louis Blanc, Blanqui, Raspail, Cabet!, e un’enorme quantità di deputazioni, tutte pronte a salvare la patria e la società, va a rendere omaggio al governo provvisorio. Quando gli operai alla fine compaiono davanti all’Hôtel de Ville, per consegnare al governo provvisorio il ricavo di una colletta patriottica, da essi raccolta al Campo di Marte, apprendono stupiti che la Parigi borghese, in una finta battaglia di sublime accorgimento, ha battuto la loro ombra. Il terribile attentato del 16 aprile offrì il pretesto al richiamo dell’esercito a Parigi – il vero scopo della commedia goffamente messa in scena – e alle manifestazioni reazionarie federaliste delle province.

Il 4 maggio si riunì l’Assemblea nazionale uscita dal suffragio universale diretto. Il suffragio universale non possedeva la forza magica che gli avevano attribuito i repubblicani di vecchio stampo. In tutta la Francia, o per lo meno nella maggioranza dei francesi, essi ravvisavano dei citoyens con gli stessi interessi, le identiche vedute, ecc. Questo era il loro «culto del popolo». Invece del loro popolo immaginario, le elezioni portarono alla luce del giorno il vero popolo, cioè i rappresentanti delle diverse classi in cui esso è diviso. Noi abbiamo veduto la ragione per cui contadini e piccoli borghesi dovettero votare sotto la direzione della borghesia impaziente di combattere e dei grandi proprietari fondiari anelanti alla restaurazione. Ma pur non essendo il suffragio universale la miracolosa bacchetta magica che pensavano i valentuomini repubblicani, possedeva però il merito incomparabilmente più grande di scatenare la lotta di classe, di far svanire rapidamente le illusioni e gli errori nei vari ceti medi della società borghese, di spingere di un colpo tutte le frazioni della classe sfruttatrice al culmine dello Stato, strappando loro così la maschera dell’ipocrisia, mentre la monarchia col suo sistema del censo lasciava che si compromettessero solamente determinate frazioni della borghesia, tenendo nascoste le altre dietro le quinte, che essa circondava con l’aureola di un’opposizione collettiva.

Nell’Assemblea nazionale costituente, che si riunì il 4 maggio, erano in prevalenza i repubblicani borghesi, i repubblicani del National. I legittimisti e anche gli orleanisti non si avventuravano sulle prime a mostrarsi che sotto la maschera del repubblicanesimo borghese. Soltanto in nome della repubblica borghese poteva inaugurarsi la lotta contro il proletariato.

Dal 4 maggio, non dal 25 febbraio, che data la repubblica, vale a dire la repubblica riconosciuta dal popolo francese; non è la repubblica che il proletariato parigino aveva imposto al governo provvisorio, non la repubblica accompagnata da istituzioni sociali; non il sogno che balenava davanti agli occhi dei combattenti delle barricate. La repubblica proclamata dall’Assemblea nazionale, la sola legittima, non era un’arma rivoluzionarla contro l’ordinamento borghese, ma piuttosto la ricostituzione politica di questo, la restaurazione politica della società borghese, in una parola: era la repubblica borghese. Questa fu l’affermazione che risuonò dalla tribuna dell’Assemblea nazionale, e trovò eco in tutta quanta la stampa borghese, repubblicana e antirepubblicana.

E noi abbiamo veduto come la repubblica di febbraio in realtà non fosse e non potesse esser altro che una repubblica borghese; ma come il governo provvisorio, sotto la pressione diretta del proletariato, fosse stato costretto ad annunciarla come una repubblica accompagnata da istituzioni sociali; come il proletariato parigino fosse ancora incapace di elevarsi al di sopra dell’illusione e delle chimere circa la repubblica borghese; come esso agisse ovunque in suo servizio allorché si trattava realmente di venire all’azione; come le promesse fattegli divenissero per la nuova repubblica un pericolo insopportabile; come per il governo provvisorio tutto il processo della sua vita si riassumesse in una permanente lotta contro le rivendicazioni del proletariato.

Nell’Assemblea nazionale, tutta la Francia sedeva a giudice del proletariato parigino. L’Assemblea ruppe subito con le illusioni sociali della rivoluzione di febbraio, essa proclamò chiaro e tondo la repubblica borghese, niente altro che la repubblica borghese. Escluse immediatamente dalla commissione esecutiva da lei nominata i rappresentanti del proletariato, Louis Blanc e Albert; rigettò la proposta di uno speciale ministero del lavoro; accolse con numerose grida di approvazione la dichiarazione del ministro Trélat: «Ormai si tratta soltanto di ricondurre il lavoro alle sue antiche condizioni».

Ma tutto ciò non bastava. La repubblica di febbraio era stata conquistata dagli operai con l’aiuto passivo della borghesia. I proletari si consideravano a ragione come i vincitori di febbraio, e avanzavano le pretese orgogliose del vincitore. Si doveva vincerli sulla strada; si doveva mostrar loro che soccombevano, non appena si battevano non con la borghesia, ma contro la borghesia. Come la repubblica di febbraio con le sue concessioni socialisteggianti, aveva avuto bisogno di una battaglia del proletariato alleato alla borghesia contro la monarchia, così era necessaria una seconda battaglia per liberare la repubblica dalle concessioni socialisteggianti, allo scopo di foggiare ufficialmente il dominio della repubblica borghese. La borghesia doveva respingere le rivendicazioni del proletariato con le armi alla mano. E la vera culla della repubblica borghese non è già la vittoria di febbraio, ma la disfatta di giugno.

Il proletariato accelerò la soluzione allorché, il 15 maggio, penetrò nell’Assemblea nazionale, cercando invano di riconquistare la propria influenza rivoluzionaria, mentre riuscì soltanto a far cadere in mano dei carcerieri della borghesia i suoi energici capi. Il faut en finir! Bisogna farla finita! Con questo grido l’Assemblea dette aperto sfogo alla risoluzione di costringere il proletariato alla lotta decisiva. La commissione esecutiva emanò una serie di decreti provocatori, come il divieto degli assembramenti popolari, ecc. Dall’alto della tribuna dell’Assemblea costituente gli operai furono direttamente sfidati, insultati, scherniti. Ma il vero fianco all’attacco lo prestavano, come vedemmo, i laboratori nazionali. Ad essi l’Assemblea rivolse imperativamente l’attenzione della commissione esecutiva, che aspettava soltanto di vedere il suo proprio piano diventare una imposizione dell’Assemblea nazionale.

La commissione esecutiva incominciò col rendere più difficile l’accesso ai laboratori nazionali, col convertire il salario a giornata in salario a cottimo, col mandare in esilio nella Sologne gli operai non nativi di Parigi col pretesto di lavori di sterro. Questi lavori di sterro non erano che una formula retorica per coprire la loro cacciata, come fecero sapere, al loro ritorno, ai loro compagni gli operai ingannati. Finalmente il 21 giugno comparve sul Moniteur un decreto che ordinava l’espulsione con la forza di tutti gli operai non coniugati, o il loro arruolamento nell’esercito.

Agli operai non rimase altra alternativa: o morir di fame o cedere. Essi risposero il 22 giugno con la terribile insurrezione, in cui si ingaggiò la prima grande battaglia tra le due classi, che dividono la società moderna. Era la lotta per la conservazione o per la distruzione dell’ordinamento borghese. Il velo che avviluppava la repubblica era squarciato.

È noto con quale valore e genialità senza esempio gli operai, privi di capi, privi di un piano comune, privi di mezzi, per la maggior parte privi d’armi, tennero in scacco per cinque giorni l’esercito, la guardia mobile, la guardia nazionale di Parigi e la guardia nazionale accorsa dalla provincia. È noto come la borghesia si rifacesse con brutalità inaudita del pericolo corso, massacrando oltre tremila prigionieri.

I rappresentanti ufficiali della democrazia francese erano prigionieri dell’ideologia repubblicana a tal punto che solo alcune settimane dopo incominciarono a intuire il senso della lotta di giugno. Essi erano come storditi dal fumo della polvere in cui andava dileguandosi la loro repubblica fantastica.

L’impressione immediata che fece su di noi la notizia della sconfitta di giugno, ci permetta il lettore di riferirla con le parole della Neue Rheinische Zeitung:

«L’ultimo rimasuglio ufficiale della rivoluzione di febbraio, la commissione esecutiva, è svanito davanti alla gravità degli avvenimenti come uno scenario di nebbia. I fuochi artificiali di Lamartine si sono trasformati nei razzi incendiari di Cavaignac. Della fraternité, la fratellanza delle classi antagoniste, di cui l’una sfrutta l’altra, di questa fraternité, proclamata in febbraio, scritta a grosse lettere sui frontoni di Parigi, su ogni carcere, su ogni caserma, la vera, genuina, la prosaica espressione è la guerra civile, la guerra civile nella sua forma più terribile, nella guerra tra il lavoro e il capitale. Questa era la fratellanza che fiammeggiava su tutti i davanzali delle finestre di Parigi la sera del 25 giugno, quando la Parigi della borghesia si illuminava, mentre la Parigi del proletariato era in fiamme, grondava sangue e gemeva. Fratellanza che era durata precisamente fino a tanto che l’interesse della borghesia era affratellato all’interesse del proletariato. – Pedanti dell’antica tradizione rivoluzionaria del 1793; socialisti dottrinari, che chiedevano alla borghesia l’elemosina per il popolo e a cui era stato permesso di tenere lunghe prediche e di compromettersi fino a tanto che era stato necessario venisse ninnato nel sonno il leone proletario; repubblicani che volevano tutto il vecchio ordinamento sociale borghese, ad esclusione della sola testa del re; oppositori dinastici, ai quali il caso aveva messo tra i piedi la rovina di una dinastia invece di un cambiamento di ministero; legittimisti, che non intendevano gettare la livrea, ma modificarne il taglio; questi erano gli alleati coi quali il popolo aveva fatto il suo febbraio. – La rivoluzione di febbraio era stata la “bella” rivoluzione, la rivoluzione della simpatia generale, poiché gli antagonismi che erano scoppiati in essa contro la monarchia, sonnecchiavano tranquilli l’uno accanto all’altro, non ancora sviluppati; perché la lotta sociale che formava il loro sostrato, aveva soltanto raggiunto un’esistenza puramente aerea, l’esistenza della frase, della parola. La rivoluzione di giugno è la rivoluzione più oldiosa, la rivoluzione più antipatica, poiché al posto della frase è subentrata la cosa, perché la repubblica stessa ha svelato la testa del mostro, mentre ne abbatteva la corona che lo proteggeva e lo copriva. – Ordine! – era stato il grido di battaglia di Guizot. Ordine! aveva gridato Sébastiani, il Guizot in sedicesimo, quando Varsavia era diventata russa. Ordine! esclamava Cavaignac, quest’eco brutale dell’Assemblea nazionale francese e della borghesia repubblicana. Ordine! tuonavano le sue mitraglie mentre laceravano il corpo del proletariato. Nessuna delle numerose rivoluzioni della borghesia francese a partire dal 1789 era stata un attentato all’ordine, perché tutte avevano lasciato sussistere il dominio della classe, la schiavitù dei lavoratori, l’ordinamento borghese, benché spesso fosse cambiata la forma politica di questo dominio e di questa schiavitù. Giugno attaccò questo ordine. Maledetto sia giugno!» (Neue Rheinische Zeitung, 29 giugno 1848).

Maledetto sia giugno! ripete l’eco europea.

Il proletariato parigino era stato trascinato all’insurrezione di giugno dalla borghesia. Già in ciò era contenuta la sua condanna. Né un consapevole bisogno immediato lo aveva spinto a voler ottenere con la forza la rovina della borghesia; né esso aveva attitudine a tal compito. Il Moniteur dovette spiegargli ufficialmente che era passato il tempo in cui la repubblica considerava opportuno rendere gli onori alle sue illusioni; e ci volle la sua disfatta per convincerlo della verità che il più insignificante miglioramento della sua situazione rimane un’utopia dentro la repubblica borghese, un’utopia che diventa delitto non appena vuole attuarsi. Al posto delle sue rivendicazioni, esagerate nella forma, piccine e persino ancora borghesi nel contenuto, delle quali esso voleva strappare la concessione alla repubblica di febbraio, entrò in scena l’ardito motto di guerra rivoluzionario:

Distruzione della borghesia! Dittatura della classe operaia!

Mentre il proletariato faceva della propria bara la culla della repubblica borghese, costringeva questa a mostrarsi nella sua forma genuina: come Stato il cui fine confessato è di perpetuare il dominio del capitale, la schiavitù del lavoro. Avendo continuamente davanti ai propri occhi il suo nemico coperto di cicatrici, irreconciliabile, invincibile (invincibile nemico perché la sua esistenza è la condizione di vita di quello stesso dominio borghese), doveva, una volta sciolto da ogni catena, degenerare ben presto nel terrorismo borghese. Allontanato provvisoriamente il proletariato dalla scena, riconosciuta ufficialmente la dittatura della borghesia, gli strati medi della società borghese – piccola borghesia e classe dei contadini – nella misura in cui la loro situazione si faceva più insopportabile e più aspro il loro antagonismo verso la borghesia, dovevano sempre di più unirsi al proletariato. Come già nel suo sorgere, così ora nella sua disfatta, essi dovevano trovare la ragione della loro miseria.

Se l’insurrezione di giugno dappertutto sul continente, sollevò nella borghesia la coscienza di sé, e la spinse ad una alleanza aperta con la monarchia feudale contro il popolo, chi fu la prima vittima di tale alleanza? La stessa borghesia continentale, costretta dalla disfatta di giugno a rafforzare il proprio dominio, e a contenere sull’ultimo scalino della rivoluzione borghese il popolo, metà pacificato e metà malcontento.

Infine la disfatta di giugno svelò alle potenze dispotiche d’Europa il segreto dell’obbligo che la Francia aveva di mantenere ad ogni costo la pace con l’estero, per poter condurre la guerra civile all’interno. In questo modo i popoli che avevano iniziato la lotta per la loro indipendenza venivano dati in balìa alla prepotenza della Russia, dell’Austria e della Prussia; ma in pari tempo il destino di queste rivoluzioni nazionali, subordinato alla sorte della rivoluzione proletaria era spogliato della sua apparente autonomia, della sua indipendenza dalla grande trasformazione sociale. Né l’ungherese, né il polacco, né l’italiano possono essere liberi fino a che rimane schiavo l’operaio!

Infine, in seguito alle vittorie della Santa Alleanza, l’Europa prese una forma per cui ogni nuova insurrezione proletaria in Francia dovrà coincidere in modo diretto con una guerra mondiale. La nuova rivoluzione francese sarà costretta ad abbandonare immediatamente il terreno nazionale e a conquistare il terreno europeo, sul quale unicamente potrà svolgersi la rivoluzione sociale del XIX secolo.

Solo, dunque, la disfatta di giugno creò le condizioni entro cui la Francia può prendere in pugno l’iniziativa della rivoluzione europea – la bandiera rossa.

E noi gridiamo: La rivoluzione è morta! Viva la rivoluzione!

Note

[1] Robert Macaire è un personaggio immaginario di bandito, uomo d’affari senza scrupoli del teatro e dell’arte. Fu creato da Benjamin Antier e interpretato da Frédérick Lemaître nel dramma l’Auberge des Adrets, rappresentato per la prima volta nel 1823.

[2] Annessione di Cracovia da parte dell’Austria d’intesa con la Russia e la Prussia, 11 novembre 1846 – Guerra del Sonderbund svizzero dal 4 al 28 novembre 1847. – Sollevazione di Palermo, 12 gennaio 1848; alla fine di gennaio bombardamento della città per nove giorni da parte dei napoletani.

“Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850” di Karl Marxultima modifica: 2018-12-05T06:06:32+01:00da iskra2010
Reposta per primo quest’articolo