Trattativa Stato mafia…

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26.6.12

La trattativa e le mutande dei boss

La lettera contro il 41 bis e le bombe

di Marco Lillo 

Questa è la storia di una trattativa iniziata con una lettera dei familiari dei boss in cui si parla di mutande e biancheria per far calare le braghe allo Stato. Una trattativa che la pubblicistica in voga vorrebbe sia stata chiusa dall’allora ministro Giovanni Conso con il rilascio di 334 mafiosi, usciti dal regime dell’isolamento nel novembre del 1993 e che invece potrebbe essere ancora aperta, come dimostra la storia di una strage mancata durante una partita di calcio: Roma-Udinese del 23 gennaio 1994.

OGGI PUBBLICHIAMO i documenti che dovrebbero aprire e chiudere le danze della partita a scacchi tra istituzioni e corleonesi, cioè la lettera dei familiari dei detenuti nelle supercarceri spedita nel febbraio 1993 e l’elenco dei ‘graziati’ di Conso del novembre 1993 più altri documenti disponibili sul sito internet Il  fattoquotidiano.it   che scandiscono i momenti cruciali di quel periodo in cui la storia della mafia e quella della repubblica si sono intrecciate inscindibilmente.

Il punto di rottura degli equilibri decennali tra Stato e mafia è il 31 gennaio del 1992, quando la Cassazione infligge migliaia di anni di carcere ai boss mafiosi imputati al maxi-processo. Il 12 marzo Cosa Nostra uccide Salvo Lima. Il 23 maggio salta in aria la staffetta della scorta di Giovanni Falcone e l’onda d’urto travolge anche l’auto blindata che ospita il giudice e la sua compagna. I boss fanno circolare un elenco di vittime possibili, tra queste spiccano gli ex ministri Salvo Andò e Calogero Mannino. I Carabinieri del ROS, guidati dal generale Angelo Subranni, avviano i contatti con il Consigliori dei corleonesi, Vito Ciancimino. Paolo Borsellino, secondo  le testimonianze più recenti in qualche modo è informato. Di certo, dicono tutti i suoi colleghi e amici, si sarebbe opposto con tutta la sua forza a qualsiasi forma di cedimento alla mafia. Secondo i giudici di Caltanissetta, Borsellino sapeva che lo Stato stava scendendo a patti con Cosa Nostra e anche per questa ragione, in quanto si sarebbe opposto, è stato ucciso il 19 luglio del 1992 a via D’Amelio. Cosa Nostra però non si ferma e porta il suo attacco nel “continente”. Il 14 maggio del 1993 c’è l’attentato a Maurizio Costanzo a Roma. Il 27 maggio le stragi di Firenze e Milano e il 28 luglio l’attentato contro le chiese a Roma. Prima dell’avvio di questa seconda ondata di bombe però era arrivato un segnale che solo recentemente è stato valorizzato grazie al libro di Sebastiano Ardita, magistrato di grande esperienza, oggi procuratore aggiunto a Messina e per molti anni al Dipartimento Amministrazione Penitenziaria, il Dap. Nel libro Ricatto allo Stato, Ardita racconta che nel febbraio 1993 arriva una strana lettera al presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro: “Siamo un gruppo di familiari di detenuti che sdegnati e amareggiati da tante disavventure” è l’incipit. I familiari chiedono al presidente: “quante volte in una settimana Lei cambia la biancheria intima? Quante volte cambia le lenzuola? Lo sa quanta biancheria in un mese noi possiamo portare al nostro congiunto? Soli cinque kg”. Poi si lamentano dei secondini di Pianosa, definiti “sciacalli” e chiedono di “togliere gli squadristi del dittatore Amato”, Nicolò Amato direttore del Dap allora. A impressionare sono gli indirizzi a cui la lettera al presidente, che non si trova negli archivi del Quirinale secondo quello che dice al telefono mentre è intercettato, il consigliere del Capo di Stato, Loris D’Ambrosio, è spedita: il Papa, il Vescovo di Firenze e, tra gli altri, Maurizio Costanzo, oltre a Vittorio Sgarbi e ad altre istituzioni. L’elenco impressiona perché i destinatari sembrano altrettanti messaggi in codice decrittati poi dalle bombe contro Costanzo prima, a Firenze poi e infine davanti al Vicariato di Roma. Lo Stato cede: già nel giugno del 1992 il nuovo capo del DAP Capriotti (Amato è sostituito come chiedevano implicitamente i familiari) chiede al capo di gabinetto del ministro della Giustizia di non prorogare i decreti per il 41 bis a centinaia di detenuti per i quali il trattamento di isolamento era in scadenza.

A NOVEMBRE del 1993, con una scelta della quale si è assunto la responsabilità davanti ai magistrati, l’allora ministro Giovanni Conso lascia decadere il 41 bis per ben 334 detenuti. Tra questi boss del calibro di Vito Vitale di Partinico e Giuseppe Farinella che poi insieme ad altri 50 detenuti torneranno negli anni successivi al regime che gli spettava.

Queste carte mostrano un segmento importante della sequenza, ma da sole non bastano a spiegare quello che è successo nel braccio di ferro tra mafia e Stato. Non è un caso se nella contestazione del reato di minacce a corpo dello Stato contro il senatore del Pdl Marcello Dell’Utri (stessa accusa contestata anche per Calogero Mannino, all’ex capo del Ros dei Carabinieri Antonio Subranni, al suo vice dell’epoca Mario Mori e all’allora capitano Giuseppe De Donno) non sia definito dalla Procura di Palermo il momento in cui sarebbe terminata la cosiddetta trattativa, che sarebbe meglio definire minaccia allo Stato.

Che la partita a scacchi sia rimasta aperta anche dopo la resa di Conso nel novembre 1993, lo dimostra proprio  un’altra partita, stavolta di calcio, ignorata dai giornali di destra e dai politici del Pdl che vorrebbero attribuire la responsabilità del cedimento scellerato dello Stato (che pure per la Procura di Palermo ci fu) solo e soltanto all’ex ministro Conso, governo Ciampi, quindi uomo del centrosinistra.

La partita che fa saltare questo schema è Roma-Udinese del 23 gennaio 1994. Quel giorno, come ha raccontato  Gaspare Spatuzza al processo Dell’Utri, dovevano saltare in aria un centinaio di carabinieri. Per fortuna il telecomando non funzionò, ma quel tentativo di strage dimostra che la mafia non era affatto soddisfatta dei 334 detenuti ‘liberati’ dal 41 bis. La trattativa non si chiude a novembre del 1993 e forse non si è chiusa ancora oggi.

 

 

Contrada e la grazia sfiorata

Il documento del consigliere di Napolitano. Poi tutto saltò

di Sandra Amurri

 

La conferma ufficiale che il Quirinale si attivò per la concessione della grazia a Bruno Contrada – numero tre del Sisde, condannato a 10 anni in via definitiva per concorso esterno in associazione mafiosa – è la lettera che qui pubblichiamo a firma Loris D’Ambrosio, consigliere giuridico del Presidente Napolitano, che l’avvocato difensore Giuseppe Lipera riceve il 24 dicembre 2007. D’Ambrosio lo informa che a seguito della sua lettera il Capo dello Stato si è attivato per dare avvio all’iter istruttorio per la grazia investendo l’allora ministro della Giustizia Clemente Mastella. Lo stesso Mastella, che oggi da noi interpellato risponde di non ricordare di aver avuto tra le mani questa richiesta. “Presi quella risposta come un regalo di Natale” dice Lipera che il 20 dicembre aveva inviato a Napolitano una missiva implorante in cui evidenziava lo stato di prostrazione del suo assistito sottolineando che Contrada, ritenendosi vittima di un errore giudiziario, la grazia mai l’avrebbe chiesta, anzi, si sarebbe aspettato un riconoscimento dallo Stato per averlo servito e precisando che l’atto di clemenza può esser concesso anche in assenza di “domanda o proposta”.

MA A DISTANZAdi due giorni dalla lettera di D’Ambrosio, il Quirinale fa marcia indietro. Cosa è accaduto? Rita Borsellino, rientrando a casa aveva letto la notizia su Televideo e subito aveva dichiarato all’Ansa che era una cosa sconcertante. Passano pochi minuti e riceve la telefonata di Napolitano al quale lei ripete lo stesso concetto. Il Presidente le ripete: “Conosco quali sono le mie prerogative”. A quel punto la Borsellino diceva alle agenzie: “Ho parlato ora con Napolitano, mi sono tranquillizzata”. Da quella volta, racconta la sorella del giudice, il Presidente in occasione di incontri ufficiali le ha sempre mostrato freddezza. Lipera legge l’agenzia di quel giorno, si mette in allarme e all’Ansa a sua volta annuncia: “Domani andrò a parlare con il Presidente”. Il 31 dicembre 2007, infatti, senza alcun appuntamento, Lipera si presenta al Colle. A riceverlo, D’Ambrosio: “La stavamo aspettando” e imbarazzato prosegue: “Quella cosa non va più bene perché il suo cliente sta dicendo che non chiederà mai la grazia”. Lipera ricorda all’interlocutore di averlo già scritto nella sua lettera e che questo non aveva impedito al Presidente di avviare l’iter visto che l’avrebbe potuta concedere di sua sponte. Infine, gli fa notare come tutto quello che sta sostenendo contraddica il contenuto della lettera che porta la sua firma. D’Ambrosio resta muto. Era stata la telefonata di Rita Borsellino a far fare marcia indietro al Quirinale? Uscito dal  Colle, l’avvocato Lipera legge sul Corriere della Sera un articolo dal titolo: “La supplica del difensore non più interpretabile come richiesta di clemenza dopo le dichiarazioni di Contrada” in cui si anticipa il colloquio con D’Ambrosio, appena terminato, dando del contenuto però una versione diversa. Il Corsera scrive: “Napolitano ha comunicato a Mastella, che ne ha già preso atto, che non debba avere ulteriore corso la procedura aperta a seguito della ‘implorazione-supplica’ inviata dall’avvocato Lipera” in quanto “essendo venute meno le condizioni  formali, la volontà manifestata dal dottor Contrada di non voler chiedere un atto di clemenza oltre al preannuncio della presentazione di un ricorso per la revisione della condanna”. “Io non ho mai chiesto la grazia, ho sollecitato il Presidente ad avviare un procedimento di sua iniziativa”.

 

ORA OCCORRE fare un passo indietro. Il primo luglio 1992, giorno di insediamento di Nicola Mancino al ministero dell’Interno, Paolo Borsellino sta interrogando il boss Gaspare Mutolo e riceve una telefonata, così come lo mette a verbale proprio il pentito: dobbiamo interrompere, dice Borsellino, Mancino mi vuole incontrare. Si reca al Viminale assieme al procuratore aggiunto Aliquò. Borsellino entra e lui aspetta fuori. Incontro che Mancino ha sempre negato. Mutolo racconterà che Borsellino al suo ritorno esclamò: “Mi hanno fatto trovare Contrada! ”. Quello stesso Contrada che Mutolo stava indicando come colluso con il boss Rosario Riccobono. Un nome che inquietava particolarmente il giudice. Un giorno la figlia Lucia gli chiese: “Papà chi è quel Contrada di cui ho sentito parlare in tv? ”. Borsellino, sebbene in famiglia evitasse ogni riferimento al suo lavoro,  rabbuiandosi rispose: “Dove hai sentito questo nome? Solo a farlo si può essere ammazzati”. Il 5 giugno scorso, la Seconda Sezione Penale della Cassazione ha confermato il no alla revisione del processo per il numero tre del Sisde: “Contrada non è vittima di un complotto dei pentiti”. Eppure ha rischiato di essere graziato.

 

 

Patto con la mafia, il cedimento della sinistra”

L’inchiesta di Caltanisetta: “Ci fu una doppia morale, stagione ingloriosa per le istituzioni”

di Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza

 

Tra mancate proroghe e decreti revocati, nella stagione delle bombe del ’93, il ministero della Giustizia cancella 520 provvedimenti di 41 bis, quasi il 50% di quelli deliberati l’anno precedente. C’è da chiedersi, scrive la Procura di Caltanissetta, “se questo non sia stato il prezzo della trattativa pagato dallo Stato per far cessare le stragi’’. Ecco perché, scrivono il procuratore nisseno Sergio Lari, gli aggiunti Nico Gozzo e Amedeo Bertone, i pm Nicola Marino, Gabriele Paci e Stefano Luciani, nella richiesta di custodia cautelare che riassume tre anni di  indagine sulla strage di via D’Amelio, quella della trattativa è stata una “stagione ingloriosa per lo Stato italiano”. In quella richiesta gli inquirenti ricostruiscono, in oltre trecento pagine, tutte le ombre sugli apparati delle istituzioni impegnati a fermare il tritolo, nei mesi della campagna stragista contro il patrimonio artistico. E se a differenza dei colleghi di Palermo, i pm nisseni non giungono a conclusioni penalmente rilevanti, chiedendo di archiviare le posizioni dei protagonisti istituzionali del dialogo con Cosa Nostra (come ha rivelato il procuratore Pietro Grasso nell’intervista al Fatto Quotidiano del 19 giugno scorso), mostrano di avere le idee chiare nella ricostruzione delle loro carte sull’identità politica di chi ha trattato.

 

QUESTA TRATTATIVA – spiegano i pm di Caltanissetta – era stata letta da Cosa Nostra come un segnale di grande debolezza della controparte statale”, che “almeno nella prima parte della trattativa, pare appartenere a quella che Giovanni Brusca definisce la sinistra, in essa ricomprendendo la sinistra Dc e la sinistra vera e propria, proprio quella che apparentemente aveva più volte difeso le inchieste del dottor Falcone e del dottor Borsellino”. Ma anche quella sinistra che, come ha detto l’ex Guardasigilli Claudio Martelli, “in una sua parte aveva frapposto importanti ostacoli alla conversione del decreto dell’8 giugno ’92 (l’introduzione del 41 bis, ndr) e prima ancora all’istituzione della Procura nazionale Antimafia’’. Ed è a questo punto che i pm di Caltanissetta precisano che “nessuna responsabilità penale è stata accertata a carico di personalità politiche e istituzionali in quella che può definirsi la strategia stragista di Cosa Nostra nel ’92’’. L’altra certezza raggiunta dalla procura nissena è che Paolo Borsellino abbia saputo della trattativa e che la sua posizione in merito “sia stata interpretata, o riportata da qualcuno anche in maniera colposa, in modo da farlo ritenere un ostacolo o un muro da abbattere per poter arrivare ad una conclusione soddisfacente per Cosa Nostra della trattativa”. Ecco, secondo i pm nisseni, la ragione della memoria a orologeria. Nessuno dei protagonisti di quei giorni, né gli ex ministri Nicola Mancino, Giovanni Conso, Claudio Martelli, né i funzionari del Dap Nicolò Amato, Adalberto Capriotti, Edoardo Fazzioli, Francesco Di Maggio, Andrea Calabria, né gli ex presidenti del consiglio Giuliano Amato e Carlo Azeglio Ciampi, né il presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, ha piacere di ammettere di essere stato “testimone silente di comportamenti che, seppure posti in essere da altre persone, possano aver spinto Cosa Nostra ad accelerare l’eliminazione di Borsellino”.

 

LA PROCURA di Lari disegna, insomma, il volto ambiguo di uno Stato dalla “doppia morale”. Se da una parte le istituzioni “a parole, e sui quotidiani, dispensavano lezioni di antimafia… nel chiuso delle stanze di alcuni membri del governo e di alcuni alti dirigenti della pubblica amministrazione si discusse approfonditamente cosa fare del regime del 41 bis, o meglio di come disfarsene a poco a poco, senza che la cosa venisse percepita all’esterno”. Davanti alle esplicite richieste provenienti dalle carceri di attenuare il regime di detenzione dura, e dopo l’uccisione di alcuni agenti carcerari, la situazione dei detenuti mafiosi viene rappresentata come “esplosiva”, al punto da temere che potesse “infiammare” anche l’ordine pubblico all’esterno. Per questo motivo, a solo un anno dalle stragi di Capaci e di via D’Amelio, sottolinea la procura di Caltanissetta “lo Stato, nella specie alcuni dei suoi uomini più importanti, pensa di arretrare di fronte alla offensiva mafiosa”.

 

 

Da Brancaccio alla camorra: lo strano condono del carcere duro

 

Per “dare un segnale di distensione’’ Conso ne revocò 334, “in assoluta solitudine’’ e contro il parere della Procura generale di Palermo, all’inizio del novembre del ’93: ma 51 di quei provvedimenti di applicazione del 41 bis vennero successivamente riapplicati a conferma che la pericolosità dei detenuti cui era stato tolto il carcere duro non era stata attentamente valutata da chi aveva il dovere di farlo. E che quella decisione, come sostengono le procure di Palermo e Caltanissetta, era stato il prezzo pagato dallo Stato nella trattativa con Cosa  Nostra. Tra i detenuti tornati al 41 bis, oltre al bandito milanese Renato Vallanzasca, c’erano pezzi da novanta di Cosa Nostra, ‘ndrangheta, camorra e sacra corona unita. Nell’elenco dei 51 figura il nome di Diego Di Trapani, suocero del boss Salvatore Madonia, ritenuto corleonese di antica osservanza e boss di rilievo della famiglia di Resuttana (Palermo), 76 anni, scarcerato nel 2006. E poi Giuseppe Giuliano, inteso ‘’Folonari’’, uomo d’onore di spicco della famiglia di Brancaccio, arrestato negli anni 80 con una magnum 357 e guanti da chirurgo mentre faceva la staffetta da un’auto sfuggita alla polizia. E Giuseppe Farinella, anziano patriarca delle Madonie, coinvolto, come componente della commissione provinciale di Cosa Nostra nella stagione stragista. Nell’elenco c’è anche il nome di Giuseppe Grassonelli, coinvolto nella strage di Porto Empedocle (Agrigento) e di Cesare Bontenpo Scavo, il capo della banda di estortori tortoriciani che misero a ferro e fuoco la cittadina tirrenica di Capo d’Orlando da dove partì la riscossa civile dell’Acio, la prima associazione anti-racket d’Italia oggi guidata da Sarino Damiano ed Enzo Mammana. Al 41 bis era tornato anche il boss di Ponticelli Giuseppe Sarno, riarrestato il mese scorso, e l’esponente della sacra corona unita Giuseppe Capriati, di Bari.

g.l.b. e s.r. 

 

 

Giovanna Maggiani Chelli, Associazione via dei Georgofili

I nostri figli sono morti di Stato?”

di Enrico Fierro

 

La strage dei Georgofili fu la strage del 41 bis, il carcere duro, che i boss volevano eliminare”. 26 maggio 1993, Cosa Nostra di rito corleonese, forse con l’aiuto o l’assenso di altre “entità” ancora sconosciute, semina il terrore a Firenze. I morti sono cinque, i feriti, alcuni gravissimi, 48. Da allora Giovanna Maggiani Chelli e i familiari delle vittime non si sono fermati un attimo per ricostruire fino in fondo le responsabilità, soprattutto istituzionali, di quell’eccidio. “Ora, grazie all’inchiesta della Procura di Palermo, ne sappiamo di più e possiamo dire che avevamo visto giusto. E con noi il pm Gabriele Chelazzi. Quanti silenzi, quante coperture eccellenti. Ecco, se potessi mandare un messaggio al senatore Nicola Mancino, gli direi di onorare la sua vita e gli anni passati al vertice di istituzioni importanti. Lasci che la legge faccia il suo corso, lasci dire una parola definitiva ai processi dove potrà intervenire e difendersi. Non li ostacoli chiedendo l’intervento e la protezione del Quirinale. Ricordo che nel 1997 lo incontrai a La Spezia dove lui era presente per un convegno, gli chiesi cosa sapeva delle stragi, lui mi rispose che la matrice era certamente mafiosa. Il quadro che emerge oggi ci parla anche di pesanti responsabilità e coperture istituzionali”. La signora Maggiani Chelli conosce gli atti dell’indagine di Firenze a memoria. “Le trattative tra Stato e mafia sono almeno due. La prima trattativa è quella che viene fuori dai rapporti tra il mafioso Antonino Gioé e Paolo Bellini, un uomo di Cosa Nostra e un personaggio coinvolto in mille trame oscure e ritenuto vicino ad ambienti dei servizi segreti. Bellini propone a Gioé una sorta di scambio, il boss chiede l’alleggerimento delle condizioni di carcerazione per cinque detenuti. Si tratta di boss anziani, tra questi anche il padre di Giovanni Brusca. Bellini si consulta con qualcuno (non sappiamo chi e soprattutto quale ruolo ricopriva) e torna da Gioé con un no. A quel punto il mafioso butta lì la famosa frase: e che ne dite se domani non trovate più la Torre di Pisa?”. È la strategia della tensione mafiosa. Bombe e mano tesa. “Se vuoi la pace prepara la guerra”, teorizza Totò Riina con i suoi. “E quindi il famosissimo papello con le richieste allo Stato. Non dimenticate che è lo stesso Riina a dire che si sono fatti sotto, riferendosi evidentemente a pezzi dello Stato che avevano avanzato offerte. Forse ci stiamo avvicinando alla verità. Noi vogliamo sapere se i nostri figli sono morti perché lo Stato era colluso, e Dio non voglia per il futuro di questo Paese, o perché qualcuno non è stato in grado di gestire la trattativa con la mafia. Speriamo solo che non vi siano altre interferenze. Quando Mancino si è rivolto al consigliere giuridico del Presidente Napolitano, ci saremmo aspettati una sola risposta: senatore, lasci lavorare la magistratura. Così non è stato. Ne prendiamo atto, sapendo che in questo modo si mettono dei freni all’accertamento della verità. E una democrazia senza verità muore”. 

 

 

 

Giornalisti o corazzieri?

di Antonio Padellaro

 

Più che ai tanti messaggi di apprezzamento per gli articoli del Fatto sugli interventi debiti e indebiti del Quirinale nell’indagine sulla trattativa Stato-mafia, risponderò alle critiche di altri nostri lettori. Essi, in sostanza, esprimono il timore che per una “tempesta in un bicchier d’acqua” (Giglioli), per “vaghe illazioni” (Piovani e Leghissa) o anche per una giusta “ricerca della verità” (Peschiera), si possa indebolire la figura del Capo dello Stato “in un momento drammatico” della vita democratica del nostro Paese. Si tratta della stessa obiezione che illustri commentatori hanno sviluppato con estremo vigore di fronte alle polemiche politiche divampate sulle telefonate del Colle. Valga per tutti l’acuto grido di allarme di Eugenio Scalfari su Repubblica del 21 giugno scorso: “Si tenta di indebolire il Quirinale, non per queste ragioni pretestuose, ma per creare una situazione di marasma al vertice delle istituzioni dalla quale deriverebbe inevitabilmente la caduta del governo Monti”. I nostri lettori non arrivano a immaginare tali “oscure manovre”, ma il loro disagio è palpabile. Ma come – rimproverano – Napolitano è stato l’unico baluardo allo strapotere di Berlusconi, quello che lo ha mandato a casa su due piedi e ora ve la prendete con lui mentre la destra “cerca di riguadagnare terreno” e l’Italia rischia la bancarotta? Potremmo rispondere che il grido “Annibale è alle porte” (anche quando non lo è) è sempre stato qui da noi l’alibi più efficace per nascondere piccole e grandi nafandezze. E che, in nome dell’emergenza continua, nel nostro amato Paese si fanno e si disfano governi e, all’occorrenza, si tratta anche con Cosa Nostra. Questa volta, comunque, l’emergenza riguarda gran parte dell’Europa. Dove, tuttavia, non risulta che a causa della crisi  dell’euro le istituzioni siano diventate improvvisamente intoccabili. Dentro la voragine bancaria, per esempio, la Spagna è andata tranquillamente a elezioni e l’amato re Juan Carlos, mazzolato dai giornali per gli allegri e costosi safari, ha dovuto chiedere scusa al popolo. In Islanda, il premier della bancarotta è finito giustamente in un’aula di tribunale. In Germania, il capo dello Stato è andato a casa per un piccolo prestito agevolato alla moglie. E perfino la catastrofica Grecia ha cambiato tre Parlamenti in pochi mesi senza per questo arrivare alla guerra civile. Come si dice: è la democrazia, bellezza! Solo in Italia i politici furbacchioni, ogni volta che vengono presi in castagna, si mettono a strillare “fermi tutti che la casa brucia!” e magari l’incendio l’hanno appiccato loro. Non è il caso di Napolitano, ma del coro che lo circonda ogniqualvolta viene messo in discussione lo status quo, il potere costituito (da loro). E quindi, per quanto ci riguarda, non può esserci emergenza che tenga di fronte al nostro lavoro che consiste nel dare le notizie. Continueremo a pubblicarle sul Fatto senza domandarci a chi giovano e a chi no. Cari lettori, lo sapete, siamo giornalisti, non corazzieri ad honorem. 

 

Governo di Giuliano Amato 28 giugno 1992 28 aprile 1993

 

Presidente del Consiglio dei ministri

Giuliano Amato (PSI)

Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei ministri

Fabio Fabbri (PSI)

Ministri senza portafoglio

Affari sociali

Adriano Bompiani (DC)

Aree urbane

Carmelo Conte (PSI)

Coordinamento politiche comunitarie e Affari regionali

Raffaele Costa (PLI) fino al 21/02/93

Gianfranco Ciaurro (PLI) dal 21/02/93

Coordinamento della Protezione civile

Ferdinando Facchiano (PSDI)

Riordino delle partecipazioni statali

Paolo Baratta (Indipendente) dal 21/02/93

Ministeri

Affari esteri

Ministro

Vincenzo Scotti (DC) fino al 29/07/92

Giuliano Amato ad interim dal 29/07/92 al 01/08/92

Emilio Colombo (DC) dal 01/08/92

Sottosegretari

Carmelo Azzarà (DC), Giuseppe Giacovazzo (DC), Valdo Spini (PSI)

Interno

Ministro

Nicola Mancino (DC)

Sottosegretari

Saverio D’Aquino (PLI), Claudio Lenoci (PSI), Antonino Murmura (DC)

Grazia e Giustizia

Ministro

Claudio Martelli (PSI) fino al 10/02/93

Giovanni Conso (Indipendente) dal 12/02/93

Sottosegretari

Germano De Cinque (DC), Daniela Mazzuconi (DC)

Difesa

Ministro

Salvo Andò (PSI)

Sottosegretari

Salvatore D’Alia (DC), Dino Madaudo (PSDI)

Bilancio e Programmazione Economica

Il ministro ha anche la delega per gli Interventi Straordinari nel Mezzogiorno.

Ministro

Franco Reviglio (PSI) fino al 21/02/93

Beniamino Andreatta (DC) dal 21/02/93

Sottosegretari

Vito Bonsignore (DC), Luigi Grillo (DC)

Finanze

Ministro

Giovanni Goria (DC) fino al 19/02/93

Franco Reviglio (PSI) dal 21/02/93 al 30/03/93

Giuliano Amato ad interim dal 1/04/93

Sottosegretari

Giorgio Carta (PSDI), Stefano De Luca (PLI), Pino Pisicchio (DC)

Tesoro

Il ministro regge anche il Dipartimento della Funzione Pubblica.

Ministro

Piero Barucci (DC)

Sottosegretari

Paolo Bruno (PSDI), Antonio Giagu Demartini (DC), Piergiovanni Malvestio (DC), Maurizio Sacconi (PSI)

Partecipazioni Statali

Ministro

Giuseppe Guarino, ad interim (fino al 21/02/93)

Agricoltura e Foreste

Ministro

Giovanni Angelo Fontana (DC) fino al 21/03/93

Alfredo Luigi Diana (DC) dal 22/03/93

Sottosegretari

Paolo Fogu (PSI)

Lavori Pubblici

Ministro

Francesco Merloni (DC)

Sottosegretari

Tommaso Bisagno (DC), Gabriele Piermartini (PSI)

Trasporti

Ministro

Giancarlo Tesini (DC)

Sottosegretari

Cesare Cursi (DC)

Marina Mercantile

Ministro

Giancarlo Tesini, ad interim

Sottosegretari

Giulio Camber (PSI)

Industria, Commercio e Artigianato

Ministro

Giuseppe Guarino (DC)

Sottosegretari

Luigi Farace (DC), Felice Iossa (PSI)

Commercio con l’Estero

Ministro

Claudio Vitalone (DC)

Poste e Telecomunicazioni

Ministro

Maurizio Pagani (PSDI)

Sottosegretari

Publio Fiori (DC), Giorgio Casoli (PSI)

Sanità

Ministro

Francesco De Lorenzo (PLI) fino al 21/02/93

Raffaele Costa (PLI) dal 21/02/93

Sottosegretari

Luciano Azzolini (DC)

Lavoro e Previdenza Sociale

Ministro

Nino Cristofori (DC)

Sottosegretari

Fiorindo D’Aimmo (DC), Sandro Principe (PSI)

Beni Culturali

Ministro

Alberto Ronchey (Indipendente)

Ambiente

Ministro

Carlo Ripa di Meana (PSI) fino al 7/03/93

Valdo Spini (PSI) dal 9/03/93

Pubblica Istruzione

Ministro

Rosa Iervolino Russo (DC)

Sottosegretari

Giuseppe Matulli (DC), Savino Melillo (PLI)

Università, Ricerca Scientifica e Tecnologica

Ministro

Alessandro Fontana (DC)

Sottosegretari

Rossella Artioli (PSI)

Turismo e Spettacolo

Ministro

Margherita Boniver (PSI)

_____________________________________________________________________________________________

 

 

Governo Carlo Azeglio Ciampi 28 aprile 1993- 10 maggio 1994

 

Presidente del Consiglio dei ministri

Carlo Azeglio Ciampi (Indipendente)

Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei ministri

Antonio Maccanico (PRI)

Ministeri senza portafoglio

Affari sociali

Fernanda Contri (PSI)

Coordinamento delle politiche comunitarie

Valdo Spini (PSI) fino al 4 maggio1993

Livio Paladin (Indipendente) dal 4 maggio 1993

Funzione pubblica

Sabino Cassese (Indipendente)

Rapporti con il Parlamento

Augusto Barbera (PDS) fino al 4 maggio 1993

Paolo Barile (Indipendente) dal 4 maggio 1993

Riforme elettorali e istituzionali

Leopoldo Elia (DC)

Ministeri

Affari esteri

Ministro

Beniamino Andreatta (DC) (fino al 19/04/94) e Leopoldo Elia (DC) (dal 19/4/1994)

Sottosegretari

Carmelo Azzarà (DC), Giuseppe Giacovazzo (DC), Laura Fincato (PSI)

Interno

Ministro

Nicola Mancino (DC)

Sottosegretari

Antonino Murmura (DC), Saverio D’Aquino (PLI), Costantino Dell’Osso (PSI), Vito Riggio (DC, con delega alla protezione civile)

Grazia e Giustizia

Ministro

Giovanni Conso (Indipendente)

Sottosegretari

Vincenzo Binetti (DC), Daniela Mazzuconi (DC)

Bilancio e Programmazione Economica

Ministro

Luigi Spaventa (Indipendente)

Sottosegretari

Luigi Grillo (DC), Florindo D’Aimmo (DC)

Finanze

Ministro

Vincenzo Visco (PDS) fino al 4 maggio1993

Franco Gallo (Indipendente) dal 4 maggio 1993

Sottosegretari

Paolo Bruno (PSDI, dal 14 giugno1993), Antonio Pappalardo (PSDI, fino al 22 maggio1993), Stefano De Luca (PLI), Riccardo Triglia (DC)

Tesoro

Il dicastero accorpa il Ministero delle Partecipazioni Statali in seguito al Referendum abrogativo del 1993.

Ministro

Piero Barucci (DC)

Sottosegretari

Paolo De Paoli (PSDI), Piergiovanni Malvestio (DC), Maurizio Sacconi (PSI), Sergio Coloni (DC)

Difesa

Ministro

Fabio Fabbri (PSI)

Sottosegretari

Antonio Giagu Demartini (DC), Antonio Patuelli (PLI)

Pubblica Istruzione

Ministro

Rosa Iervolino Russo (DC)

Sottosegretari

Giuseppe Matulli (DC), Antonio Mario Innamorato (PSI)

Lavori Pubblici

Ministro

Francesco Merloni (DC)

Sottosegretari

Achille Cutrera (PSI), Pino Pisicchio (DC)

Risorse Agricole, Alimentari e Forestali

Modifica della denominazione del Ministero dell’Agricoltura e Foreste in seguito al Referendum abrogativo del 1993.

Ministro

Alfredo Luigi Diana (DC)

Sottosegretari

Pasquale Diglio (PSI)

Trasporti

Soppresso dalla legge 24 dicembre 1993, n. 537, art. 1, comma 8.

Ministro

Raffaele Costa (PLI)

Sottosegretari

Giorgio Carta (PSDI), Michele Sellitti (PSI)

Marina Mercantile

Soppresso dalla legge 24 dicembre 1993, n. 537, art. 1, comma 8.

Ministro

Raffaele Costa (PLI) Ad interim.

Sottosegretari

Giorgio Carta (PSDI), Michele Sellitti (PSI)

Trasporti e Navigazione

Istituito dalla legge 24 dicembre 1993, n. 537, art. 1, comma 9, per accorpamento del Ministero dei Trasporti col Ministero della Marina Mercantile.

Ministro

Raffaele Costa (PLI) Dal 1994.

Sottosegretari

Giorgio Carta (PSDI), Michele Sellitti (PSI)

Poste e Telecomunicazioni

Ministro

Maurizio Pagani (PSDI)

Sottosegretari

Ombretta Fumagalli Carulli (DC)

Industria, Commercio e Artigianato

Ministro

Paolo Savona (Indipendente) fino al 19 aprile1994

Paolo Barattaad interim dal 19 aprile1994

Sottosegretari

Germano De Cinque (DC), Rossella Artioli (PSI)

Sanità

Ministro

Maria Pia Garavaglia (DC)

Sottosegretari

Nicola Savino (PSI), Publio Fiori (DC)

Commercio con l’Estero

Ministro

Paolo Baratta (Indipendente)

Lavoro e Previdenza Sociale

Ministro

Gino Giugni (PSI)

Sottosegretari

Luciano Azzolini (DC), Sandro Principe (PSI)

Beni Culturali e Ambientali

Ministro

Alberto Ronchey (Indipendente)

Turismo e Spettacolo

Ministro

Carlo Azeglio Ciampi, ad interim

Ambiente

Ministro

Francesco Rutelli (FdV) fino al 4 maggio1993

Valdo Spini (PSI) dal 4 maggio 1993

Sottosegretari

Roberto Formigoni (DC)

Università, Ricerca Scientifica e Tecnologica

Ministro

Luigi Berlinguer (PDS) fino al 4 maggio 1993

Umberto Colombo (Indipendente) dal 4 maggio 1993

Sottosegretari

Silvia Costa (DC)

 

Trattativa Stato mafia…ultima modifica: 2012-07-04T09:00:00+02:00da iskra2010
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