I comunisti italiani diversi fino alla morte di Enrico Berlinguer

Liberazione
4 settembre   2011


I comunisti italiani diversi fino alla morte di Enrico  Berlinguer

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di  Guido Liguori

Uno dei ritornelli preferiti da Silvio Berlusconi  consiste nell’incolpare di tutto i “comunisti”, intendendo con ciò anche e  soprattutto il maggior partito dell’opposizione parlamentare, in massima parte  derivato dalla “evoluzione” (si fa per dire) del Pci. Un modo per  dequalificare e demonizzare l’avversario, evocando uno “spettro” ancora temuto  dall’elettorato moderato. Come dire: apparentemente sono cambiati, ma nella  sostanza si resta comunisti sempre, anche a distanza di due decenni e più. Una  furbata, certo, un cinico espediente elettorale che  non sorprende, conoscendo l’abilità da piazzista del personaggio, il suo fiuto  per la propaganda rivolta al mercato della politica e ai suoi “istinti  animali”. Stupisce invece che un giornalista di Liberazione come Paolo Persichetti adotti lo stesso tipo di ragionamento – in un  articolo comparso il 28 agosto su questo giornale – usando il caso Penati come  pretesto per polemizzare col Pci degli anni 70 e 80 in base al teorema: i  comunisti (ma forse Persichetti vorrebbe dire “i  piccisti”, o nel migliore dei casi “i berlingueriani”) di una volta invocavano la questione  morale, il caso Penati oggi mostra definitivamente che erano tutte  balle.
Ora, ognuno ha diritto di avere le idee che crede sul Pci e sulla  sua vicenda storico-politica. Ed è bene discuterne e confrontarsi. La storia  però non è solo un’opinione o una “narrazione”, vi sono anche dei fatti che è  molto difficile ignorare. Voglio dire che l’autore dell’articolo in questione  attribuisce una continuità radicale alla  evoluzione/involuzione Pci-Pds-Ds-Pd che –  proprio come la continuità implicitamente richiamata dalla retorica  dell’attuale presidente del Consiglio – è assolutamente inventata. E’ una  ricostruzione che capovolge la realtà, celando il corso degli eventi che  segnarono l’ultimo decennio di vita del Partito comunista italiano.
Cosa  era infatti la “questione morale” per Enrico  Berlinguer, nel passaggio tra la fine degli anni 70 e i primi anni 80? La  denuncia di una degenerazione profonda dei partiti di governo che avevano  occupato lo Stato e le sue istituzioni, servendosene per propri fini perché  animati da una logica di conservazione e da una concezione distorta della  politica. I comunisti erano “diversi” perché portatori di una concezione della  politica non ridotta al voto di scambio, all’uso privato della cosa pubblica,  al perseguimento dell’arricchimento personale e per bande, ma motivata da una  forte volontà di cambiare la società e i suoi modi di funzionamento. Non si  trattava di una diversità solamente etica (anche se un corretto atteggiamento  etico è comunque importante in sé, ed e riscontrabile per fortuna in singoli  esponenti di ogni partito), ma politica, in base alla quale il Pci – affermava  Berlinguer – non si faceva “omologare” nel sistema politico allora vigente,  quello del CAF (Craxi-Forlani-Andreotti). Imma Barbarossa, in un bell’intervento del 31 agosto  sull’articolo di Persichetti, ha ricordato, tra le  altre cose, il costume diverso a cui erano tenuti i dirigenti, i deputati e  gli amministratori del Pci, affermando che i limiti di quel partito furono  altri e tutti politici – individuabili in una  insufficiente lettura della società italiana a partire dal 68.
La  tesi di Barbarossa non è senza fondamento, su di essa si è discusso e si  continuerà a ragionare. Vorrei però qui ora aggiungere due ulteriori elementi  di riflessione che, a mio avviso, contribuiscono a spiegare la erroneità delle tesi di Persichetti. In primo luogo, il Pds (poi Ds, poi Pd)  nacque proprio da una conclamata volontà di rottura con il Pci berlingueriano, nacque affermando che la politica della  “diversità comunista” era del tutto errata e da superare, in primis perché  costituiva un ostacolo insormontabile alla partecipazione del partito al  governo del paese insieme alle altre forze politiche. La concorrenza con Craxi  doveva avvenire sullo stesso terreno su cui si misuravano i partiti  tradizionali. Lo stesso abbandono del nome, preparato da anni di modificazioni  più o meno molecolari a partire dalla morte di Berlinguer (1984), era organico  all’abbandono di quella tradizione, più che a una presa di distanza dal  modello sovietico che c’era già stata da tempo.
La seconda questione  concerne la domanda su come sia stata possibile questa opera di repentino  abbandono del nome, degli ideali e del costume di un partito come il Pci. E’  evidente che parte della risposta a tale domanda sta nei limiti politici  accennati da Barbarossa, di cui però l'”ultimo Berlinguer”, quello del  quinquennio 1979-1984, si era reso in buona parte conto e a cui cercava di  porre rimedio – riportando il partito pienamente a fianco della classe operaia  (lotta alla Fiat, referendum sul taglio della scala mobile) e avvicinandolo in  modo inedito ai movimenti (delle donne, per la pace, ecologista). Vi è però  anche un altro fatto, che fu decisivo, e da cui pure andrebbe tratto  insegnamento per l’oggi: dopo la fine della “solidarietà nazionale”, negli  anni 80 il Pci divenne, più che un partito, una  federazioni di partiti, un insieme di posizioni politiche che si divaricavano  sempre più, tenuta insieme solo da una tradizione e da un costume politico a  lungo condiviso. Ancora vivo Berlinguer, in un modo che potremmo anche  definire “cesaristico” (il “cesarismo progressivo”  di cui parla Gramsci, sia pure in altro contesto) la barra venne tenuta  coraggiosamente a sinistra e notevoli furono i frutti raccolti, sul piano del  consenso, nella società e anche a livello elettorale, nelle europee del 1984,  il cui esito non può essere spiegato solo con l’emozione per la morte di  Berlinguer: se la sua linea politica dopo l’unità nazionale fosse stata  ritenuta erronea e pazzesca dal popolo italiano come era ritenuta erronea e  pazzesca da buona parte del gruppo dirigente del partito, il Pci in  quell’occasione non sarebbe risultato il più votato in assoluto. Morto il  segretario, venuto meno il suo carisma, presero pian piano il sopravvento  altre posizioni, altri “partiti” nel partito. Nel gruppo dirigente prevalsero  posizioni ostili alla posizione della “diversità comunista”, e la tradizionale  disciplina della base comunista rispetto alla linea del gruppo dirigente  (della maggioranza del gruppo dirigente) fece il resto. E’ una storia che è  stata già da più parti ricostruita e analizzata (anche dal sottoscritto, in un  libro su “La morte del Pci”, a cui mi permetto di rinviare per la  ricostruzione dei passaggi che qui posso solo accennare). Non la si può  ignorare. Né soprattutto si può far finta di ignorare che Enrico Berlinguer,  sia pure non senza limiti ed errori soprattutto negli anni 70, fu un “capo”  comunista di elevato profilo, morto combattendo dalla parte degli operai, dei  lavoratori, degli sfruttati, dei “subalterni” tutti, per usare una categoria  gramsciana. Molti italiani lo compresero pienamente,  forse molte e molti non lo hanno dimenticato ancora oggi. Invece di concorrere  anche noi all’opera di negazione e distorsione della storia dei comunisti  italiani, dovremmo rifarci all’esempio e all’eredità di Berlinguer,  dell’ultimo Berlinguer, che denunciava la questione morale e che appoggiava  senza remore i movimenti e le lotte. I dirigenti del partito di Penati (al di  là delle specifiche vicende di cui si occupa la cronaca e sulle quali farà  luce la magistratura) hanno scelto in gran parte altri modelli. I soliti furbi  hanno tentato di ridisegnare un Berlinguer a loro immagine e somiglianza, un  post-comunista ante-litteram, operazione ridicola e disonesta. I più rudi e a  loro modo sinceri hanno detto chiaramente di pensare  che allora aveva ragione Craxi. I comunisti di oggi, invece, non devono  perdere il senso della battaglia di Enrico Berlinguer né dimenticare che la  “questione morale” fu la lucida radiografia di quella stagione politica (la  prima metà degli anni 80) da cui nacque, più che Berlusconi, il berlusconismo.

I comunisti italiani diversi fino alla morte di Enrico Berlinguerultima modifica: 2011-09-09T00:27:00+02:00da iskra2010
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