Il conflitto verticale

di Carlo D’Adamo

Uno degli aspetti più tragici del nostro rapporto con il mondo è la dimensione totalizzante assunta dal capitalismo: i padroni del vapore fanno quello che vogliono e, grazie al controllo dei media, raccontano quello che vogliono. Le guerre scatenate per soffocare i Paesi ricchi di materie prime vengono così giustificate ipocritamente con gli alibi sempre efficaci della difesa della democrazia, della libertà, della religione, della pace minacciata, della nostra civiltà, del nostro stile di vita.

Tutti noi ricordiamo la squallida pagliacciata all’ONU, il 5 febbraio 2003, di Colin Powell che, agitando una bottiglietta di chissà cosa – forse un succo di frutta liofilizzato, o l’ampolla della sua orina surgelata (la prima cosa che gli venne in mano frugando nello zainetto) – raccontò al mondo intero che quello era un campione di antrace, un’arma chimica di cui erano pieni gli arsenali di Saddam Hussein, il rais, già sconfitto una volta, che minacciava ancora la pace. La buffonata, tradotta dal registro di una sceneggiata da guitto al registro delle comunicazioni diplomatiche, equivaleva a dire brutalmente, in modo allusivo e minaccioso: “Abbiamo deciso di attaccare l’Iraq. Non rompete le scatole perché noi facciamo quello che ci pare. Volete delle motivazioni? Eccole: difendiamo la pace del mondo”.

Tutti i media, radio, televisioni e giornali, sottolinearono il gesto del generale Powell che agitava sotto il naso del mondo la sua provetta. Powell nel 1968 aveva già taroccato l’inchiesta sulla strage che gli USA avevano effettuato a My Lai, durante la guerra di aggressione al Vietnam; nel 1989 aveva curato l’invasione di Panama e la liquidazione di Manuel Noriega; nel 1991 aveva diretto l’operazione “Desert Storm” contro l’Iraq. Questo era l’uomo che portava ovunque nel mondo la pace americana.

Sia quelli che non gli credettero che quelli che facevano finta di credergli si adeguarono: i padroni del mondo stavano per scatenare un’altra guerra, e non c’era niente da fare. Il potere assoluto delle mafie militari non si discute, è un dio e i suoi desideri sono ordini, come dice Virgilio a Caronte, nel III canto dell’Inferno dantesco: “…Caron non ti crucciare. / Vuolsi così colà dove si puote / ciò che si vuole, e più non dimandare”.

E poiché il capitale, come istituzione totale, con il potere enorme dei suoi media è pervadente, deformante, intrusivo, condizionante, il nostro rapporto con il mondo è mediato dai suoi media: volenti o nolenti, noi leggiamo il mondo attraverso i suoi occhiali, e non sempre siamo capaci di toglierceli, per vedere meglio le cose. Anzi, dal momento che il capitale non costruisce solo una merce per un consumatore, ma anche un consumatore per quella merce – e la notizia è una merce, come la Coca Cola, una scatoletta di tonno o chi scrive la notizia – il lettore del mondo è creato proprio per leggere il mondo con gli occhiali del capitalismo e quindi con lenti deformanti.

Gli raccontano che deve essere in forma, portare a spasso il cane, adottare due gatti, consumare vegano, o, magari, comprare la jeep, guardare i film con l’home theatre – e in tutto il mondo milioni di esseri portano a spasso il cane, adottano due gatti, consumano vegano, vogliono la jeep… I persuasori occulti, con il potere enorme dei loro cookies e le risorse sempre più avanzate delle loro tecnologie, condizionano fortemente le nostre scelte, ci impongono i consumi che essi decidono per noi, determinano il nostro stile di vita, si impadroniscono della nostra identità, della nostra coscienza, di noi stessi. Se la nostra patria non è sovrana, nemmeno noi siamo padroni di noi stessi.

Il peggio è quando le vittime introiettano a tal punto il linguaggio dei carnefici da diventare fan dei propri oppressori e tifose della squadra nemica, pronte a baciare l’acquasantiera che le converte o lo scarpone che le schiaccia.

La storia è dinamica, sempre suscettibile di rivisitazioni, man mano che emergono nuovi elementi, nuovi documenti, nuove testimonianze, o quando le mutate prospettive storiche costringono a rileggere in una nuova chiave il presente e il passato.

La posizione soggettiva del ricercatore emerge sia che egli ne sia cosciente sia che non ne sia consapevole; in ogni caso la terminologia, la prospettiva, la periodizzazione, fanno parte della sua welthanschauung, e determinano il campo d’azione, il pre-giudizio che costituisce al tempo stesso la forza della sua ricerca e il limite del suo ragionamento.

Lo stesso ricercatore, a distanza di tempo, senza che intervengano fattori esterni a modificare il panorama, può mutare il suo punto di vista, perché la sua esperienza di vita e un diverso rapporto con il mondo l’hanno cambiato come persona.

In ogni caso narratore e lettore, per quanto siano diversi per valori, atteggiamenti, religione, colore della pelle, sesso e posizione lavorativa, dovrebbero cooperare per questo scopo: indagare oltre il mainstream dei media ufficiali, cercare di grattare oltre la crosta della superficie, tentando di attingere la storia in profondità.

Tra i numerosi distrattori di massa che distolgono l’attenzione dall’immane conflitto che oppone la miseria all’opulenza, la civiltà alla natura, lo sfruttamento all’onnipotenza, è molto trend il tema delle radici culturali e quindi del recupero delle tradizioni folkloriche e linguistiche locali. Si passa così dal conflitto di classe, a quello etnico, interclassista. Il conflitto vero, quello verticale, viene bypassato e si trasforma in una serie di sub-conflitti orizzontali, spesso feroci, quasi sempre motivati, ma a volte del tutto stupidi, che oppongono irlandesi a inglesi, colonizzati a invasori, italiani a ladini, ma anche paesani a cittadini, modenesi a ferraresi, laziali a romanisti.

Il paradigma del localismo, indipendentemente dalle ragioni, nobili o futili, del conflitto, scatena guerre sempre supportate dai media del potere, che armano – metaforicamente e realmente – gli uni e gli altri, quelli di qua e quelli di là… Il confine può essere dato dalla bassa linea dell’argine della golena oltre la quale si intravede il campanile del paese rivale, o dal frastagliato skyline delle montagne maestose che ci riparano dai venti e ci dividono dal nemico, lo straniero.

L’ambiguità costante del grande capitale, che non ha patria, fa venire in mente per analogia la strategia vincente della FIAT durante l’ultimo conflitto: finanziava generosamente sia i partigiani che i militi della RSI; chiunque vincesse, la FIAT avrebbe comunque vinto. Armare perdenti e vincitori, democratici e dittatori, moderati e integralisti, buoni e cattivi, permette infatti di speculare sugli uni e sugli altri, e di vincere sempre.

Per vincere, essenziale è l’apporto della grande stampa di regime, sempre pronta a sottolineare i successi e a tacere le defaillances momentanee delle élites dominanti. Se ambiguo e duplice è il progetto, omertosa e biforcuta è la lingua dei direttori dei giornali. In cambio dei loro servizi, saranno premiati e faranno carriera: Luigi Albertini, Alberto Bergamini, Benito Mussolini, Indro Montanelli, Eugenio Scalfari, Giovanni Spadolini… Contro i loro depistaggi l’invito al lettore è di farsi parte attiva, e di trasformarsi da lettore passivo – quello a cui si può propinare di tutto – in lettore-ricercatore che non ama i polveroni e va in cerca della verità.

Togliamoci gli occhiali del capitale, e guardiamo con i nostri occhi cosa c’è sotto i sassi.

Forse sotto i sassi ci sono i lombrichi e non i tesori.

Il conflitto verticaleultima modifica: 2019-06-14T06:56:06+02:00da iskra2010
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