I Nocs violenti e i misteri del caso Soffiantini

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Francesco Cossiga e Roberto Maroni, 
il maestro e l’apprendista alla festa 
per i 30 anni dei NOCS nel 2008

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25 ottobre 2011

I Nocs violenti e i misteri del caso Soffiantini 
”Tutti in azione nel blitz dell’agente ucciso”

 

Dalla morte di Donatoni agli abusi in caserma: l´ombra di un patto di sangue.  I magistrati: le indagini sull’accaduto condizionate da pesanti depistaggi. L’ultima sentenza su quella notte del ‘97 dice che il poliziotto fu vittima del “fuoco amico”


 

di FEDERICA ANGELI e MARCO MENSURATI


Due morti, un suicidio, un pestaggio e un fascicolo insabbiato. Non  erano solo nonnismo i morsi nella caserma dei Nocs denunciati da  Repubblica a inizio settembre. Dietro quelle violenze ci sarebbe  qualcosa di più: una sorta di patto di sangue che fu stretto tra una  manciata di teste di cuoio e i loro dirigenti in una notte di ottobre di 14 anni fa.


Quella  in cui morì l’agente speciale Samuele Donatoni durante un blitz per  iberare l’imprenditore Giuseppe Soffiantini dai suoi sequestratori. Quella notte, tra i pruni e le ginestre insanguinate sul ciglio dell’autostrada Roma-Pescara, vicino a Riofreddo, prima dell’arrivo dei soccorsi e della polizia «ordinaria», con il rumore degli spari ancora nelle orecchie e il loro collega a terra agonizzante, quegli agenti si guardarono in faccia per qualche interminabile secondo, poi decisero che mai nessuno avrebbe raccontato cosa era successo. Nemmeno ai magistrati, a cui avrebbero offerto una versione preconfezionata. Un accordo di ferro, che negli anni è degenerato, lasciando nella mani di «chi sa» un potere abnorme all’interno dei Nocs: e così oggi quegli uomini sono ancora tutti lì, nel reparto d’eccellenza della polizia di Stato, dove dettano, indisturbati, la propria legge.



La notte della tragedia


Il 17 ottobre del 1997, nel pieno del sequestro Soffiantini, la polizia  tenta un blitz per la cattura dei rapitori attraverso un finto pagamento del riscatto. L’operazione fallisce. Uno dei banditi, Mario Moro, al momento di prendere le valigie con i soldi, sente un fruscio, almeno così racconterà, ed esplode una raffica di kalashnikov, alla cieca. I Nocs rispondono al fuoco ma i sequestratori gettano le armi e fuggono. A terra rimane l’agente Samuele Donatoni; morirà dissanguato in pochi  minuti.


Per quel fatto, oggi, esistono due verità. La prima è quella arrivata al termine del processo istruito dal pm di Roma, Franco Ionta, che nel 2000 condannò i 19 sequestratori di Soffiantini anche per l’omicidio (concorso morale) di Donatoni: il colpo mortale, secondo quel processo, sarebbe stato esploso dal kalashnikov di uno dei banditi.


La seconda sentenza è quella con cui la quarta Corte d’assise di Roma, presieduta dal giudice Mario Almerighi, nel 2005, ha assolto dallo  stesso reato il ventesimo bandito (arrestato più tardi a Sidney e processato separatamente). In quel processo si stabilì in via definitiva che il proiettile che uccise l’agente Donatoni era stato sparato a bruciapelo e da dietro. Non da Moro, ma da qualcun altro (ancora oggi  sconosciuto) che stava dalla parte dei Nocs. Fuoco amico. Questa seconda sentenza che, nonostante l’impugnazione del pm Ionta, venne confermata sia in Appello sia in Cassazione, arrivava anche all’inquietante conclusione che le forze dell’ordine operarono una sconsiderata attività di inquinamento probatorio. Chi depistò le indagini sulla morte di Donatoni? Con quali appoggi?



Chi c’era?


Domande che andrebbero girate in blocco a “quelli del morso”, cioè al “sottocomando” che da anni con violenze fisiche e psicologiche detta legge all’interno  della caserma dei Nocs. Perché, adesso che la notizia di quelle  violenze è pubblica, adesso che la procura e la polizia hanno avviato le  proprie indagini, si è scoperto che tutti i “membri” del  “sottocomando”, quella notte erano a Riofreddo. C’era, a esempio,  l’agente Nello Simone, l’autore della fotografia con cui Repubblica ha  documentato i morsi nella caserma. Fu proprio lui, dopo il conflitto a fuoco, a ritrovare il kalashnikov di Moro e fu proprio lui, secondo la quarta Corte d’assise di Roma, uno dei depistatori del primo processo, uno di quelli che dichiararono il falso in tribunale, smentito  dall’unico testimone considerato attendibile: l’allora dirigente della  Criminalpol Nicola Calipari (ucciso nel 2005 in Iraq durante la liberazione della giornalista Giuliana Sgrena, anche lui per mano del fuoco amico).

Insieme a Nello Simone sull’autostrada c’era poi l’agente Roberto Miscali: l’uomo che nel momento cruciale del blitz si  trovava più vicino a Donatoni. Anche lui, oggi, è uno del gruppetto fuori controllo. Secondo molti testimoni (ci sarebbe anche un video) Miscali è il protagonista di uno degli episodi più surreali della banda del morso: quello in cui alcuni Nocs hanno pestato a sangue un agente ricoverato in ospedale, perché non aveva reso onore al nome del reparto; era intervenuto per sedare una rissa in discoteca e aveva rimediato una coltellata.


E ancora, quella notte di 14 anni fa, sulla strada per Riofreddo c’erano l’ispettore Vittorio Filipponi, anche lui vicino al  “sottocomando”, e a bordo dell’automedica pronto a intervenire c’era persino il dottor Gianluca Magliani: il medico che ha dato un solo giorno di prognosi all’agente che, pestato dal gruppo nel 2009, ha denunciato a Repubblica le violenze in caserma (e che, visitato da un  altro medico venne giudicato guaribile in 108 giorni).



Il ruolo del capo


I protagonisti dei morsi erano tutti là, quella notte, dunque. Tutti  tranne uno: il capo del “sottocomando”, Fernando Olivieri. Anche lui  però ha più di qualcosa a che vedere con quanto accadde a Donatoni. E  non solo perché fu proprio lui a svuotare l´armadietto del collega  ucciso, pur non essendo uno dei suoi più stretti amici. Ma anche perché  pochi giorni dopo la notte di Riofreddo, insieme ad altri agenti, fermò in una galleria della Roma-L’Aquila una macchina con alcuni dei  sequestratori. Tra questi, Mario Moro. Il bandito venne ferito da  numerosi colpi d´arma da fuoco e morì pochi giorni dopo. In un processo  per altra causa uno dei sequestratori, pentito e ritenuto attendibile  dai giudici (nonostante le sue parole non fossero utilizzabili per  motivi procedurali), raccontò: «Fu una vera esecuzione: eravamo a terra  tramortiti e i Nocs continuarono a sparare». La versione ufficiale parla  di una non meglio precisata reazione da parte dei banditi. Moro morì  dopo aver ammesso ogni responsabilità nella vicenda Soffiantini. Tranne  una: quella dell’omicidio Donatoni.


Il suicidio e i sospetti


La domanda che in queste ore ha ricominciato a tormentare gli uomini  incaricati dal capo della Polizia Antonio Manganelli di indagare sullo  strapotere del “sottocomando” e su quanto accade all’interno della  caserma di Spinaceto è dunque questa: quali segreti custodiscono Olivieri, Simone e gli altri per aver potuto trasformare la caserma nel  proprio regno? Chi, o cosa coprono? Domande tanto più inquietanti quanto  più si considera il livello di copertura di cui questi agenti hanno  goduto. Basti pensare che poco prima della denuncia dell’agente pestato  nella mensa, il “sottogruppo” aveva preso di mira un altro poliziotto  che aveva osato ribellarsi a quei sistemi, Paolo Di Carli. E anche in quel caso era finita con un violento pestaggio di cui le relazioni  interne indicavano come “protagonista assoluto” Fernando Olivieri. Di  Carli tenne tutto dentro e pochi mesi dopo si suicidò, sparandosi un  colpo al cuore in caserma. In sintesi: Olivieri pesta due persone, una si suicida l’altro fa denuncia. I vertici nel primo caso fanno finta di niente, nel secondo puniscono il denunciante. Perché?



Il fascicolo fantasma


Una risposta potrebbe essere contenuta nel fascicolo nato dalla sentenza  della quarta Corte d’assise del 2005. Il giudice Almerighi infatti  rimandò gli atti alla procura di Roma affinché ricominciasse l’inchiesta, partendo da chi depistò indagini e processo. Di quel fascicolo non si sa più nulla. O quasi. Quel che si sa è che, il procuratore capo lo affidò, con una scelta insolita, proprio a Ionta e che questi, pochi giorni prima di passare al Dap, Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (su proposta del ministro Alfano) ne chiese l’archiviazione. Oggi, a distanza di tre anni dalla richiesta, di quel procedimento non vuole più parlare nessuno.

I Nocs violenti e i misteri del caso Soffiantiniultima modifica: 2011-11-04T08:30:00+01:00da iskra2010
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