Il gioco è una cosa seria…

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di Angelo Ruggeri 

In critica della contrappuntistica inversione della pseudo sinistra e dei tellettual-in, cogliendo l’occasione di un lucido e lapidario giudizio di Preve su Umberto Eco. 

Il gioco è una cosa seria. Per essere gioco deveessere manifestazione di libera e autonoma creatività, come il lavoro che invece viene alienato e dopo l’abiura del nesso inscindibile tra lavoro ed economia e tra storia e filosofia, non trova più posto nella politica ma solo nella cultura.

Il capitalismo non tralascia la mercificazione di alcun che, in ogni campo, dell’industria e della vita quotidiana. Anche con un’industria c.d. del “divertimento” che, più che avere giochi per divertirsi, porta ad avere dei giochi per possedere, imitare e copiare, in una società in cui il capitalismo, in tutti i campi, tende ad adultizzare i bambini e infantilizzare gli adulti, veicolando la “falsa coscienza” della “felicità-consumo”. 

(Pre Scriptum: due per così dire retoriche domanda delle cento pistole:                                             1)perché la Tatcher fu una delle “pensatrici” e autrice dell’introduzione del “reddito minimo garantito” che oggi i “sinistri” impiegati, amanuensi e ammansatori, che sotto dettatura vorrebbero farci credere come “ottima” la pensata della Fornero di governo o addirittura “progressista” come la bigotta laica Livia Turco?

2) “tra Umberto Eco e Ratzingher – senza laicisticamente farsi condizionare dall’essere Papa – chi è il vero intellettuale organico e il vero filosofo ? 

Per quanto non condivida gli sbocchi filosofici e teorico-politici a cui è pervenuto Costanzo Preve, devo dire che condivido del tutto il giudizio che ha espresso sul “retore” Umberto Eco che copre la sua “superficialità ” con la “boria” che gli è propria e che non ha mancato di manifestare anche nei confronti di Papa Ratzingher.

Come Preve, anche noi U. Eco l’abbiamo conosciuto all’inizio dei primissimi anni del tempo in cui padre Giuseppe Pirola riuniva i “più colti” – o che sembravano tali – da ogni parte dell’intero Mondo. Preve, più avanti di me non solo negli anni, partecipava anche come “dibattitore”. Io, alle primissime armi, allora partecipavo per “imparare” e, ancora, più che altro, come “ascoltatore”.

Diversi anni dopo, però, cogliendo l’occasione di una discussione giornalistica a proposito del rapporto tra gioco e lavoro, ho avuto modo di argomentare contro Umberto Eco: uno dei massimi campioni e massima espressione dei “sinistri” post-comunisti e di tutti coloro che, passati gli anni 70, hanno pensato bene di applicare alla politica e al loro stesso modo di essere il contrappuntistico metodo dell’inversione del tema, usato e applicato in campo musicale.

Quindi è per conto nostro, per così dire, con un percorso “autonomo” che siamo giunti a considerare il personaggio in questione – evidenziando anche la differenza abissale tra cultura ed erudizione tante volte sottolineato anche con “Aden Arabia” e richiamando la cultura del punto di vista dal basso plebeo, quindi veramente marxista – alla stregua di quel che in modo lucido e lapidario Preve ha riassunto nelle seguenti righe (ringrazio Gian Marco che mi ha fatto avere il testo):

“Ho conosciuto molti anni fa Umberto Eco in un seminario residenziale dei gesuiti all’Aloysianum di Gallarate (VA).

Era esattamente quel che sembra: un brillante e superficiale retore, che supplisce alla mancanza di profondità con un fuoco d’artificio di erudizione.

Ma qui siamo alla vera e propria “boria dei dotti” di cui parla Vico (sia pure in un altro contesto), per cui persino Ratzingher é sottoposto alla correzione delle tesine con matita rossa e blu” (Costanzo Preve, Teologia e filosofia per studenti della scuola dell’obbligo”- considerazioni su J. Ratzingher, U. Eco, V. Mancuso e T. Pievani.) 

Ben detto al vecchio “stronzo”, che ha cambiato musica, anzi, l’ha completamente rovesciata, a cui benevolmente abbiamo fatto dono di essere un “massimo interprete” del contrappuntistico metodo dell’inversione di tema e del rovesciamento culturale e totale delle posizioni, più prosaicamente chiamati “voltagabbana”, “banderuole” o “quaqquaraquà” che, con relativismo culturale, guardano con sorriso di malcelata superiorità ai principi.

All’Umberto Eco “nazionale”- contro cui vale rivendicare quell’odio di classe a cui ci chiama Aden Arabia – “massimo” tellettual-in cresciuto in quella che Brecht chiama l’Università dei TUI dove appena un intellettuale si avvicina a dire la verità, il docente ritira la corda a cui è attaccato il canestro del cibo che gli era destinato.

Dal canto nostro, aggiungiamo quanto scriviamo nell’allegato, riprendendo il tema del dibattito sul gioco e il lavoro che non ha più posto nella politica e nell’economia.

GIOCO E LAVORO

Illuminismo e metodo contrappuntistico dell’inversione. Nella fase del narcisismo fase suprema del capitalismo.

Della dialettica, da Aristotele a Marx e da idealistica a materialistica; dall’illuminismo e da Diderot a Brecht, alla teoria dei giochi che prevede anche i giochi contro natura, per cui la natura si vendica ma invece gli uomini no, o non ancora, del gioco contro naturadelcapitalismo;               dalla teoria scientifica della indeterminazione al metodo contrappuntistico della inversione del tema del relativismo culturale dei vari Umberto Eco. 

Gioco e lavoro, la discussione tra Fourier e Marx continua, o potrebbe continuare, trovando nuovi motivi di alimentazione.                                                                         Il nesso tra lavoro e gioco è più intrinseco di quanto non si creda.

Sul gioco, anche noi nani sulle spalle di questi due giganti, sappiamo oggi più cose di quante né sapessero queste due fonti a cui spesso torniamo.                       Quanto al lavoro, cioè all’incontro e allo scontro con le cose, con la natura materiale, esso non sembra però avere oggi un vero posto (o luogo) e per nobilitarsi deve travestirsi, grazie anche alla liberistica delegittimazione costituzionale della Repubblica democratica “fondata sul lavoro”, iniziata con le cosiddette “riforme istituzionali”.

Il lavoro non ha posto nella politica (da Occhetto in poi), da cui risulta del tutto separato. E non ha posto nell’economia, almeno da quando i giornali (compresi Unità e Manifesto) e la Cgil (da Trentin in poi), usano distinguere lavoro ed economia con le cosiddette <<politiche attive del lavoro>> (come se una politica per il lavoro possa essere <<attiva>> anche senza una politica economica e uno sviluppo di tipo nuovo).

Il lavoro non ha posto o luogo nella cultura. Nemmeno in quella di molti ex sessantottini, che ricusarono di includervelo fin da quando il loro marxismo, per censo e per cultura, era più il prodotto delle allegre intuizioni ideologiche, di quanti riluttavano a rompersi il capo nel duro lavoro di analisi e comprensione dei testi, piuttosto che l’applicazione pratica della teoria della prassi: anche al proprio modo di essere e di vivere; piuttosto che l’assunzione di quello che Brecht chiamerebbe il punto di vista “plebeo”, cioè realmente marxista. Perché importante è <<come>> si è marxisti e comunisti, non il fatto di esserlo. Come si è tali, in tutti i campi, non solo parlandone ma assumendo lo sguardo di chi osserva la società <<dal basso>>. 

Mancando di questo molti laureati di fresca data e non, hanno con ciò perduto vocazione ed entusiasmo. Da <<antiparlamentari>> e coerenti <<anticomunisti>> anti-Pci, sono diventati persino “pidiessini”. E come s’usa fare con il metodo contrappuntistico dell’inversione musicale, hanno cambiato musica. Rovesciando il loro <<antiparlamentarismo extraparlamentare>> in <<antiparlamentarismo governativista>>. Finanche mettendosi “in vendita”: intellettualmente ed economicamente (). Diversi hanno fatto carriera nel giornalismo. Altri ottenuto fama e successo con la pubblicistica, praticando l’eclettismo e le sottili speculazioni dei vecchi moduli eruditi. Distribuendosi sull’intero arco politico-partitico, ma tutti assumendo un punto di osservazione <<dall’alto>>, l’opposto di quello “plebeo”. 

Sicché diventa possibile che, dopo essere stato ripreso dall’Accademia della Crusca per questioni di purismo linguistico inerenti ad un suo libro, Umberto Eco possa esserlo anche per un suo intervento sull’illuminismo (che fece su Repubblica).                                      Ad esempio, per avere contrapposto “il buon senso” alla “Ragion Forte alla Hegel“: quasi che il primo debba essere “debole” e il “realismo” sia solo quello “minimalista”, senza una “visione storica”, d’insieme. Dimenticandosi il “siamo realisti, vogliamo tutto“, del ’68. Ma soprattutto ignorando, appunto, il punto di vista di quella specie di “realismo plebeo” che è la dialettica. Per spiegare la quale a Goethe, Hegel ricordava essere nient’altro che “il buon senso degli uomini, lo spirito di contraddizione che porta a vedere le cose da punti vista diversi”, che è anche un tratto dell’illuminismo.

Altrimenti non potrebbero starvi insieme Voltaire e Rousseau; e nemmeno Diderot a cui Brecht (cioè la dialettica in scena) voleva dedicare una associazione .

Da idealistica a materialistica, da Aristotele ad Hegel, fino a Marx e Lenin, la dialettica è la cosa più popolare e – visto che si è ricorso a questa categoria -, più di “buon senso” che ci sia,  anche nelle mani di un fisico che non capisce nulla di dialettica, assume le forme più straordinarie. Come avviene con la teoria scientifica della <<indeterminazione>>, quando dice che la realtà conoscibile si modifica attraverso il metodo della conoscenza. Una leccornia, per i dialettici e materialisti, che non motiva affatto, come molti vorrebbero, l’impossibilità di avere dei principi, una oggettività dei valori, di scelte etiche migliori di altre. Altrimenti non si capirebbe nemmeno come molti, che ritengono impossibile ogni oggettività etica, possano, allora, condannare moralmente, il genocidio o la “pulizia etnica”. Rimarrebbe solo l’<<etica della forza>> a determinare i valori, trasformando in valori anche i disvalori. Come la guerra. Ma ugualmente non si capirebbe perché giustificare, allora, la guerra come “umanitaria”, o criticare i proiettili all’uranio impoverito, o la pena di morte. 

La teoria dell’<<indeterminazione>>, viceversa, spiega che la realtà è conoscibile solo dialetticamente. Quindi che non bastano la logica e il razionalismo scientifico, né l’applicazione del positivismo ai valori. Occorre la dialettica, <<nelle>> e <<tra>> le diverse culture, quindi anche un’etica pubblica, un pluralismo dei valori, storicamente e dialetticamente identificabili.

Il relativismo etico postmoderno, non è per niente fondato sulla ragione scientifica, bensì sullo scientismo di coloro che, separando e contrapponendo la cultura tecnico-scientifica alle scienze sociali e umanistiche, finiscono col negare non solo i <<valori assoluti>>, ma anche ogni etica pubblica e, persino, il <<pluralismo dei valori>> (da non confondere con il comodo eclettismo). Insomma: “tecnicamente funziona, quindi va bene”; mai, anche, “è giusto o sbagliato”. Immemori del fatto che “tecnicamente funzionali”, “modernamente razionali” e “tecnologicamente avanzati” erano anche i campi di sterminio; e che il “modernismo scientifico” era una componente fondante del nazismo: “Modernismo reazionario”, appunto. Qui si vede che la contrapposizione delle scienze tecniche a quelle sociali, oltre ai valori, porta a distruggere i meccanismi storico-sociali che connettono l’esperienza tra le generazioni, a vivere senza sapere storico, in una sorte di presente permanente, senza rapporto con il passato storico del tempo in cui si vive.

Il contrappuntistico metodo dell’inversione è proprio di coloro che, volgarmente chiamati “voltagabbana”, “banderuole” o “quaqquaraquà”, guardano con sorriso di malcelata superiorità ai principi. Però ha tutt’altro che basi logiche, bensì originate dal clima etico-culturale di predominante scetticismo verso la ragione (pratica e storica) e verso le speranze di trasformazione sociale. Scetticismo diffuso nel <<postmoderno>> da ricchi, arrivati e ignoranti, proprio come nel <<premoderno>> era appannaggio dei signori e del popolino ignorante e subalterno.

Sicché un dibattito della stampa sull’illuminismo, ha finito con il generare anche un dibattito <<solo>> sul gioco. Il lavoro per nobilitarsi deve travestirsi da gioco. E sia. Eco potrebbe essere ripreso anche per un altro suo intervento sul gioco (poche settimane dopo il precedente, sempre su Repubblica), quando sembra assimilarlo alle quotidiane carnevalate della moderna società narcisista dei consumi. Né Marx, come sembra dare ad intendere Eco, affida all’automazione il compito di nobilitare la classe operaia. Anzi: “poiché il lavoratore è degradato a una macchina, questa gli può stare di fronte come una concorrente”. Ciò a causa della divisione del lavoro e dei rapporti di produzione esistenti. Alla cui modifica Marx affida, semmai, il compito di realizzare <<la condizione utopica vagheggiata da Marx in cui ciascuno possa essere al tempo stesso e liberamente, pescatore, pittore, cacciatore, ecc.>>

E’ indubbiamente vero che oggi, come scrive Eco, la politica, la religione, lo sport, i supermercati, il modo di usare il computer, il telefonino, eccetera, tutto tende ad essere una carnevalata. Ma tutto questo non è assimilabile al gioco che, per essere tale, deve essere manifestazione di libera e autonoma creatività.

Il gioco è una cosa seria. E’ “il narcisismo fase suprema del capitalismo” che porta ad assimilare il gioco ad una festa continua, ad una carnevalata affatto parentetica ma quotidiana. Ma la mercificazione non è l’eterno e inevitabile problema della coscienza umana, bensì l’inevitabile esito di una forma specifica di organizzazione economica e sociale, che ha un preciso “nome storico” che non si osa quasi più pronunciare: capitalismo.

Una formazione economica e sociale che tende a mercificare tutto, quindi anche il gioco. Tanto che dal gioco ricreazione, fatto con materiali riciclati o comunque riutilizzabili in vari tipi di gioco, si è arrivati a giochi che sono merci, con tanto di nomi commerciali e di marchio, che acquistano un “valore” aggiuntivo “di scambio”, svincolato dal “valore d’uso” che se ne fa. Giochi che, come ogni merce, vengono tradotti in magliette, album di figurine, t-shirt, gadget di vario tipo. Dotati di spot, sponsorizzazioni, modi di comportamento, ecc. Insomma tutto l’armamentario dell’”industria del divertimento” e di quella culturale o pseudo-culturale, che, prendendo a pretesto il gioco, ne fanno strumento di mercimonio e di affari.

Veicolo ideologico e anche di diffusione di “falsa coscienza”, della felicità-consumo (“mio” e “oggi”), senza passato e senza futuro (“usa e getta”).

Un’industria che più che ad avere dei giochi per divertirsi, porta ad avere dei giochi per possedere, ad imitare e a copiare, per evitare di sentirsi privati di qualche cosa. Pena l’infelicità dei consumatori-bambini sempre più assimilati ad adulti; e di adulti sempre più assimilati e simili a dei bambini. L’uomo ridotto a puro oggetto del business e del mercato non è distinguibile per fasce di età. Prova ne sia che per pubblicità e TV, tra trasmissioni e giochi adultizzati dei bambini e trasmissioni e giochi infantilizzati degli adulti, non c’è più differenza alcuna. Proprio per questo i programmi TV (e molti cinematografici) non sono più adatti a nessuno perché sono adatti a tutti.

Il tutto secondo i brevetti pervasivi della colonizzazione culturale capitalistica del mondo, che non tralascia di usare alcun che comprese tecnologia e ricerca scientifica ormai affatto libera, finanziata e assoggettata, come è, alle forme organizzate della produzione economica capitalistica. 

Il capitalismo non tralascia alcun che. Così è diventato la cosa più importante e più criticata che ogni mattina troviamo sulla terra. E’ impopolarissimo: da chi critica gli effetti sull’ambiente, a chi protegge i bambini, a chi si occupa degli effetti di malattie provocate “mucche pazze”, stress, droghe, uranio, disoccupazione, povertà, fame: tutti quotidianamente né lamentano gli effetti, senza sapere o volere risalire e identificarne le cause. Assistiamo all’inefficacia di questa opposizione Generale, perché non si sa, o non si vuole, arrivare ad un giudizio sui meccanismi dell’economia capitalistica.

Esiste, nella teoria dei giochi, anche il gioco contro natura. La natura si vendica, sempre più frequentemente. Gli uomini invece no. Perché gli uomini per avere coscienza e consapevolezza hanno bisogno di strumenti di analisi critica e autonoma. Occorre un pensiero forte e critico come quello a cui hanno scientemente rinunciato, quasi con gioia e senso di liberazione, i cosiddetti esperti e uomini politici, che si credono moderni perché parlano di globalizzazione. Senza neanche immaginare che Marx aveva già affrontato la questione 100 anni prima della nascita di Bill Gates e delle “tigri asiatiche”, della proliferazione dei McDonald’s e dello spostamento del potere finanziario verso il Pacifico da lui preconizzato. Ciò che invece Marx non aveva previsto – come nel suo recente libro ha scritto un giornalista britannico del Guardian di Londra – è che la sua opera venisse messa in soffitta dalla “sinistra postmoderna”; e che lui “venisse improvvisamente salutato come un genio dai malvagi capitalisti borghesi” quando, nel 1997, un numero speciale del “New Yorkerproclamò Karl Marx “il prossimo grande pensatore del terzo millennio”: un uomo che ha molto da insegnarci in fatto di corruzione politica, tendenze monopolistiche, alienazione, povertà, disuguaglianze e mercati globali.

Il gioco è una cosa seria…ultima modifica: 2011-12-14T08:22:00+01:00da iskra2010
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