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Chi si ricorda della “qualità totale” Fiat anni 90?

di Angelo Ruggeri


Il predominio di maggioranza è l’opposto della democrazia

Dalla “demos-kratos” al “dictator” per trasferire la “qualità totale” della Fiat alle istituzioni col predominio del potere degli esecutivi (di stato ed enti locali, d’impresa, di partiti e sindacati) e di sindaci, “governatori” e premier, sulle assemblee e sulla democrazia di base organizzata

DALL’AZIENDALISMO AL LEGHISMO AL POTERE OLIGARCHICO DALL’ALTO. La parola “democrazia” significa “autogoverno del popolo“, dal greco “demos” che significa “popolo” e “kratos” che vuol dire potere. Si contrappone da sempre all’altra parola di derivazione latina “dictator”, figura che si eleggeva a Roma in caso di guerra indicante appunto il “dittatore”. Nonostante lo stato di necessità determinato dalla guerra, i romani erano però tanto diffidenti verso il potere personale, che la legge prescriveva che il “dittatore” non poteva restare in carica per più di sei mesi e comunque ne metteva due per un reciproco controllo. In ogni caso, comunque, il termine “dittatura” ha sempre valso a designare il potere esercitato dal singolo

I greci addirittura, proprio perché la presenza di un “presidente del consiglio”, costringeva l’assemblea dei 500 rappresentanti del popolo al massimo a parlare ma non a collaborare sostanzialmente al governo dello stato, come invece la “demoskratia” vuole, abolirono ogni forma di potere personale e, con esso, la figura stessa del presidente (del consiglio o dello stato) ed anche l’esecutivo di governo.

 

un presidente del consiglio al giorno un governo diverso ogni mese per abolire il potere personale e degli esecutivi

 

Divisero l’assemblea rappresentativa in 10 gruppi di 50 membri e ognuno di essi, per 36 giorni a rotazione nell’arco dell’anno, fungeva da “esecutivo”. Ogni giorno il comitato esecutivo in carica nei suoi 36 giorni eleggeva il presidente del consiglio che durava in carica solo per quel giorno, annullando cosi ogni possibilità di primato sia degli esecutivi che del singolo sull’assemblea dei rappresentanti del popolo.

Si aggiunga, inoltre, che nessun provvedimento del governo e dell’assemblea poteva essere attuato, se prima non veniva approvato dall’assemblea generale di tutto il popolo. Insomma un intreccio tra democrazia rappresentativa (l’assemblea parlamentare) ed esercizio di un potere dal basso organizzato (l’Assemblea del popolo), che aveva, coerentemente con il significato della parola “democrazia”, lo scopo di impedire il governo dall’alto, di uno su tutti o di pochi su molti, affermando un potere e attuando il principio secondo cui, in quanto “esecutivo”, il governo non deve comandare ma deve “ubbidire” al popolo e da esso dipendere, sempre e non solo nel giorno delle elezioni.

 

un confronto storico

 

Da allora, la storia dell’umanità ha visto un continuo confronto per realizzare, mutatis mutandis, forme di potere che si avvicinassero quanto più possibile, o al modello della “demoskratia” o a quello del “dictator”, al governo del popolo e di tutti o al governo di uno e di pochi. A seconda che una “forma di governo” si avvicini di più o di meno ad uno di questi due poli, si può valutare se essa è “tanto più” o “tanto meno” democratica di altre. Parimenti, da ciò nasce la distinzione tra “riforme” e “controriforme” dove invece, nella confusione mistificatoria oggi in uso, il primo termine é usato indistintamente anche per indicare modifiche che si connaturano con il secondo.

La nostra Costituzione nata dalla Resistenza è forse quella che, in forme moderne, più si avvicina ai principi della democrazia dell’antica Grecia, con cui il proletariato (altra parola di origine antica) ha allora potuto governare democraticamente, per oltre 150 anni. Tanto che la Costituzione italiana è sempre stata considerata la più democratica e avanzata fra tutte.

Se pensare ed agire significa ricavare le conseguenze logiche dalle premesse e se quindi le parole hanno e debbono avere un senso e, fuori da ogni subalternità di senso comune si deve correttamente aver chiaro che, tutte quelle proposte che mirando all’abolizione della proporzionale e alla elezione diretta dei sindaci, o del presidente della regione o del Consiglio o dello stato, non sono “riforme” ma bensì “controriforme” che realizzano forme di potere verticistici e istituzionali dall’alto, di uno o di pochi sui molti.

Anche per questo, rispetto alla Costituzione vigente, sono anticostituzionali tutte le proposte che muovono in questa direzione presidenzialistica del rafforzamento degli esecutivi, come la elezione diretta del sindaco e il ricorso a meccanismi maggioritari e/o uninominali. E tali sono tutte le proposte che si collocano in questo solco indipendentemente dal fatto che taluno accentui e talaltro meno questi aspetti. E indipendentemente dalla varietà delle forme “tecniche” su cui ci si può sbizzarrire ma che mantengono il segno direzionale di un potere di pochi che muove dall’alto al basso, e che storicamente si chiama oligarchia, rovesciando quello di un potere della sovranità popolare e di tutti dal basso verso l’alto e che si chiama democrazia.

Sono anticostituzionali non tanto o non solo da un punto di vista formalistico-giuridico a cui ci si appella, solo perché si tratta di leggi che non vengono introdotte con delle procedure di modifica costituzionale: “formalismo” infondato, oltretutto, perché già la Corte Costituzionale ha respinto una volta i referendum contro la proporzionale e non è detto che debbano per forza passare adesso.

Sono anticostituzionali soprattutto da un punto di vista non della “tecnica” giuridica, ma della materia costituzionale, come è il caso dei progetti di legge già approvati dal Senato – con la complicità di “pidiessini” e “retini” – che determinano una “rottura costituzionale”, cambiando la “regola delle regole”, cioè quella prevista dall’art. 138 per le modifiche costituzionali, senza seguire le procedure in esso previste.

esecutivi trasformati in direttivi delle Assemblee affossano la Costituzione nata dalla Resistenza

Se dovessimo accettare come costituzionale tutto quello che una maggioranza parlamentare delibera, solo perché una “ammucchiata” di partiti così vuole, non ci sarebbe bisogno di regole costituzionali: basterebbe stabilire che il Parlamento decide a maggioranza tutto ciò che vuole. Mentre, oltretutto, tutti sanno che il “principio di maggioranza” non coincide di per sé con la “demos-kratia“. Se questa fosse la logica “formalista” a cui richiamarsi, dovrebbero considerarsi “costituzionali persino progetti di legge come quelli sui “pieni poteri” richiesti da Amato. Mentre tutti sanno che i pieni poteri al governo stravolgerebbero completamente l’impianto costituzionale e, quindi, non possono essere oggetto di legge ordinaria. Il punto è che in un regime di governo-parlamentare, la forma della legge elettorale non può che essere “proporzionale”. Perché ci sono “due” concezioni dell’organizzazione politica: una “maggioritaria” in base alla quale chi vince prende tutto, governa e la minoranza va a caso fino a quando, e se, diventerà mai “maggioranza”; l’altra è quella della “democrazia consensuale” e parlamentare, secondo cui occorre il riconoscimento del pluralismo e il pluralismo proporzionale nella composizione dell’assemblea parlamentare per poter attuare il governo di tutto il popolo della “demoskratia”. Per questo la commissione costituente nel ’48 ha deliberato la legge elettorale proporzionale per tutte le elezioni dell’epoca, senza contare poi che la regola della proporzionalità è esplicitamente indicata in diversi punti dalla Carta.

Esistono solo due forme dì potere: quella che va dall’alto in basso, e che si chiama “oligarchia” e che spesso ricorre al principio di maggioranza come forma di decisione (anche la Chiesa e il fascismo decidevano a maggioranza al loro interno) e quella che va dal basso in alto, e che si chiama “democrazia”. Non è quindi accettabile che si diano per “legittime” tutte le proposte, come se fosse solo un problema “tecnico” rispetto a cui ciò che conta è stabilire se funziona meglio l’una o l’altra. Occorre vedere a quali “valori” si riferiscono le varie soluzioni cosiddette “tecniche”. E’ importante vedere in quale direzione vanno e sotto quale “segno” si muovono. E la proposta del sindaco elettivo non si muove certo sotto il segno della riforma “demos-kratia”, ma sotto quello della controriforma del “dictator”, cioè di un potere esercitato dal singolo, in cui uno comanda e tutti gli altri ubbidiscono.

Il comune come luogo sociale per definizione

Il “sindaco elettivo” non è altro che “la qualità totale” trasferita dalla Fiat al comune. E’ un “padrone elettivo”, in cui la natura padronale, cioè esclusiva, personale e assoluta, non è minimamente scalfita dalla “eleggibilità”, in quanto è un potere che non è giuridicamente responsabile verso nessuno.

E in verità, il modello dell’impresa è stato esplicitamente evocato da chi, sostenendo le proposte della “Rete” si è lasciato scappare che, in fondo, il problema è quello di avere un “governo” che “governi” (il contrario dei fondatori della demos-kratia) e un comune che sia una “azienda”.

Invece, secondo la Costituzione, il governo non deve “governare”, ma deve fare quello che non ha mai fatto: il capo della pubblica amministrazione per dare attuazione ed eseguire quanto deliberato del Parlamento. Spetta al Parlamento “governare” insieme al governo che è il suo esecutore-esecutivo. Proprio da qui nasce la degenerazione, da esecutivi che si sono trasformati in direttivi delle Assemblee.

 

Ma, se è possibile, è ancor più grave pensare al comune come ad una “azienda”. Perché se c’è un luogo dove tutto è sociale, è proprio il territorio comunale. Dove lavora, vive, mangia, agisce, studia, il lavoratore e il cittadino se non sul territorio? Il comune o è sociale o non è. Ed è proprio per socializzare lo stato che la Costituzione ha definito il comune come “comunità”, luogo della società e della socialità, in una “Repubblica delle autonomie” in cui il comune è stato esso stesso.

 

Perché lo stato non è inteso come “persona giuridica”, ma come “ordinamento”, formato appunto da tutti i livelli del potere istituzionale (regione, province, comune), di cui il comune e la più importante cellula, proprio perché espressione degli interessi sociali della comunità, ai cui valori – e non a quelli antisociali dell’impresa – si ispira la nostra Costituzione, che è per ciò quanto di più “antileghista” si possa immaginare. Di più: come dicono i francesi : “il comune deve stare alla democrazia come la scuola di base sta all’istruzione“.

 

Non è certo l’azienda il “modello” di socialità e democrazia. Lo sanno bene tutti coloro che sul territorio comunale, ogni giorno, vedono calpestati i loro diritti sociali costituzionalmente garantiti, come l’istruzione, la sanità e la salute, l’assistenza e l’occupazione e il lavoro, proprio in nome della logica aziendalistica che pervade la gestione dello stato, delle regioni e dei comuni con cui, secondo la logica economicistica e privatistica dei costi e dei ricavi, si giustificano tagli alle spese e agli investimenti sociali.

 

Basterebbe ricordarsi di questo per battersi contro l’assimilazione del comune ad una azienda e, dunque, contro l’introduzione di un “padrone” nel luogo della socialità istituzionale, proprio quando ideologicamente si teorizza che il “padrone” non esisterebbe più nemmeno là dove la Costituzione e la democrazia non sono mai entrate: nelle aziende e nelle imprese.

Chi si ricorda della “qualità totale” Fiat anni 90?ultima modifica: 2011-02-14T01:10:00+01:00da
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